Pubbl. Mar, 15 Dic 2020
Le azioni di mero accertamento negativo e l´onere della prova nell´opposizione di merito ad un precetto.
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Michele Nolasco
Con la presente nota ad ordinanza si pone l´accento sull´importanza della determinazione dell´onere della prova in materia processuale che grava sulle parti del processo, con precipuo riferimento alla materia dell´opposizione all´esecuzione. Invero, l´inversione di ruoli che si determina con l´opposizione all´atto di precetto non comporta anche il capovolgimento dell´onere probatorio circa della pretesa fatta valere. L´ordinanza con cui la Corte cassa e rinvia la sentenza al giudice del gravame, dunque evidenzia l´errore nella valutazione dei fatti e nell´individuazione della parte cui spettava la dimostrazione di quanto oggetto del giudizio promosso.
Sommario: 1. Introduzione.- 2. I motivi di opposizione.- 2.1 Difetto originario e sopravvenuta inesistenza del titolo.- 2.2 Impignorabilità dei beni. -2.3 Contestazione del diritto. -3. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte. -4. Gli istituti coinvolti. -5. La natura del giudizio di opposizione. -6. Cassazione della sentenza e conclusioni.
1. Introduzione
L’opposizione al precetto, che si innesta nella fase esecutiva del processo civile, rappresenta una concatenazione di attività volta ad impedire il soddisfacimento coattivo di una posizione creditoria avente la sua natura in un titolo esecutivo.
Il processo esecutivo, però, mal si concilia con la possibilità di far valere contestazioni, poiché non vi sono al suo interno "controversie da decidere, ma diritti da attuare"[1] e dunque non è ipotizzabile che il debitore possa paralizzarne il funzionamento. Ciò non significa, però, che il titolo esecutivo alla base dell’omonimo processo non possa essere viziato o addirittura inesistente e dunque l’ordinamento ha previsto lo strumento delle opposizioni affinché il debitore possa far valere le sue ragioni. L’opposizione all’esecuzione instaura un giudizio di cognizione ordinaria con cui l’istante agisce per mettere in discussione, ai sensi dell’art. 615 del codice di rito, il diritto del creditore istante di procedere ad esecuzione forzata. In passato, il codice del 1865 non disciplinava in modo espresso e compiutamente organizzato il rimedio in esame. A tale positivizzazione s’è addivenuti con il codice del 1942, che organizza la materia e prevede le opposizioni come un numerus clausus[2].
Per tale ragione, i motivi di opposizione sono predeterminati dal legislatore e, prima di procedere nella presente trattazione, sarà utile una sommaria indicazione degli stessi, in disparte ogni riferimento a quella parte di dottrina che ritiene che tale elencazione non sia tassativa bensì suscettibile di ampliamento ad opera di fonti diverse da quella legislativa.
La comprensione dei motivi di opposizione indicati dalla legge, della natura del giudizio che si instaura a seguito di opposizione da parte del debitore e delle connesse tematiche sono tutti elementi imprescindibili per la corretta disamina dell’ordinanza in esame.
Invero, la comprensione dell’errore in cui è incorsa la Corte d’Appello la cui sentenza è stata cassata non può prescindere dalle preliminari questioni sopra accennate e nel cui prosieguo si avrà modo di approfondire.
2. I motivi di opposizione
I motivi di opposizione all’esecuzione sono tutti quei fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto a procedere ad esecuzione forzata, cioè i fatti idonei a dimostrare l’inesistenza – originaria o sopravvenuta – del titolo esecutivo che regge l’intera esecuzione.
L’opposizione può essere preventiva, quando trae origine dall’atto di precetto notificato al debitore esecutato e si innesta in una fase antecedente alla materiale esecuzione volta all’apprensione dei beni ovvero successiva, quando l’esecuzione non è stata solo annunciata tramite precetto bensì è in corso d’opera[3].
Ai sensi dell’art. 615 e ss. c.p.c. tali motivi sono: il difetto originario del titolo esecutivo; la sopravvenuta inesistenza del titolo; l’impignorabilità dei beni; la contestazione del diritto contenuto nel titolo, che rappresenta la c.d. opposizione di merito e che, come avremo modo di illustrare, rappresenta il caso di specie che ha portato all’ordinanza della Cassazione con la quale cassa la sentenza della Corte di Brescia e rinvia alla stessa con l’enunciazione del principio da adottare per la decisione della controversia a lei sottoposta.
