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Pubbl. Ven, 21 Ago 2015

Processo penale: verità, giustizia e giudicato

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Ludovica Di Masi


Nell´immaginario collettivo, lo scopo del procedimento penale è quello di ricercare la verità storica dell’accaduto come mezzo per il raggiungimento di una giustizia in senso lato, in altre parole una giustizia con la "g " maiuscola. Ma viene da chiedersi se sia possibile parlare di verità in un processo come quello che si ha sotto gli occhi e, se sì, di quale o quali verità si debba discutere. Se prendiamo per buona l´idea dell´esistenza del giudicato come fondamento di una verità cristallizzata ed immutabile, che relazione c´è con il momento successivo al giudicato? Inoltre, ha ancora senso pensare che il popolo voglia e pretenda un "giusto processo" "regolato dalla legge”, ai sensi dell´art. 111 Cost., oppure bisogna prendere atto dell´esigenza, tutta del popolo, di sperare nella celebrazione di un rapido processo che finisca solo col punire?


Quotidianamente, nei sempre più numerosi dibattiti televisivi, sentiamo dalle vittime di reati (o dai parenti delle vittime) la frase "vogliamo la verità!", quasi a voler manifestare l’intimo legame che sussiste tra verità e giustizia.

Piero Calamandrei nel 1950 pronunciava in occasione del dibattito sull'istituzione del CSM delle parole cariche di emotività e quantomai attuali e veritiere: "la giustizia è un bene comune, il più prezioso dei beni comuni. E le ansie che lo concernono sono ansie di tutti i cittadini".

Queste parole ci fanno intendere la naturale connessione che esiste non solo tra verità e giustizia ma prima ancora tra processo e giustizia; connessione,quest'ultima,che merita ulteriori riflessioni, anche storiche.

Nell'antica Grecia la giustizia è la condizione che rende possibile il vivere degli uomini. Aristotele legava la giustizia alla felicità, tanto da sostenere che "con una sola espressione definiamo giuste le cose che procurano o mantengono la felicità o parte di esse alla comunità politica". Nell’età moderna, invece, si fa corrispondere l’idea di giustizia a quella di libertà.

Da ciò si capisce che, indipendentemente dalla nozione che diamo di giustizia, giusto è ciò che ci appaga ,che ci soddisfa; ingiusto è ciò che ci crea inquietudine, che ci fa stare male, che non ci soddisfa.

Dunque, allacciandoci alla macchina del procedimento penale, raggiungere il "giusto" potrebbe significare ricercare la verità ma nel nostro ordinamento, la verità che si raggiunge (o meglio, che è possibile raggiungere) non è una verità assoluta, non è quindi la verità storica (ciò che è accaduto), bensì una verità formale: il risultato di  una costruzione artificiale ,condotta step by step dalle fasi,dai soggetti e persino dalle garanzie del procedimento penale.

A questa affermazione possiamo arrivare partendo da brevissime considerazioni logiche e filosofiche.

Per capire cosa sia un’affermazione vera (in ambito giudiziario) molti (tra cui  Ubertis) hanno rivolto l'attenzione al concetto di “enunciato vero” elaborata da Alfred Tarski. Secondo tale definizione «X è vero se e solo se p è vero», dove “X” sta per il nome di un enunciato e “p” per l’enunciato medesimo: per esempio, «l’enunciato “la neve è bianca” è vero se, e solo se, la neve è bianca». (1)

Questo criterio non è applicabile, però, al processo penale.

E' qui che si rende utile l'idea della probabilità. Come detto prima, non sarà mai possibile risalire alla verità storica: è per questo che la verità esplicata nella sentenza non può che essere una "verità probabile", cioè, una ricostruzione "fattibile" agli occhi della società, in altre parole "verosimile".

Lo schema della verità probabile ci porta ad affermare che il giudice non è bocca della legge, ma che forma il suo libero convincimento sulla base delle diverse proposizioni che gli vengono fornite dalle parti. In altre parole,al giudice non viene detto cosa è successo quel giorno o se Tizio ha realmente ucciso Caio; egli, semplicemente avrà a disposizione una serie di elementi, a favore e contro l'imputato, che potrà valutare e che lo indirizzeranno verso una decisione "giusta" formalmente (perchè assunta seguendo le regole) ma di certo non vera. 

E qui mi viene da pensare alla simpatica formuletta "al di là di ogni ragionevole dubbio": una persona può essere condannata solo quando non vi sia un dubbio ragionevole sulla sua colpevolezza; bene, ma cosa vuol dire ragionevole? Il dubbio è ragionevole sotto la soglia del 90%, del 70 % o basta essere dubbiosi allo 0.01% ? Sicuramente il ragionevole dubbio è una importantissima garanzia per colui che è sottoposto ad un processo penale, però ci fa comprendere sempre di più come sia impossibile ricostruire una verità assoluta e certa, altrimenti si direbbe "al di là di ogni dubbio", omettendo il "ragionevole".

Dunque, a mio avviso, il giudice nella sentenza compie una decisione lontana anni luce dalla verità, tanto non saprà mai quello che è accaduto; piuttosto, giungerà ad un "compromesso con se stesso" nel quale assumerà il rischio "conveniente", punterà, cioè, sulla scelta che risulti conveniente a lui, fattibile per la società, equilibrata per i media, verosimile alle parti.

Facciamo un passo indietro.

