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Pubbl. Sab, 17 Ott 2020

La tutela del legittimo affidamento del privato secondo l´orientamento della Corte di Cassazione

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Pietro Cucumile



Il presente lavoro si pone l’obiettivo di annotare una recente sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, n. 8236 del 28 aprile 2020, evidenziano alcuni profili innovativi in termini di ricostruzione della responsabilità da falso affidamento del privato nel corretto comportamento della pubblica amministrazione. La sentenza, che postula un modello di pubblica amministrazione permeato dai principi di correttezza e di buona fede, rappresenta l’occasione per fare il punto sulle conseguenze del comportamento amministrativo in alcune ipotesi ben specifiche, riguardanti le stazioni appaltanti, il silenzio, l’omessa vigilanza e l’occupazione appropriativa.


ENG This paper aims to note a recent sentence of the civil joined chambers s of the Court of Cassation, no. 8236 of April 28, 2020, highlight some innovative profiles in terms of reconstruction of the responsibility from false trust by the private sector in the correct behavior of the public administration. The sentence, which postulates a model of public administration permeated by the principles of correctness and good faith, represents an opportunity to take stock of the consequences of administrative behavior in some very specific cases, regarding contracting authorities, silence, omission vigilance and appropriative employment.

Sommario: 1. Premessa; 2. Sulla natura della responsabilità da falso affidamento del privato; 3. Dal paradigma della colpa alla violazione della buona fede; 4. Sull’individuazione della giurisdizione sulla responsabilità da falso affidamento del privato; 5. Il risarcimento dei danni provocati dalla pubblica amministrazione. Una ricostruzione diacronica; 6. Il danno comportamentale da silenzio; 7. Il danno comportamentale da responsabilità della stazione appaltante; 8. Il danno comportamentale da omessa vigilanza Consob e subito dai risparmiatori; 9. Il danno comportamentale da occupazione appropriativa; 10. Conclusioni.

1. Premessa.

Nel panorama giurisprudenziale si è recentemente affacciata una sentenza di particolare interesse della Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, n° 8236 del 28 aprile 2020, dedicata al tema della responsabilità della pubblica amministrazione per il falso affidamento ingenerato nel privato che entri in contatto con il decisore pubblico.

È una sentenza che deve essere affrontata almeno sotto due profili:

  • quello della natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione, per violazione della buona fede del privato, dell'affidamento che il privato ha riposto nel soggetto pubblico;
  • una seconda questione, ovvero quella della giurisdizione.

In realtà, la sentenza delle sezioni unite qui annotata ha un percorso esattamente inverso ovvero prima si occupa del tema della giurisdizione e, soltanto successivamente, scandaglia il tema della natura giuridica della responsabilità.

È ferma opinione di chi scrive, comunque, che la parte più attesa della sentenza sia esattamente quella relativa alla natura giuridica di questa responsabilità. Si tratta della responsabilità in cui incorre la pubblica amministrazione che violi la buona fede del privato, in particolare, l’affidamento del privato attraverso un comportamento contrario a buona fede.

Questo argomento è stato oggetto di un percorso giurisprudenziale molto importante che qui non si ha il tempo di ripercorrere integralmente.

Comunque, seguendo un percorso che tocchi i punti ritenuti più salienti, si ricorderà che, in un primo momento, questa responsabilità era inquadrata come la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione; era immaginata soltanto per la violazione delle trattative.

Poi, questa responsabilità della pubblica amministrazione venne estesa anche ad ipotesi differenti e si ricorderà il caso del provvedimento favorevole al cittadino successivamente annullato dalla pubblica amministrazione o, per esempio, in tema di gare di appalti, l'ipotesi della pubblica amministrazione che, dopo avere individuato il soggetto aggiudicatario, non concluda con questo soggetto il successivo contratto.

Quindi, l’orientamento giurisprudenziale si è sviluppato attraverso il caso dell’interruzione delle trattative, da inquadrarsi in una prospettiva prettamente codicistica o, ancora successivamente, con la sentenza dell’Adunanza plenaria n° 5 del 2018[1] che individua compiutamente questa tipologia di responsabilità anche per una fase antecedente a quella relativa all’aggiudicazione della gara: addirittura si trattava della revoca di un bando.