2.1 Difetto originario e sopravvenuta inesistenza del titolo
Nonostante la trattazione unitaria di questi due vizi del titolo all’interno di questo sottoparagrafo – e senza alcuna pretesa di completezza ma con il mero scopo di una esposizione riepilogativa– è bene un preliminare appunto: come pacificamente affermato, la validità del il titolo esecutivo non deve sussistere solo all’inizio della fase esecutiva ma permanere per tutta la sua durata[4].
Ciò comporta che il titolo esecutivo alla base dell’omonimo processo possa essere affetto da vizi originari o sopravvenuti e che tale distinzione debba essere tenuta a mente nel corso di tutta la trattazione.
Rientrano tra i difetti originari tutti quei vizi che impedisco no al titolo di essere dotato degli elementi di cui all’art. 474 c.p.c. come, a mero titolo esemplificativo, i decreti ingiuntivi non esecutivi ovvero le sentenze di mero accertamento e non di condanna ovvero ancora le sentenze emesse nei confronti di soggetti inesistenti; titolo esecutivo sprovvisto dei requisiti di liquidità, certezza ed esigibilità; sentenza affetta da vizi così gravi da comportare la sua inesistenza.
Ed ancora: quando – come molto spesso accade – il titolo non è oggetto di un giudizio bensì s’è formato stragiudizialmente, l’opposizione per difetto originario può trarre origine a causa della redazione dello stesso da parte di un pubblico ufficiale incompetente o incapace; ovvero quando l’assegno bancario o postale non rispetta i requisiti previsti ex lege per la sua esecutività. In uno dei primi esempi qui trascritti, il decreto ingiuntivo non è esecutivo ed è ancora oggetto di opposizione da parte ingiunta.
L’originario difetto del titolo non è in alcun modo sanabile nel corso della fase esecutiva.
Appartengono alla differente categoria dei titoli affetti da vizi sopravvenuti quelli che trovan ragion d’essere in una sentenza cassata o riformata ovvero in un decreto ingiuntivo privato di esecutività. In passato, prima delle riforme che hanno interessato il codice di rito negli anni, costituiva un vizio sopravvenuto anche la revoca della esecutorietà della sentenza di primo grado, che ad oggi può essere sospesa ex lege dal giudice dell’appello quando ne ravvisi giustificate ragioni o dal giudice dell’opposizione o della revocazione.
Proprio con riferimento al decreto ingiuntivo, la giurisprudenza ha ritenuto che sia vizio caducante anche la mancata notificazione nel termine previsto ex lege[5].
2.2 Impignorabilità dei beni
L’art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, salvo le limitazioni previste dalla legge.
Tali limitazioni connotano la categoria dei beni impignorabili.
L’art. 615 c.p.c., infatti, al secondo comma prevede espressamente che possa farsi valere l’impignorabilità assoluta di beni, previsti dall’art. 514 c.p.c., come le cose sacre, i beni strettamente personali, indispensabili per la vita quotidiana ed il sostentamento, i crediti alimentari e l’impignorabilità relativa di cui all’art. 515 c.p.c. riguardante quei beni che possono essere pignorati solo in presenza di particolari condizioni o circostanze temporali.
Con la previsione di detto motivo di opposizione, il legislatore ha voluto fortemente evidenziare come l’assoggettamento di determinati beni – per l’appunto impignorabili – costituisca non un atto di esecuzione illegittimo ma un vero e proprio difetto del diritto di procedere ad esecuzione sopra tali beni[6].
2.3 Contestazione del diritto contenuto nel titolo esecutivo
Con questa opposizione, c.d. di merito, si contesta l’esistenza del diritto di credito che muove l’intera azione esecutiva.
Si è soliti esperire tale opposizione quando si è verificato un fatto estintivo dell’obbligazione; quando v’è stata una transazione prima dell’emissione del titolo ovvero quando l’obbligazione è stata adempiuta, come nel caso che ispira la presente trattazione.
