Pubbl. Mer, 23 Dic 2020
Luci e ombre sul presunto confine tra l´amministratore di fatto e l´amministratore di diritto ex D.lgs. n. 231/2001
Modifica paginaIl presente elaborato si propone di analizzare, alla luce della più acclarata dottrina ed attuale giurisprudenza, il confine tra le figure dell’amministratore di fatto e dell’amministratore di diritto in relazione non solo alla normativa ex D.lgs. n. 231/2001 ma anche all’accertamento e ai criteri d’imputazione ad essi ascrivibili. Nello specifico, l’articolo pone delle serie criticità sul criterio pretorio della “generica colpevolezza” auspicando, invero, un controllo più intenso da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità circa l’accertamento in capo all´amministratore di diritto di una responsabilità penale a titolo di concorso omissivo nel reato commissivo.
Sommario: 1. Premessa: i soggetti responsabili e l’onus probandi; 2. L’amministratore di fatto ex art. 2639 cod. civ.; 3. L’amministratore di diritto; 4. Osservazioni conclusive
1. Premessa: i soggetti responsabili e l’onus probandi
Già prima dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 231/2001, complici anche le spinte derivanti dalle fonti normative internazionali ed europee[1], la letteratura scientifica[2] più attenta iniziò a mature la convinzione che i tradizionali archetipi sanzionatori rivolti esclusivamente alle persone fisiche risultassero, nella realtà imprenditoriale, irrimediabilmente inadeguati qualora si rendesse necessario, per specifiche e peculiari ipotesi di reato, non solo punire il soggetto autore della fattispecie penale ma anche le singole organizzazione plurisoggettiva nel cui interesse o vantaggio veniva commesso l’illecito.
Proprio in virtù di tali considerazioni il legislatore, nel 2001, diede iniziò ad una vera e propria rivoluzione copernicana in tema di criminalità d’impresa istituendo, all’interno del panorama penalistico, una nuova forma di responsabilità conseguente da reato la quale, allo stesso tempo, non solo risulta autonoma, diretta e tassativa ma anche poliedrica ed affine rispetto a quella tradizionalmente prevista a carico delle persone fisiche che materialmente abbiano posto in essere l’illecito.
Sul punto, la precipua colpevolezza riconosciuta in capo all’ente, secondo i dettami statuiti dall’art. 5 co.1 del D.lgs. n. 231/2001, si configurerebbe qualora la fattispecie incriminatrice non solo sia commessa da un suo soggetto apicale o sottoposto ma anche quando la stessa si inquadri in una precisa politica aziendale o, quantomeno, sia riconducibile ad una c.d. colpa di organizzazione consistente, quest’ultima, nella mancata adozione di specifici provvedimenti o atti volti ad impedire la commissione di una delle tassative ipotesi di reato elencate negli artt. 24 e ss.
Ciò posto, nella realtà fattuale, la molteplicità delle attività e degli adempimenti che le singole organizzazioni plurisoggettive compiono all’interno del proprio tessuto economico-sociale di riferimento, rende estremamente complessa l’attribuzione della responsabilità penale a quei soggetti, sai essi apicali o sottoposti, che materialmente operano al suo interno.
Nello specifico, sotto il profilo dell’accertamento di tale responsabilità, di peculiare interesse risulta essere il regime dell’onus probandi il quale si declina diversamente a seconda della posizione ricoperta dal soggetto agente all’interno della compagine societaria.
Infatti, la norma di riferimento prevede che, nel caso in cui la fattispecie incriminatrice venga posta in essere da un soggetto apicale, si ravvisi una sorta di immedesimazione tra l’ente e il suo vertice, richiedendo che, per andare esente da addebito, l’organizzazione plurisoggettiva debba vincere una sorta di presunzione di sussistenza della c.d. colpa d’organizzazione, dimostrando, da un lato, la perfezione del proprio sistema prevenzionistico e, dall’altro, che detto sistema sia stato fraudolentemente aggirato da parte dell’autore del reato.