La citata sentenza dell’Adunanza plenaria, oltre a quella in commento delle sezioni unite della Corte di Cassazione, ha portato alla configurazione e alla certezza della possibilità di immaginare una responsabilità della pubblica amministrazione che violi l’affidamento ingenerato nel soggetto privato.

La Corte di Cassazione viene chiamata ad occuparsi di una questione molto particolare che ha alcune caratteristiche specifiche ed interessanti che consentono di riflettere sulla natura della responsabilità e, soprattutto, sulla giurisdizione, sull'individuazione di quale giudice sia competente in riferimento a queste fattispecie.

La questione che viene in rilievo è quella di una pubblica amministrazione che tiene appeso un cittadino, una società che ha chiesto un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica, per l'esattezza un provvedimento in materia edilizia: atto che le è necessario nell'ambito di una sua strategia imprenditoriale.

Nel caso di specie, la società in questione chiede alla pubblica amministrazione l'adozione di un provvedimento e la pubblica amministrazione, per anni, non risponde o meglio o non provvede sulla istanza, continuando però a richiedere, in via istruttoria, alcuni documenti e a ingenerare, in questa società, l'idea che, in realtà, vada tutto bene e che, pertanto, il provvedimento potrà in futuro essere emanato. 

Si tratta, quindi, di una responsabilità per il falso affidamento creato dalla pubblica amministrazione che, nella prospettazione del ricorrente, non decide ma continua a chiedere documenti, aprendo ulteriori spazi istruttori.

2. Sulla natura della responsabilità da falso affidamento del privato.

Il percorso che si vuole seguire per affrontare le questioni aperte da questa sentenza si dipana dalla natura della responsabilità in gioco perché questo è un tema che ha diviso la dottrina e la giurisprudenza nel tempo: la natura giuridica della responsabilità della pubblica amministrazione per violazione dell'affidamento, per la creazione di un falso affidamento nel privato.

Si ricorda che parte della giurisprudenza ha inquadrato questa responsabilità della pubblica amministrazione in quella extracontrattuale, sebbene si facesse sempre più forte e consistente quell'orientamento che l'avrebbe ascritta al tipo contrattuale. 

Naturalmente, è chiaro che non si tratta di un'argomentazione meramente sistematica, ma di un tema molto rilevante che ha delle conseguenze importanti: basta ricordare soltanto la questione della prescrizione quinquennale della responsabilità extracontrattuale e decennale in quella contrattuale, ma anche i risvolti , molto importanti, per l'istituto della prova; si ricorderà che, secondo il combinato disposto dell'articolo 2043 del codice civile, sulla responsabilità aquiliana e dell’art. 2697 c.c. sull’onere della prova, nell’ambito della responsabilità contrattuale, nella sistemazione che ha fornito la giurisprudenza, il soggetto danneggiato (creditore) deve soltanto provare il titolo mentre il soggetto danneggiante (debitore) deve provare di aver adempiuto o di non avere potuto per motivi non dipendenti da sua colpa. Quindi, il soggetto danneggiato, in una prospettiva contrattuale, non è tenuto alla prova della colpa della controparte.

Su questo tema, le Sezioni unite intervengono nella seconda parte della sentenza e affermano che si tratta di una responsabilità da contatto sociale qualificato, ovvero che nasce nell'ambito di rapporti in cui il danno non si è determinato tra soggetti che non stanno in relazione tra di loro.

Diversamente, il danno si è determinato nel quadro di una relazione preesistente tra i soggetti, nell'ambito di una relazione regolata dall'ordinamento giuridico. Si ricordi, a tal proposito, il caso del docente che ha un rapporto contrattuale con una scuola a sua volta in relazione con un alunno: maestra ed alunno non sono collegati contrattualmente. La situazione è analoga per medico, paziente ed Ospedale: l'eventuale danno provocato dal medico potrebbe rilevare nell'ambito del contatto sociale qualificato.

Ebbene, la parte più interessante della sentenza è l’affermazione che il dovere di comportarsi secondo correttezza e secondo buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo fondamento nell'ambito dell'articolo 2 della Costituzione: si tratta della norma che consente un’interpretazione adeguatrice di moltissime disposizioni del nostro ordinamento giuridico, anche di quelle più risalenti che si proiettano in una dimensione di modernità attraverso questa interpretazione costituzionalmente orientata.