Nel presente giudizio, la questione relativa all’esistenza del diritto rappresentato nel titolo esecutivo è ritenuta questione pregiudiziale e spetterà al giudice risolverla per la corretta definizione del giudizio pendente, anche se questa potrà altresì formare oggetto di una autonoma domanda e di un autonomo giudizio, secondo il noto fenomeno della pregiudizialità dipendenza tra diritti o rapporti giuridici
3. Il caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte
Nell’articolato e complesso mondo giuridico, non è mai accaduto che un operatore potesse negare la difformità di vedute esistente con riferimento alla qualificazione della natura di un istituto o circa la corretta applicabilità dello stesso in ambito processuale.
Se da un lato non irrilevante che tali dottrine possono addivenire ad un confronto a distanza di anni e dunque, coesistere quando una delle due può dirsi già superata, dall’altro vi sono situazioni in cui è la stessa natura evolutiva del diritto a determinare la sussistenza di visioni non conformi, frutto di un mutamento, sia esso avvenuto ad opera del legislatore o sia quando è frutto della funzione nomofilattica della Suprema Corte.
L’ordinanza oggetto del presente commento, però, sottopone all’attento occhio dell’interprete un caso particolare che nulla ha a che vedere con un revirement o un intervento legislativo novativo, bensì rappresenta un caso scolastico sotto duplice aspetto: da un lato, richiede ai giudici l’applicazione di granitici orientamenti giurisprudenziali; dall’altro, mostra un tradizionale esempio di sentenza cassata e rinviata all’organo emanante.
Invero, con il caso da cui trae origine il provvedimento de quo, si sottolinea come la presenza di una costante e pacifica interpretazione giurisprudenziale non impedisca ai giudici – siano essi monocratici ovvero collegiali – di deragliare e ritrovarsi volenti o nolenti in terreni inesplorati.
A ciò si aggiunga che, al giorno d’oggi, v’è quasi una predisposizione a trattare in modo benevolo parte debitrice, spesso ritenuta la parte debole di un rapporto, identificando nel creditore la parte meno meritevole di tutela, tanto da dover far interpellare tutti i giudici nazionali per poter ottenere il riconoscimento delle proprie – possiamo anticiparlo: fondate – ragioni.
Con la recentissima ordinanza n. 24693 del 5 novembre 2020, il Supremo Collegio ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Brescia con cui il giudice collegiale errava nell’individuazione del corretto onere probatorio nell’ipotesi di opposizione a precetto ed estinzione del debito.
Con atto di opposizione a precetto di pagamento, una coppia di debitori contestava le pretese creditorie, fondate sulla presenza di 21 titoli di credito cambiario dell’importo di euro 990,00 ciascuno, con cui i due ritenevano di aver adempiuto al pagamento del debito di euro 22.211,40.
I debitori precettati, difatti, eccepivano l’intervenuto pagamento di quanto da loro dovuto e producevano documentazione attestante il pagamento complessiva della somma di euro 34.040,00.
Il creditore replicava sottolineando che dette cambiali afferivano a differente obbligazione pecuniaria sorta tra le parti, producendo a tal fine una dichiarazione attestante che uno dei due soggetti debitori s’era impegnato per un importo totale di euro 65.340,00.
Per tale ragione, il Tribunale di Bergamo riteneva fondata l’opposizione a precetto e accoglieva le doglianze avanzate da parte opponente, la quale aveva prodotto in giudizio gli assegni. Il tribunale, difatti, riteneva che fosse compito del creditore procedente dover provare la sussistenza di altri rapporti obbligatori, differenti da quelli per cui le parti debitrici avevano provveduto ad adempiere con i menzionati titoli.
Il creditore “sconfitto” subiva una nuova pronuncia sfavorevole anche dinanzi alla Corte di Brescia ma ciò non placava la necessità di far valere le sue ragioni, motivo per cui chiedeva la cassazione della sentenza di secondo grado al competente Giudice romano.
4. Gli istituti coinvolti
È di tutta evidenza, dunque, la necessità di una disamina preliminare del primo istituto richiamato dal caso de quo, afferente alla determinazione del credito che s’intende soddisfare con il pagamento effettuato, ai sensi e per l’effetto dell’art. 1993 c.c. e del soggetto cui spetta tale onere probatorio in mancanza di puntuale indicazione.