Il termine “verosimiglianza” veniva applicato alla logica processuale già in passato: di verosimiglianza, infatti, parlava Dionigi di Alicarnasso, retore e storico dell'età di Augusto, che, nel suo trattato su Lisia, precisa che la narrazione (una parte del discorso giudiziario) richiede attenzione e cautela. L'abilità dell'oratore è quella di rendere la narrazione accattivante e convincente, così da suscitare l'immediata attenzione dell'ascoltatore. Lisia si preoccupa di dire cose verosimili piuttosto che vere, avvalendosi di una straordinaria forza persuasiva e di parole seducenti, cosicché l'uditore non riesce più a distinguere ciò che è vero da ciò che è inventato, ma fatto apparire come vero. Per rendere ancora più chiaro il suo pensiero, Dionigi osserva che, a tale riguardo, a Lisia può essere applicato un verso dell'Odissea, riferito ad Ulisse: "Così fingea, menzogne molte al vero simili proferendo". Dionigi definisce la verosimiglianza come la capacità di dare ai fatti narrati l'apparenza della realtà e di rendere persuasiva la narrazione. Aftonio di Antiochia, ancora, scrive che tra le qualità  richieste nella narrazione dei fatti c'è la persuasività. Risulta chiaro che l'oratore giudiziario greco, il logografo, spesso sostituiva al vero la categoria del verosimile, sacrificando lo scrupoloso rispetto della verità agli interessi del cliente. (2)

D’altronde, sempre nell'immaginario collettivo, ancora oggi la figura dell' "avvocato-oratore" è guardata con sospetto, con le stesse resistenze che - in età moderna - già Manzoni continuava a sottolineare con il suo Azzeccagarbugli, poiché l'operato dell’avvocato sembra sacrificare la verità storica per “il bene dell’assistito”.

Possiamo dire allora, che il fine giustifica i mezzi?

Ma, in epoca contemporanea, non può che trovare albergo il concetto di un procedimento penale che, letto alla luce dei principi costituzionali ed internazionali, è da concepirsi come garanzia per l’indagato/imputato e non esclusivamente come mezzo di ricerca della verità storica, dal momento che la “diffidenza sociale” nei confronti della figura del legale è ingiustificata, perché deve prevalere l’importanza del ruolo che svolge al fine di garantire un pieno diritto di difesa, strumentale alla celebrazione di quello che sarà un giusto processo (art. 24 Cost.).

E' inevitabile, a questo punto, dover ammettere che il procedimento penale raggiunge non la verità storica, ma una verità “processuale” approssimativa ed innaturale e questa tesi è rafforzata dalle riflessioni sul connubio verità-giudicato.

Il giudicato è lo strumento utilizzato per porre fine alla ricerca della verità: quando si sono esauriti i mezzi di impugnazione le sentenze pronunciate in giudizio divengono irrevocabili (art. 648 c.p.p.).

Il giudicato non può, però, rappresentare la verità storica, nè ad essa può sostituirsi. Prima si diceva che il giudicato "cristallizzasse" la verità, la "congelasse" così come formatasi nella sentenza; oggi è opinione sempre più diffusa che non sia così. In primis, possono verificarsi nel tempo degli eventi che vanno ad urtare con il giudicato. Basti pensare alla previsione dell’art. 629 c.p.p., ai sensi del quale « è ammessa in ogni tempo a favore dei condannati, nei casi determinati dalla legge, la revisione delle sentenze di condanna o delle sentenze emesse ai sensi dell'articolo 444, comma 2, o dei decreti penali di condanna, divenuti irrevocabili, anche se la pena è già stata eseguita o è estinta. »

Ciò significa che il giudicato, in quanto affermazione di un passato artificialmente reso immodificabile, costituisce addirittura un ostacolo rispetto all'obiettivo del raggiungimento della verità storica. Conseguentemente, contro la verità storica non può mai imporsi la verità artefatta del giudicato; ma anche, viceversa, l’idea di pervenire alla verità storica nel procedimento penale risulta essere una pura ingenuità.

Tutto ciò è inoltre confermato dalla previsione del nuovo art. 625 ter c.p.p., introdotto dalla legge 67/2014, che prevede un istituto di matrice pseudo-civilistica: la "rescissione del giudicato". In questo caso si considera “annullabile”, a determinate condizioni, anche il giudicato formatosi intorno ad una sentenza (che risulta viziata a monte) pronunciata in absentia

La richiesta di rescissione è proponibile, avverso una sentenza passata in giudicato, dal condannato – o dal sottoposto a misura di sicurezza – qualora si sia proceduto in sua assenza per tutta la durata del processo, a condizione che lo stesso provi che «l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo». (3)

Di quale verità, di quale giustizia stiamo parlando, allora?

 

 

Note e riferimenti bibliografici

(1) Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano 1979; Id., La ricerca della verità giudiziale, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di G. Ubertis, Milano 1992; P. Comanducci, La motivazione in fattoin La conoscenza del fatto; Ferrajoli, Diritto e ragione; P. Ferrua, Studi sul processo penale; R.E. Kostoris,Giudizio (dir. proc. pen.), in Enciclopedia giuridica, XV, Roma, 1997; F. Stella, Verità, scienza e giustizia. Le frequenze medio-basse nella successione di eventi, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2002, pp. 1215-1247, alle pp. 1219-1222.

(2) Denys d'Halicarnasse, Opuscules rhetoriques, tome 1: Les orateurs antiques, texte établi et traduit par G.Aujac, Paris 1978; Odissea, XIX,203 (traduzione di Ippolito Pindemonte); Retores Graeci, ed. Chr. Walz, vol. I, Stuttgartia et Tubingae.

(3) Tra le fonti d'ispirazione del presente articolo è mio dovere annoverare le lezioni tenutesi all'Università degli Studi di Salerno dal prof. Luigi Kalb (corso di Diritto Processuale Penale), dal prof. Gaspare Dalia (corso di Teoria Generale del Processo, anno 2013-2014), dal prof. Angelo Alessandro Sammarco (corso di Diritto dell'esecuzione Penale) e dal prof. Felice Pier Carlo Iovino (corso di Diritto Penitenziaro).

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