Nell'ottica dell'articolo 2 della Costituzione, la Corte di Cassazione afferma che questo dovere di solidarietà sociale si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e in dovere di protezione quando tra i consociati si instaurano momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati.

Un soggetto, quando si trova nell'ambito di questo tipo di relazioni, può sicuramente immaginare e aspettarsi che la controparte tenga una condotta corretta e protettiva. Qui la Corte di Cassazione dà un'ulteriore indicazione sulla quale soffermarsi: si afferma che esiste una proporzionalità diretta, in termini matematici, tra il contenuto dei doveri e l'intensità del momento relazionale. In altre parole, più la relazione è forte tra i due soggetti dal punto di vista sociale o da un punto di vista giuridico più è denso il contenuto dei doveri di protezione e dei doveri di correttezza: emerge questa funzione diretta e questa proporzionalità diretta tra l'intensità della relazione e il dovere di proteggere l'altro.

Non a caso, le Sezioni unite richiamano un importante precedente ovvero la sentenza dell'Adunanza plenaria n° 5 del 2018 dell'adunanza plenaria: è in quella sentenza che si fa riferimento a chi eserciti un’attività professionale protetta o, a maggior ragione, un servizio di pubblica necessità o una funzione amministrativa perché la funzione amministrativa è sottoposta all'articolo 97 della Costituzione.

Ecco, questo è un soggetto da cui il cittadino si aspetta un dovere, uno sforzo maggiore in termini di correttezza, di lealtà, di protezione e di tutela dell'affidamento rispetto a quello che potrebbe garantire un quisque de populo.

Quando si instaura questa relazione forte tra il cittadino e la pubblica amministrazione si manifesta un quid pluris rispetto al principio generale del “neminem ledere” che caratterizza, come è noto, la responsabilità aquiliana; non si tratta della generica responsabilità del passante, come può venire in evidenza per un incidente stradale[2]. Questa è una responsabilità che sorge tra soggetti che si conoscono reciprocamente prima che si verifichi un danno, che si inquadra in un contesto relazionale preesistente, in grado di determinare un affidamento.

Le Sezioni unite ritengono, quindi, di volere valorizzare quell'orientamento che inquadra la responsabilità da lesione dell'affidamento del privato entrato in contatto con la pubblica amministrazione come responsabilità da contatto sociale qualificato; quindi, come responsabilità nascente dall’articolo 1173 del Codice civile. Il contatto tra privato e pubblica amministrazione qui va inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni dall'ordinamento giuridico ai sensi dell'articolo 1173 del Codice civile.

3. Dal paradigma della colpa alla violazione della buona fede.

La Corte di Cassazione si sofferma, poi, su alcuni precedenti importanti che richiama; piace, però, evidenziarne uno particolarmente significativo tra i tanti, ovvero la sentenza delle Sezioni unite n. 14188 del 2016.

Questa sentenza delle Sezioni unite, nell'affrontare il tema della responsabilità da contatto e precontrattuale in cui incorre la pubblica amministrazione che ingenera un falso affidamento nel privato su cui poi lo stesso crea il suo futuro, costruisce la sua vita sociale ed economica, ha ritenuto che siano risarcibili non soltanto i danni direttamente collegati alla violazione del falso affidamento[3] ma anche la prospettiva della chance. Detto in altri termini, ci si trova di fronte ad alcuni soggetti che hanno operato scelte negoziali ed economiche, pensando che avrebbero avuto quel provvedimento richiesto che, invece, non è intervenuto perché la pubblica amministrazione, dopo averli tenuti appesi per lungo tempo, si è espressa negativamente;  decisione sfavorevole, poi, maturata a seguito di una lunga istruttoria che, in più occasioni, ha fatto comprendere al privato che bastasse produrre un altro documento. 

Allora appare interessante il contenuto della menzionata sentenza n°14188/2016, richiamata dalle Sezioni unite, secondo cui, nell'ambito di questa responsabilità, di culpa in contrahendo residua solo il nome perché non è più una ipotesi di colpa ma è la violazione della buona fede che, sulla base dell'affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti. Ecco che si ha la necessità di abbandonare la prospettiva extracontrattuale, proprio perché, in questi casi, la relazione tra due soggetti è forte, preesistente e riconosciuta nell'ordinamento giuridico e, al centro della costruzione giuridica, non c'è più un tema di colpa ma di violazione della buona fede.