La norma, difatti, fa riferimento alla possibilità che un soggetto abbia più posizioni debitorie nei confronti del medesimo creditore. In siffatta ipotesi, ad ogni corresponsione di somme dovrà indicare a quale credito imputare il pagamento.
Orbene, lo stesso art. 1993 si premura di specificare cosa accade in caso di mancata indicazione, con una serie di criteri che fanno riferimento al debito scaduto per primo; al debito meno garantito; al più oneroso per la parte debitrice o al più remoto nel tempo. In mancanza di elementi sufficienti a determinare un criterio anziché un altro, il pagamento dovrebbe essere imputato proporzionalmente ai vari debiti.
Su altro versante, squisitamente processuale, opera l’art. 2697 del codice, ai sensi del quale chi vuole far valere un diritto deve provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento. La parte che eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto s’è modificato o estinto dovrà, dal canto suo, dare prova dei fatti su cui tali eccezioni si fondano.
Orbene, il creditore soccombente in primo e secondo grado ricorreva in Cassazione proprio per contestare la violazione e la falsa applicazione degli artt. summenzionati, poiché la Corte d’Appello <>.
A parer del creditore ricorrente, i giudici della Corte di Brescia avrebbero onerato lui della prova contrario, cioè della circostanza per cui i debitori avevano effettuato pagamenti volti ad estinguere pagamenti diversi da quelli oggetto del precetto.
In virtù di ciò, quello che è oggetto di interrogativo e la cui risposta è fornita
dalla Suprema Corte con l’ordinanza in esame[7] è su quale soggetto gravi l’onere di dimostrare l’effettivo soddisfacimento del credito o, a parti invertite, il mancato pagamento di una obbligazione pecuniaria bensì di un’altra, come affermato dal creditore del presente giudizio?
In altre parole: su chi gravi l’onere della prova dei fatti oggetto del giudizio.
5. La natura del giudizio di opposizione
Prima di addivenire alle motivazioni alla base dell’accoglimento del ricorso, stante la fondatezza delle addotto censure rivolte dal ricorrente all’operato del giudice del gravame, è interessante un confronto tra l’onere della prova spettante alla parte opponente nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo e il differente onere nell’opposizione a precetto, quale titolo fondante il momento esecutivo.
La differenza trae origine sul piano ontologico e si ripercuote anche sull’onere probatorio delle diverse pretese.
Dalla lettura dell’art. 615 c.p.c. non emerge quale sia il tipo di tutela richiesta dall’opponente al giudice.
Ad avviso della dottrina maggioritaria[8], l’opposizione per motivi di merito – come quella in esame – ben si qualificherebbe come una azione di mero accertamento negativo della pretesa vantata dal creditore procedente munito di titolo esecutivo.
Stante la natura di accertamento negativo, il giudizio scaturente dall’opposizione è un giudizio nel quale l’attore deve dimostrare i fatti a fondamento della propria avversa posizione.
Di diverso avviso[9] coloro i quali intravedono nell’opposizione al precetto non già una eccezione bensì una azione volta ad ottenere una sentenza costitutiva e non di mero accertamento. Per tale pensiero, orbene, il processo mira ad annullare l’efficacia esecutiva del titolo impugnato e non alla mera statuizione dell’insussistenza del diritto a procedere con la fase esecutiva.
I fautori di quest’ultima tesi, elaborata in Germania nel XX secolo e poi giunta in Italia in vigenza del codice del 1865, identificavano nel titolo esecutivo un atto giuridico avente efficacia costitutiva, quale <>[10].
Così argomentando, l’azione di opposizione a tale precetto diventerebbe esattamente il contrario rispetto all’azione di condanna perché se con la prima si applica una sanzione, con la seconda se ne chiede la revoca.
Questa tesi però sembra errare nel momento in cui non tiene conto che oggetto dell’opposizione non è il titolo in quanto tale, quale entità superiore insuscettibile di rivalutazione, quanto il contenuto del titolo stesso, i fatti che ne hanno dato direttamente o indirettamente origine.