Ex adverso, nell’ipotesi in cui la fattispecie penale sia commessa da un soggetto in posizione subordinata, l’onere della prova che la realizzazione dell’illecito sia stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza da parte degli apicali viene posto in capo alla pubblica accusa.
Tale inosservanza, infine, come esplicato dall’art. 7, co. 2 del D.lgs. n. 231/2001, viene esclusa qualora l’organizzazione plurisoggettiva dimostri di aver tempestivamente adottato e dato efficace attuazione ad un Modello Organizzativo di Gestione e Controllo ex art.6, idoneo a prevenire la commissione di reati della stessa specie di quello verificatosi.
2. L’amministratore di fatto ex art. 2639 cod. civ.
L’esercizio sostanziale dell’attività d’impresa può dar luogo ad un fenomeno analogo a quello determinato dal compimento di singoli atti giuridici tramite un mandatario senza rappresentanza ex art. 1705 cod. civ.[3] venendosi a creare, in tal modo, dissociazioni fra il soggetto a cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore ed il reale interessato, il cd. “esercizio d’impresa tramite interposta persona”.
Invero, la tradizionale giurisprudenza[4] negava in radice l’ammissibilità della generale figura dell’amministratore di fatto, ammettendone la configurabilità solo nei casi in cui vi fosse stata una investitura formale ma irregolare, ovvero nel caso di deliberazione di nomina nulla, invalida o implicita ove, proprio in relazione a tale ultimo caso, la nomina costituirebbe, in realtà, un presupposto non espresso ma indefettibile di una deliberazione avente un oggetto diverso come, ad esempio, quella di approvazione del bilancio.
Inoltre, la possibilità, in materia di reati societari, di creare estensioni della responsabilità penale verso quei soggetti che solo fattualmente esercitano i poteri tipici ascrivibili a determinate cariche sociali quali, ad esempio, gli amministratori, i liquidatori, i sindaci, etc., porrebbe, già di per sé, forti tensioni con i principi cardini del nostro ordinamento penale.
La nomina alla carica, dunque, assurgerebbe a condicio sine qua non per l’imputabilità di eventuali reati non venendo in rilievo, in tal senso, l’esercizio effettivo e sostanziale dei poteri che ne conseguono; detto altrimenti, il soggetto che sostanzialmente svolge le funzioni apicali o dirigenziali senza mandato o nomina risponderebbe, secondo tale impostazione, al massimo, in concorso ex art. 110 c.p. con l’agente che, al contrario, risulta invece l’effettivo destinatario, attraverso un puntuale atto di conferimento, di quei precipui poteri decisionali e di gestione idonei a dettare e/o coordinale l’attività d’impresa.
Tale assunto, però, pur essendo in sintonia con il dato formale dell’atto di nomina, rischia di prefigurare forme intollerabili di responsabilità oggettiva, ove il soggetto viene considerato, per la semplice qualifica ricoperta, unico e solo responsabile delle condotte oggetto di accertamento penale, in piena violazione del principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost.
Infatti, secondo un illustre orientamento ermeneutico[5], riconoscere la punibilità di agenti diversi da coloro i quali ricoprono formalmente un ruolo riconosciuto dalla legge civile all’interno dell’ente equivarrebbe a violare, in maniera diretta, il divieto di interpretazione analogica del precetto penale.
Pertanto, non avrebbe rilevanza alcuna l’accertamento di un previo atto d’investitura formale dovendosi, invece, ritenere decisivo in fase di accertamento il dato funzionale e sostanziale dell’atto di conferimento, ovvero l’effettivo esercizio di quei poteri che la legge associa a quella determinata carica sociale.
