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Pubbl. Gio, 20 Ago 2015

Praticanti avvocati: che ne sarà di noi?

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Gemma Occhipinti


Praticanti avvocati tra codice deontologico e lavoro subordinato


La pratica forense, si sa, è croce e delizia dei neo-giuristi. Questi infatti, all’indomani del conseguimento della laurea, si ritrovano catapultati nell’universo dei tribunali, a stretto contatto con realtà giuridiche da sempre studiate ma mai vissute e senza, tra l’altro, essere titolari di uno status giuridico ben delineato. Conscio di queste problematiche, il legislatore è di recente intervenuto con la riforma della professione forense, contenuta nella legge 247/2012. Ad essa è poi seguita la riforma del Codice Deontologico, approvato nella sua nuova fisionomia dal Consiglio Nazionale Forense il 31.1.2014. Tra gli altri intenti proclamati dal legislatore, spicca la volontà di conferire nuova dignità e rinnovata regolamentazione alla categoria del praticante avvocato. In attesa che sia completato il processo di attuazione della riforma, si può comunque tentare di meglio definire i contorni di una condizione che, lungi dall’essere identificata come rapporto di lavoro subordinato, presenta tuttavia notevoli punti di contatto con esso.

L’art. 41 comma 11 della legge n. 247/2012 si è premurato di chiarire come il tirocinio professionale non determini di diritto l'instaurazione di un rapporto di lavoro alle altrui dipendenze. In effetti, la Corte di Cassazione ha, in più occasioni, precisato come il rapporto in esame manchi di diversi elementi fondamentali del lavoro subordinato, tra i quali - in particolare - la reciprocità degli apporti. La causa di un tipico rapporto di praticantato professionale (intesa come causa in concreto, ossia come scopo pratico perseguito dalle parti) è, infatti, quella di assicurare al giovane praticante le nozioni indispensabili per l’attuazione della formazione teorica ricevuta in ambito universitario; il tutto, nella prospettiva di una futura e determinata professione intellettuale. E’, per l’appunto, la formazione altamente specializzata impartita dal dominus a giustificarne l’essenziale gratuità, distinguendo così il praticantato stesso dai rapporti a contenuto misto (formativo e di lavoro). L’oggetto del rapporto in esame non può identificarsi nell’attività svolta dal praticante, poiché si tratta di un’attività meramente strumentale all’acquisizione delle conoscenze teoriche e pratiche richieste per il conseguimento del titolo abilitativo. Il dominus non è quindi tenuto a garantire controprestazioni particolari, eccezion fatta per l’impegno alla trasmissione del suo “sapere giuridico”. Inoltre, mancano gli elementi essenziali del rapporto di lavoro subordinato quali l’inserimento stabile nella struttura organizzativa e la sottoposizione al potere disciplinare e gerarchico. In altre parole, l’assenza dei benefici retributivi è compensata dalla mancanza di una responsabilità pari a quella assunta dal lavoratore subordinato.

Pur tuttavia, non può sottovalutarsi il fatto che l’attività svolta dai praticanti avvocati assuma, spesso e volentieri, i contorni concreti di un vero e proprio lavoro “alle dipendenze” del dominus. Le valutazioni operate dalla Suprema Corte sono del tutto condivisibili se rapportate ai primi mesi di formazione in senso stretto; tuttavia, al termine degli stessi, il contributo dato dal praticante muta necessariamente in un apporto quasi collaborativo. La prassi ha evidenziato come, a quel punto, l’inserimento nella struttura dell’ufficio è praticamente stabile, anche in virtù dell’autonomia operativa che normalmente si acquisisce. Non può neanche tacersi il fatto che il praticante, al pari dell’avvocato, è tenuto, ai sensi dell’art. 2 co.2 del codice, ad osservare i suoi stessi doveri e le sue stesse norme deontologiche ed è altresì soggetto al potere disciplinare del Consiglio dell'Ordine. Ciò significa che anche il praticante deve esercitare la propria attività con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, senza però poter godere delle medesime condizioni remunerative.

Come garantire, allora, una tutela piena dello status del praticante avvocato? Apparentemente, sembra che una soluzione al problema sia stata fornita dall’art. 40 del nuovo codice deontologico. La disposizione de qua impone all’avvocato non solo di assicurare effettività e proficuità alla pratica forense, ma anche di corrispondere un rimborso per le spese sostenute e, dopo il primo semestre di pratica, un compenso adeguato, tenuto conto anche dell’utilizzo dello studio legale e delle sue strutture. La corresponsione di questa peculiare utilità si pone in linea con i principi enunciati dagli artt. 2 e 4 della Costituzione; questi, in combinato disposto tra loro, esortano alla valorizzazione della persona e delle sua capacità, specialmente con riguardo a quelle forme di collaborazione che, pur non costituendo “lavoro” nei termini di legge, presuppongono dedizione, spendita di energie e di risorse da parte di chi le presta.

In realtà, una più attenta analisi delle norme in esame fa emergere una portata innovativa estremamente limitata. In primo luogo, potrebbero profilarsi dubbi di coerenza tra la legge di riforma e il nuovo codice deontologico, atteso che l’art. 41 co.11 della legge 247/2012 sembra concretizzare una mera possibilità, al termine dei sei mesi di tirocinio, di corrispondere al praticante un compenso adeguato, mentre l’art. 40 del codice deontologico fa riferimento ad un vero e proprio obbligo (“deve riconoscergli”), accompagnato da sanzioni in caso di sua inosservanza. Bisogna, altresì, considerare la mancanza di parametri certi di quantificazione del compenso. L’indicazione relativa all’uso delle strutture dello studio è, infatti, elemento necessario ma non sufficiente per guidare l’avvocato in una scelta il può possibile equa; il tutto viene, in buona sostanza, rimesso alla sua piena sensibilità. E’ inoltre da considerare il fatto che non può essere concepito obbligo giuridico, nel nostro ordinamento, senza che ad esso venga affiancata adeguata sanzione in caso di violazione; tuttavia, è in dubbio che le sanzioni previste dall’art. 40 del codice deontologico, quali l’avvertimento e la censura, possiedano reale portata coercitiva. Sembra infatti che esse si risolvano in sanzioni etiche, più che giuridiche. Ai sensi dell’art. 22, l’avvertimento consiste nell’informare l’incolpato che la sua condotta non è stata conforme alle norme deontologiche e di legge, con invito ad astenersi dal compiere altre infrazioni; la censura, invece, consiste nel biasimo formale e si applica quando la gravità dell’infrazione, il grado di responsabilità, i precedenti dell’incolpato ed il suo comportamento successivo al fatto inducono a ritenere che egli non incorrerà in un’altra infrazione.

Da quanto detto, emerge un sistema che tenta di contemperare opposte esigenze. Da un lato, v’è la necessità di tutelare la condizione del praticante avvocato; dall’altro lato, emerge l’opportunità di considerare le peculiarità del suo status e l’impossibilità di ascriverlo ad un puro semplice rapporto di lavoro subordinato o misto.

Se la riforma così delineata porterà effettivamente ai risultati sperati, è ancora presto per dirlo: ai posteri l’ardua sentenza.