Nel caso di specie, dunque, l’opposizione non ha ad oggetto il titolo esecutivo in quanto tale bensì il diritto di credito che esso tutelava, non più necessitante tutela poiché – a parer dei debitori – già soddisfatto con il pagamento delle cambiali.
La tesi prevalente è, ad oggi, quella della natura di accertamento negativo.
Nonostante ciò, questa qualificazione non è scevra di ulteriori questioni controverse.
In primo luogo, il nostro codice non prevede, a differenza di quanto fatto in altri ordinamenti[11], la possibilità di una generale azione di accertamento dell’esistenza o della inesistenza di un rapporto giuridico.
Dunque, se la stessa azione di accertamento è stata oggetto di dibattito, non meno controversa dovrebbe essere la pedissequa azione di accertamento negativa.
Il tema è particolarmente interessante proprio con riferimento all’onere della prova: la previsione di un’azione di accertamento negativo[12], infatti, va a gravare il convenuto del rischio di dovere di provare il diritto negato dall’attore.
Rischio che, almeno con riferimento all’opposizione di merito, può dirsi scemato proprio per la particolarità del processo esecutivo, ove il contradditorio tra le parti è limitato.
Dunque, riconosciuta la natura di accertamento negativo e l’ammissibilità di esperire tale azione nel nostro ordinamento, in mancanza di espressa previsione legislativa da parte del nostro codice, non resta che affrontare proprio il tema dell’onere della prova e della disciplina applicabile.
Ai sensi dell’art. 2697 c.c. è innegabile che spetta all’attore dare prova dell’esistenza dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio con la domanda mentre incombe sul convenuto la prova dell’esistenza di fatti impeditivi od estintivi del diritto stesso.
Al fine di non gravare la posizione del convenuto, la dottrina tradizionale ritiene che anche nell’azione di accertamento negativo spetti all’attore provare il fondamento della sua richiesta. In considerazione di ciò, l’attore in mero accertamento negativo – id est il debitore che vuole opporsi al precetto o all’esecuzione - dovrà fornire la prova dell’esistenza dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto affermato stragiudizialmente dal convenuto ma, ove i fatti estintivi ed impeditivi siano inesistenti o risultino non provabili, l’attore dovrà provare anche l’inesistenza di tutti i possibili fatti costitutivi del diritto del convenuto.
Tale ripartizione ha permesso di superare le c.d. azioni di iattanza, cioè quelle azioni con cui in passato si provocava il convenuto ad agire o si addossava su quest’ultimo il carico della prova dell’esistenza di un diritto negato dall’autore.
Le azioni di iattanza sono sempre state strettamente collegate alle azioni di mero accertamento negativo e alla ripartizione dell’onere probatorio, in considerazione della circostanza per cui è in queste azioni che si registrano i maggiori problemi e le difficoltà di addivenire ad un punto di equilibrio tra le pretese dell’attore e quelle del convenuto, senza però che si addivenga ad un risultato che veda l’ago della bilancia della giustizia pendere da un lato o dall’altro, rendendo troppo agevole o troppo gravoso il compito di dimostrare la fondatezza delle proprie ragioni dal lato dell’attore o del convenuto.
Se si desse adito alla tesi appena esposta, nel giudizio di opposizione all’esecuzione l’opponente dovrebbe dare prova, oltre che dell’esistenza dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi dell’azione esecutiva, anche dell’inesistenza dei fatti costitutivi della stessa.
Si pensi, a titolo esemplificativo, al caso in cui l’opponente -divenuto attore- debba dimostrare non più solo il pagamento del debito da cui traeva origine il titolo esecutivo ma addirittura l’inesistenza di una situazione debitoria che invece era esistente.
In questo modo si andrebbe a sanzionare oltre modo la posizione dell’attore- opponente in quanto, in caso di mancato assolvimento dell’onere della prova si arriverebbe, per il principio del non liquet, al risultato aberrante di dichiarare con sentenza l’esistenza del diritto del creditore convenuto, in assenza della prova sull’esistenza di un qualsiasi fatto costitutivo del diritto stesso.