Il legislatore, recependo tali coordinate, nonché le prime aperture della giurisprudenza di legittimità volte ad affermare la diretta ed autonoma punibilità dell’amministratore di fatto che avesse integrato una delle fattispecie delittuose ex artt. 2621 cod. civ. e ss. nell’esercizio di una tipica funzione di gestione, introduce dell’art. 2639 cod. civ., rubricato: “Estorsione delle qualifiche soggettive”[6], il quale statuisce, come in seguito più volte ribadito dalla stessa Corte di Cassazione[7], che in materia societaria è ravvisabile la figura dell'amministratore di fatto ogni qual volta sia stato accertato l'avvenuto inserimento, senza un puntuale atto a ciò destinato, di un soggetto nella gestione effettiva dell’impresa, desumibile quest’ultima, dalla qualità delle direttive impartite e dal condizionamento che le stesse hanno all’interno delle scelte operative in modo continuativo e significativo ovvero non episodica od occasionale.
L’intento della norma, quindi, risulterebbe essere teso a proteggere plurimi e differenti interessi e beni giuridici, quali la trasparenza e la correttezza delle informazioni che prevengono dalla società, l’effettiva esistenza del capitale sociale, l’integrità del patrimonio sociale, il corretto funzionamento della società e del mercato a cui la stessa si riferisce nonché le funzioni di vigilanza sulle tipiche attività d’impresa.
In particolare, la disposizione, ad un’attenta analisi, introdurrebbe invero due distinte previsioni con l’intento di ampliare il novero dei possibili soggetti attivi dei reati societari prevedendo, al contempo, sia un criterio di tipo quantitativo-temporale legato alla continuità dell’esercizio della funzione, sia un parametro qualitativo finalizzato a valorizzare e a sottolineare che l’esternalizzazione dei poteri di fatto non debba rispondere a parametri di occasionalità e saltuarietà bensì di abitualità, continuità e autonomia decisionale[8].
Ancora, il giudizio sulla significatività e continuità dell’esercizio dei poteri amministrativi non risponderebbe né a criteri astratti e predeterminati né riposerebbe su mere considerazioni di ordine quantitativi, bensì sulla rilevanza e sul peso dell’atto di amministrazione all’interno della vita dell’organizzazione plurisoggettiva e sugli effetti che da esso scaturiscono per l’economia della società.
Quanto alla portata dell’equiparazione, si è chiarito che sia il soggetto di diritto che il soggetto di fatto sono considerati destinatari di tutti i medesimi obblighi e poteri indi per cui, su quest’ultimo, vengono a gravare l’intera gamma dei doveri a cui è tenuto il corrispondente soggetto di diritto, assumendo rilievo anche la colpevole e consapevole inerzia a fronte del verificarsi di ogni evento da altri cagionato ed a costui imputato ex art. 40 co. 2 c.p.
A sostegno di tale assunto, altra giurisprudenza di legittimità[9], ha sottolineato che, in presenza di taluni presupposti, al soggetto formalmente investito di una qualifica o di una funzione rilevante in ambito societario può e deve essere equiparato, ai fini del riconoscimento della responsabilità penale, il soggetto che esercita in via di mero fatto i poteri tipici inerenti alla qualifica ed alla funzione medesima.
Inoltre, per compiutezza, si deve osservare che per gli specifici reati di bancarotta fraudolenta ex artt. 216[10] e 217[11] della L. Fall., viene considerato, quale soggetto attivo, anche colui il quale svolga in via di mero fatto la funzione di amministratore in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi non venendo in rilievo, quindi, alcuna distinzione tra ruoli di diritto o analoghe funzione esercitata in via di fatto.
Tali paradigmi interpretativi, infine, hanno trovato un ulteriore eco proprio all’interno del D.lgs. n. 231/2001 in quanto il legislatore delegato nel prevedere all’art. 5[12] la responsabilità penale a carico dell’ente qualora una delle fattispecie di reato di cui agli artt. 24 e ss. venga posta in essere da uno dei soggetti apicali o sottoposti, specifica, facendo propri gli spunti pretori e dottrinali sul concreto esercizio dell’attività d’impresa, che l’accertamento penale non può basarsi esclusivamente e superficialmente sull’esistenza o meno di un atto di nomina idoneo a fondare i poteri di gestione e controllo.