Si chiede, a tutti gli effetti, di dimostrare qualcosa di non dimostrabile ovvero di mentire.
Per non restare incastrati in una situazione dalla quale sarebbe davvero difficile mantenendo un equilibrio, il punto di incontro tra il diritto di difesa del convenuto ed il diritto di azione dell’attore è stato intravisto nel gravare l’attore dell’onere della prova dell’esistenza di un fatto impeditivo, modificativo, estintivo o, in alternativa, e non più congiuntamente, della prova dell’esistenza di quel solo fatto costitutivo del diritto posto dal convenuto a fondamento del suo vanto stragiudiziale.
Anche qui, però, non può “cantarsi vittoria” troppo facilmente perché quanto affermato deve pur tenere conto del particolare giudizio di accertamento negativo che è il giudizio in opposizione all’esecuzione.
Non può sottacersi o dimenticarsi che il giudizio di opposizione si innesta su di un procedimento di esecuzione forzata instaurata sulla base di un titolo esecutivo, spesso generatosi al di fuori di un giudizio di cognizione (si pensi ad un assegno bancario ovvero al verbale di conciliazione sindacale, a cui la cancelleria deve solo apporre l’esecutività e non ad un decreto ingiuntivo frutto di un precedente giudizio). Di fronte al potere riconosciuto dall’ordinamento al creditore munito di titolo di dare avvio ad un processo esecutivo sulla base del mero visto dell’ufficio giudiziario a ciò preposto ed in assenza di un penetrante controllo dato dal giudizio di cognizione, l’unico rimedio residuale per impedire l’esecuzione – specie quando arbitraria – è proprio l’opposizione.
Non diversamente da quanto accade nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la proposizione dell’opposizione determina una inversione della posizione processuale delle parti rispetto alla loro posizione sostanziale e processuale-esecutiva, ma nel giudizio di opposizione le parti si ridispongono secondo le posizioni del rapporto sostanziale.
L’inversione della mera iniziativa processuale, che porta il convenuto ad essere attore opponente, non determina però anche l’inversione dell’onere probatorio: il creditore convenuto dovrà fornire la prova della fondatezza dell’azione esecutiva intrapresa poiché è lui a chiedere la tutela delle sue ragioni creditorie, astrattamente rimaste inadempiute a causa del debitore.
Quest’ultimo, al contrario, divenuto attore opponente dovrà dimostrare i fatti impeditivi, modificativi, estintivi a fondamento della sua opposizione.
Ciò appare di primaria importanza quando l’esecuzione sia fondata su di un titolo esecutivo stragiudiziale, come nel caso in esame ove il titolo esecutivo è rappresentato dalle 21 cambiali sottoscritte dai debitori in favore del creditore.
Seguendo questa ricostruzione, deve ritenersi che la pronuncia che accolga la domanda di accertamento negativo (o, meglio dire, l’eccezione, se si sposa la relativa tesi che identifica tale azione come una eccezione alla domanda dell’attore creditore poi divenuto convenuto) comporterà la definizione della lite sull’esistenza del diritto vantato dal convenuto.
6. Cassazione della sentenza e conclusioni
Dopo aver analizzato il riparto dell’onere probatorio nel giudizio di accertamento negativo, quale indubbiamente è il giudizio che si instaura a seguito di opposizione all’esecuzione – sia essa preventiva, quando si limita ad opporsi al precetto sia essa successiva quando interviene ad esecuzione materialmente già iniziata – non si comprende come i giudizi di primo e secondo grado abbiano potuto incorrere in un errore così grossolano.
Sulla scorta delle motivazioni della Corte di Cassazione, difatti, è pacifico il principio per cui quando il convenuto per il pagamento di un debito dimostri di aver corrisposto una somma di denaro idonea all’estinzione del medesimo, spetta al creditore allegare e provare l’esistenza di un debito diverso. Tale principio non può trovare applicazione << nel caso in cui il debitore eccepisca l’estinzione del debito fatto valere in giudizio per effetto dell’emissione di più assegni bancari, atteso che, implicando tale emissione la presunzione di un rapporto fondamentale idoneo a giustificare la nascita di un’obbligazione cartolare, resta a carico del debitore convenuto l’onere di superare tale presunzione, dimostrando il collegamento tra il precedente debito azionato ed il successivo debito cartolare, con la conseguente estinzione del primo per effetto del pagamento degli assegni.>>
A sostegno di tale principio, la Corte riportava non pochi precedenti che nell’ultimo decennio avevano reso incontrovertibile l’assunto.[13]
Posto che era onere dei debitori opponenti dimostrare di aver estinto una delle obbligazioni esistenti con il creditore opposto, tale prova non è stata raggiunta.
In primo luogo, il pagamento effettuato dai debitori è avvenuto mediante assegni, prodotti in giudizio, recanti date e importi non corrispondenti a quelli delle cambiali emesse e dunque già questo doveva indurre a ritenere che fosse onere degli stessi dimostrare il collegamento.
Nonostante la Corte d’Appello, in modo tanto benevolo quanto ingiustificato, ritenesse sussistente un collegamento per la sola corrispondenza tra i soggetti che avevano emesso le cambiali prima e gli assegni poi ed il soggetto beneficiario, tale criterio non è assolutamente suscettibile di valutazione positiva ai fini del corretto assolvimento dell’onere probatorio richiesto dalla legge.
Invero, come la stessa Suprema Corte evidenzia, <>
Non si comprende come possa ravvisarsi un collegamento – seppur soggettivo – tra cambiali di un dato importo e con scadenza in un dato giorno e assegni di importi completamente differenti e aventi altre date; né si comprende per quale ragione la Corte di Brescia abbia esitato nel guardare con maggiore attenzione le doglianze di un creditore che già aveva lamentato invano le sue pretese.
Il ruolo svolto dalla Corte territoriale non dovrebbe limitarsi ad una rapida lettura delle carte ma quantomeno ad una analisi della corrispondenza tra dati scientifici, non soggettivi ma palesemente oggettivi. Curioso, poi, che il comportamento sia doppiamente censurabile sotto il profilo oggettivo: in un primo senso, con riferimento alla “svista” – possiamo chiamarla tale?- dei giudici in collegio, circa la non coincidenza tra date e somme; in un secondo senso, squisitamente processuale e giuridico, circa il mancato rispetto del principio della dimostrazione oggettiva di un collegamento tra pagamento e rapporto esistente.
Ma non solo.
Non può nemmeno sottacersi, seppur sarebbe doveroso e rispettoso farlo, che nell’atteggiamento disattento che ha caratterizzato l’operato della Corte censurata, la cui sentenza è stata correttamente cassata, v’è anche l’aver peccato di hybris nella parte in cui, per rigettare il ricorso del creditore ricorrente, fa riferimento alla sentenza n. 3008/2012 della stessa Cassazione, dimostrando di non aver compreso appieno il principio enunciato nel precedente giuridico alla quale la stessa faceva riferimento e di aver consultato la citata sentenza solo con l’intento di dare un rapido sguardo ai soggetti.
Ancora una volta, il dato soggettivo viene esasperato a discapito di quello oggettivo: nella richiamata sentenza, alla Suprema Corte veniva sottoposto un caso differente, comune a quello giudicato dal collegio solo per la presenza di assegni bancari emessi a soddisfacimento di un credito e per la presenza di un’opposizione ma non già alla fase esecutiva bensì al decreto ingiuntivo.
Notevoli le differenze: nella sentenza del 2012 la Corte si è espressa su una opposizione alla formazione del titolo esecutivo stesso, peraltro sul piano giudiziale; nell’ordinanza in esame, la Corte deve porre rimedio agli errori commessi dalla Corte di Brescia sul ricorso in opposizione ad un precetto, avente ad oggetto un titolo stragiudiziale. Come espresso nelle pagine che precedono, l’azione di accertamento negativo avente ad oggetto un precetto che trae origine da un titolo stragiudiziale è ancor più delicata e richiederebbe da parte di un collegio e quindi da più persone – non già dal mero giudice monocratico, al quale potrebbe più bonariamente scusarsi la disattenzione – un’attenzione maggiore, specie allorquando viene chiesto di verificare la sussistenza di un collegamento soggettivo ed oggettivo tra gli elementi che in modo raffazzonato vengono posti a fondamento di una opposizione che, in tutta verità, s’è dimostrata – seppur a distanza di quasi un decennio – pretestuosa e lesiva delle ragioni creditorie dell’originario attore.