Anzi, il legislatore delegato, statuendo esplicitamente la responsabilità dell’ente anche nel caso in cui la fattispecie di reato viene posto da chi, anche di fatto, gestisce e controlla la direzione imprenditoriale dello stesso, ammette, indissolubilmente, la non necessaria sussistenza di un atto di nomina formale e ufficiale equiparando, pertanto, ai fini sanzionatori, sia l’amministratore di diritto che l’amministratore di fatto.
3. L’amministratore di diritto
Le considerazioni suesposte pongono, anche in riferimento al D.lgs. n. 231/2001, delle rilevanti questioni attinenti alla figura dell’amministratore di diritto, ovvero colui il quale riveste formalmente, attraverso un tipico atto di nomina, la funzione di indirizzo e gestione dell’attività imprenditoriale.
Ci si chiede, nello specifico, se in capo a tale soggetto possa riconoscersi una posizione di garanzia idonea a far sì che lo stesso risponda di uno degli illeciti ex art. 24 ss. a titolo di concorso con l’amministratore di fatto, vero artefice della condotta delittuosa.
Secondo una parte della dottrina[13], riconoscere la colpevolezza in concorso degli amministratori di diritto in quanto, sia per la loro precipua posizione e sia per la presenza di un specifico atto di nomina, non potevano non conoscere il perpetrarsi dell’illecito penale significherebbe, sostanzialmente, riaffermare la sussistenza di una responsabilità oggettiva, in palese violazione dell’art. 27 Cost.
Infatti, l’art. 2392 del cod. civ.[14], seppur imponga all’amministratore precisi obblighi di vigilanza, nonché ne affermi una responsabilità solidale qualora lo stesso conosca fatti pregiudizievoli e non si attivi ad impedirne il compimento o ad eliminarne le conseguenze dannose, non statuisce, neanche indirettamente, che l’amministratore di diritto possa rispondere esclusivamente in quanto destinatario dell’atto di nomina.
La norma, dunque, richiede un quid pluris al fine di fondare un rimprovero, soprattutto se a titolo di concorso, ovvero la conoscenza dei fatti pregiudizievoli.
Ex adverso la giurisprudenza maggioritaria, nel tentativo di diradare sia i dubbi interpretatiti nonché di fornire un’esatta definizione di quanto debba essere intensa la cd. “conoscenza dei fatti pregiudizievoli” idonea a fondare un rimprovero penale a titolo di concorso con l’amministratore di fatto, ha ribadito, in due recentissime sentenze in tema di bancarotta, che
"[…] non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all’interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40, comma secondo, c.p., l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire e cioè nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita […][15]» nonché statuito che «[…] l’amministratore di diritto risponde in concorso con l’amministratore di fatto anche quando risulti aver avuto solo generica consapevolezza che quest’ultimo abbia posto in essere condotte depauperative del patrimonio sociale, senza che sia necessario provare che egli sia stato consapevole di tutti i singoli investire i singoli episodi nei quali l’azione dell’amministratore di fatto si è estrinsecata.
La sentenza impugnata, nell’affermare che il ricorrente sia concorso nei reati di cui si tratta quale amministratore di fatto della fallita, non ha inteso sostenere che egli fosse un mero prestanome del congiunto e che dunque si fosse sostanzialmente astratto dalla gestione della fallita. Né il ricorso prospetta quali sarebbero gli elementi che sosterrebbero una siffatta conclusione. In realtà la lamentela è viziata in radice dalla presunzione (del tutto infondata) che amministratore di diritto e amministratore di fatto non possano concorrere attivamente nella gestione e cioè che il protagonismo dell’uno necessariamente escluda quello dell’altro […][16]"
Segnatamente, secondo tali coordinate, a carico dell’amministratore di diritto per l’imputazione in concorso omissivo nel reato commissivo posto in essere dall’amministratore di fatto risulta sufficiente la sola generica consapevolezza che costui distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali.
Tale colpevolezza, come osservato[17], se da un lato non deve investire i singoli episodi nei quali l’azione dell’amministratore di fatto si è intrinsecata, dall’altro non può essere desunta dal semplice consenso dell’amministratore di diritto a ricoprire formalmente la carica di amministratore.