In conclusione, quello che ha ispirato la presente trattazione ad una ordinanza che, nel ribadire un principio di diritto pacifico avrebbe potuto rappresentare “una fra tante”, è il biasimo nel dover attendere invano un decennio per far valere le proprie ragioni, a causa di un sistema che anziché curare è causa del male.
Senza indugiare oltre in commenti di natura morale o sociale, aventi ad oggetto il ruolo del potere giurisdizionale, è doveroso che non s’inciampi ulteriormente in “sviste” sull’onere della prova, la cui sovversione è un nocumento che non tutte le parti processuali potrebbero affrontare.
La tenacia e la sicurezza del ricorrente originario, infatti, è meritevole di encomio ma a parer dello scrivente non è rassicurante il pensiero che un altro soggetto di diritto, in ipotesi, non avrebbe avuto i mezzi o la forza o sufficiente ardore nel far valere una pretesa creditoria su più fronti e livelli negata.
[1] In tali termini si è espresso R. ORIANI, voce Opposizione all’esecuzione, Dig. Disc. Priv., XIII, Torino, 585.
[2] R. ORIANI,in voce Opposizione all’esecuzione, cit., 586 non ritiene di dar seguito a quegli orientamenti che identificano alcune opposizioni come sui generis e ne ammette il riconoscimento nel nostro ordinamento
[3] Per completezza espositiva si rinvia a Cass. III sez. civ. 17 ottobre 2019, n. 26285, in https://www.inexecutivis.it/per quanto attiene ai rapporti di litispendenza tra l’opposizione (preventiva) al precetto e l’opposizione all’esecuzione;
[4] Tra tanti, A.M. SOLDI, Manuale dell’esecuzione forzata, 2008, Padova, 1041 ss.
[5] Cfr. Cass. 16.3.1977 n. 1045, in Giur.It., 1979, I, 1, 534
[6] Cfr. Cass. 24.1.2000, n. 15198 in Rep. Foro It., voce Esecuzione in genere, n. 45 con cui la Cassazione pone l’accento sulla necessità di escussione del terzo proprietario del bene prima di assoggettare detto bene ad esecuzione.
[7] Per dovere di completezza, si segnala anche ordinanza 29 maggio 2020 n. 10322 con la quale la Cassazione si esprime sulla validità degli assegni quali mezzi di prova del pagamento del debito e relativa estinzione dell’obbligazione, su http://www.deiustitia.it/
[8] Il pensiero di E. FURNO, Disegno sistematico delle opposizioni nel processo esecutivo, Firenze, 1942, p. 131 ss. è quello che ha ispirato maggiormente la dottrina successiva e maggioritaria.
[9] Contrapposto all’originario pensiero di E. FURNO vi sono E. T. LIEBMAN, Le opposizioni di merito nel processo d’esecuzione, Roma, 1931, p. 164 ss. e pag. 231 ; GARBAGNATI, voce Opposizione all’esecuzione, in Enc. Giur., XXIV, Roma, 2007, p. 7
[10] E.T. LIEBMAN, op. cit., p. 157.
[11] A mero titolo esemplificativo si può citare l’ordinamento inglese, che già nel 1852 con il Chancery Procedure Act disciplinava una figura generale di azione di mero accertamento
[12] In tema, cfr. A. ROMANO, L’azione di accertamento negativo, Napoli, 2006, p. 78 e ss.
[13] Cfr. tra le tante la sentenza Cass. 28/02/2012 n. 3008 secondo cui in materia di diritti cartolari rappresentati da tre assegni spetta al debitore fornire la prova dell’adempimento di tutti e tre mediante i primi due e dell’estinzione dell’obbligazione.
BIBLIOGRAFIA
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GIURISPRUDENZA
Cass. 16 .3. 1977, n. 1945
Cass. 24.1.2000, n. 15198
Cass. 28.2. 2012, n. 2008
Cass. 17 .10. 2019, n. 26285
Cass. 29.5.2020, n. 10322