Diversa considerazione viene, invece, posta in relazione all’accettazione del ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fungere da c.d. “prestanome” in quanto, secondo un orientamento pretorio[18] ormai ampiamente acclarato, la sola consapevolezza che dalla propria condotta possano scaturire gli eventi tipici del reato o l’accettazione del rischio che questi si verifichino, è di per sé sufficiente a fondare la responsabilità penale stante la precipua posizione di garanzia da lui ricoperta, volta alla vigilanza e al controllo sull’operato della società come statuito dall’art. 2392 cod. civ.
4. Osservazioni conclusive
Il sempre più spesso ricorrere da parte della giurisprudenza di legittimità all’elemento della generica colpevolezza per fondare una responsabilità in concorso omissivo nel reato commissivo dell’amministratore di fatto, nonché il far discendere tale addebito dalla mera accettazione del rischio di essere una c.d. “testa di paglia”, - a parere di chi scrive - si porrebbe in netta distonia sia con i principi enucleati all’interno dell’art. 27 Cost. nonché con la stessa concezione normativa del principio di colpevolezza.
Infatti, secondo tale elaborazione, ormai ampiamente accolta dalla dottrina prevalente, la colpevolezza non consiste in un semplice processo psicologico ma si identifica in un giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà, sia esso effettivo o meramente potenziale, rispetto alla norma giuridica.
La teoria normativa, quindi, offre un concetto graduabile di colpevolezza che si modella sulla maggiore o minore antidoverosità della volontà del soggetto agente consentendo, in tal guisa, una corretta individualizzazione del relativo giudizio di responsabilità penale che, pertanto, dovrebbe andare ben oltre ad una constatazione di una generica colpevolezza.
Inoltre, il ritenere automaticamente sussistente l’accettazione del rischio di reato a seguito della mera consapevolezza di essere una c.d. “testa di paglia” al momento dell’atto di nomina configurerebbe una classica ipotesi di responsabilità oggettiva, in palese violazione degli storici dettami costituzionali[19] in tema di colpevolezza ex art. 27 Cost.
Nello specifico, seguendo tali coordinate, l’amministratore di diritto risulterebbe responsabile finanche a titolo di dolo eventuale quando, in realtà, sullo stesso graverebbero dei meri obblighi di diligenza.
Ciò posto, lungi dall’affermare una non punibilità dell’amministratore di diritto si vuole porre, come argutamente osservato anche da attenta letteratura scientifica[20], l’accento sulla necessità di un controllo più intenso della giurisprudenza di merito e di legittimità sull’accertamento della responsabilità di tale soggetto in concorso con l’amministratore di fatto.
Infatti, tale indagine dovrebbe fondarsi non solo sulla tipica e mera assunzione della formale posizione di garanzia e controllo ma anche, e soprattutto, sulla concreta ed effettiva conoscenza o consapevolezza di quest’ultimo di rafforzare con le proprie azioni il proposito criminoso dell’amministratore di fatto.
Detto altrimenti, al fine dell’imputazione all’amministratore di diritto, seppur a titolo di concorso, di una responsabilità colposa per un illecito doloso deve essere valutata, parimenti alla posizione formale di garanzia, la configurabilità di un contributo attivo, anche di tipo morale, sotto forma di stimolo o incentivo all’azione delittuosa.
Le suesposte considerazioni devono essere pedissequamente trasferite all’interno della disciplina dettata dal D.lgs. n. 231/2001 in quanto, ai fini sanzionatori per i reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, l’accertamento della responsabilità di chi materialmente ha posto in essere l’illecito non può soffermarsi al mero e semplice atto di nomina o, diversamente, sulla generica colpevolezza dell’amministratore di diritto.
Anche in tale particolare procedimento, pertanto, risulta estremamente necessaria una più precisa e puntuale analisi circa la responsabilità a carico dell’amministratore di diritto, stante sia la particolarità dei criteri soggettivi e oggettivi di ascrizione del reato sia le precipue sanzioni che regolano la materia.
Infatti, se così non fosse l’amministratore di diritto si troverebbe ad essere coimputato insieme all’amministratore di fatto in un procedimento penale a carico dell’ente in base ad una generica colpevolezza o ad un mera accettazione del rischio del reato derivante da un formale atto di nomina quando, in realtà, non riveste, sostanzialmente, alcuna funzione di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o, parimenti, di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziare e funzionale.
[1] Si fa riferimento alla Raccomandazione (88)18 del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa e sollecitava gli Stati Membri a prevedere forme di responsabilità penale anche delle società nonché alla Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità europee (Bruxelles, 26 luglio 1995), alla Convezione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali.
[2] K.TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, fasc. 3, p. 625; C. BERTEL, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998; J. FARIA COSTA, Contributo per una legittimazione della responsabilità penale delle persone giuridiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 1993, fasc. 4, pp. 1238 ss.; V. MILITELLO, La responsabilità penale dell’impresa societaria e dei suoi organi in Italia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1992, p. 102.
[3] L’articolo, rubricato proprio “Mandato senza rappresentanza” recita: «Il mandatario che agisce in proprio nome acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi, anche se questi hanno avuto conoscenza del mandato.
I terzi non hanno alcun rapporto col mandante. Tuttavia il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare i diritti di credito derivanti dall'esecuzione del mandato, salvo che ciò possa pregiudicare i diritti attribuiti al mandatario dalle disposizioni degli articoli che seguono».
[4] Cass. Civ. n. 6493/1985, in www.cortedicassazione.it.
[5] C. PEDRAZZI, “Reati commessi dal fallito, Reati commessi da persona diversa dal fallito, Artt. 216-227” in Commentario Scialoja-Branca, (a cura di) F. GALGANO, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 259.
[6] La norma recita: «Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.
Fuori dei casi di applicazione delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall’autorità giudiziaria o dall’autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi».
[7] Cass. Pen. Sez. V, n. 35346/2013 e Cass. Civ. Sez. V, n. 2586/2014, in www.cortedicassazione.it;
[8] Cass. Pen. Sez. V. n. 7203/2008, in www.cortedicassazione.it.
[9] Cass. Pen. Sez. V. n. 7044/2009, in www.cortedicassazione.it.
[10] L’articolo, rubricato “Bancarotta fraudolenta”, statuisce: «E' punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti; 2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a se' o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
La stessa pena si applica all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.
E' punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».
[11] L’articolo, rubricato “Bancarotta semplice”, statuisce: «E' punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell'articolo precedente: 1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica; 2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; 3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; 5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.
La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall'inizio dell'impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.
Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni».
[12] L’articolo, rubricato “Responsabilità dell’ente” statuisce: «L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio: a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a). L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi».
[13] V. CARDONE, F. PONTIERI, Bancarotta fraudolenta e responsabilità penale dell’amministratore, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, p. 266 e ss.; C. PEDRAZZI, Reati commessi dal fallito, Reati commessi da persona diversa dal fallito, Art. 216-227, in Commentario Scialoja-Branca, (a cura di) F. GALGANO, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 81 e ss.
[14] L’articolo, rubricato “Responsabilità verso la società” statuisce: «Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori.
In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell'articolo 2381 cod. civ., sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.
La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale».
[15] Cass. Pen. Sez. V n. 50509/2018, in www.cortedicassazione.it.
[16] Cass. Pen. Sez. V n. 10633/2019, in www.cortedicassazione.it.
[17] F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale (a cura di) C. F. GROSSO, Vol. II, ed. 12, Giuffrè, Milano, 2008, p. 199 ss.
[18] Cass. Pen. Sez. V, n. 7208/2006, CED Cass. pen. 2006, RV. 233637, in www.cortedicassazione.it
[19] Cort. Cost. n. 364/1988 e Cort. Cost. n. 1085/1998, in www.cortecostituzionale.it
[20] N. MAZZACUVA, E. AMATI, Diritto penale dell’economia, problemi e casi, ed. II, CEDAM, Padova, 2013, p. 16.