È violazione della buona fede e, infatti, affermano le Sezioni unite che non sorge questa responsabilità in assenza di un rapporto, come avviene della responsabilità aquiliana, quella del passante. Qui, invece, la responsabilità sorge tra la pubblica amministrazione e il privato che, con questa, è entrato in azione: responsabilità da contatto sociale qualificato nel quadro delle obbligazioni nascenti ex articolo 1173 c.c.

C'è un altro punto che si collega ad un'altra parte della sentenza ovvero quello della necessità di una pubblica amministrazione che sia in grado di intavolare con il soggetto privato che entri in contatto con lei rapporti fondati sulla buona fede. La pubblica amministrazione deve comportarsi in buona fede proprio per la posizione in cui si trova e perché agisce sotto l'egida dell'articolo 97 della Costituzione, inquadrata nell'ambito degli obiettivi di buon andamento e imparzialità. La pubblica amministrazione, proprio perché si trova in una posizione di forza nei confronti del privato, deve comportarsi secondo buona fede.

4. Sull’individuazione della giurisdizione sulla responsabilità da falso affidamento del privato.

Per la parte relativa alla giurisdizione, ovvero a quale giudice spetti affermare la giurisdizione su questa responsabilità, si ricorda che il danno viene al privato nell'ambito di un procedimento amministrativo.  Qui, la Corte di Cassazione pone un principio base, un punto fondamentale dal quale è necessario partire. Tutto il percorso si snoda attraverso questo punto e cioè che il danno non è causato da un provvedimento amministrativo, ma è creato da un comportamento dell'amministrazione tenuto nella conduzione dei rapporti tra gli uffici. Il danno si è creato non a causa di un provvedimento amministrativo ma in ragione del comportamento della pubblica amministrazione che ha lasciato il cittadino appeso, che ha ingenerato un affidamento nel soggetto che viene deluso dal diniego finale del provvedimento richiesto; diniego finale, si badi, della cui legittimità o illegittimità qui non si parla.

Vengono, inoltre, in evidenza tre importanti decisioni dell’anno 2011, le nn. 6594, 6595 e 6596 che riguardano tre tipi di provvedimenti capaci di ingenerare un falso affidamento del privato. Il primo era quello classico, ovvero il provvedimento favorevole, successivamente annullato, legittimamente, dalla pubblica amministrazione, in via di autotutela: quindi, il provvedimento favorevole che crea un affidamento tale da fare spese. Tuttavia, va tutelato il privato che avesse ingenerato un affidamento sull’azione della pubblica amministrazione.

Una seconda ipotesi riguarda il caso in cui l'affidamento venga riposto nella attendibilità di un'attestazione rilasciata dalla pubblica amministrazione circa l’edificabilità di un'area e nella legittimità della successiva concessione che, invece, viene annullata perché l'area non è edificabile. Quindi, la pubblica amministrazione ha sbagliato l’attestazione e, correttamente, viene annullato il provvedimento edilizio. La pubblica amministrazione ha però ingenerato questo affidamento nel privato.

Poi, la terza ipotesi è quella che è stata ben indagata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, ovvero è il caso dell’aggiudicazione di una gara successivamente annullata da parte del giudice. Per la lesione dell'affidamento ingenerato nel privato dal provvedimento di aggiudicazione, le Sezioni unite, nel 2011, avevano affermato la giurisdizione del giudice ordinario perché la lesione non derivava da un provvedimento amministrativo ma da un comportamento della pubblica amministrazione che aveva orientato le scelte negoziali.

Tuttavia, questo assetto era stato oggetto di un dibattito, all'interno della stessa Corte di Cassazione, che si era espresso anche in maniera differente a fronte di una consistente parte della giurisprudenza che affermava la giurisdizione del giudice ordinario: si trattava del diritto soggettivo e, per l’esattezza, del diritto alla conservazione dell'integrità del proprio patrimonio.

Un altro orientamento affermava, al contrario, la giurisdizione del giudice amministrativo perché individuava una sequenza di atti intrinsecamente connessi, a seguito dei quali si generava un affidamento: la serie di ipotesi di atti intrinsecamente connessi in cui non è possibile scindere posizioni differenti da tutelare di fronte a giudici diversi. Questa parte della giurisprudenza ritiene che sia questa un'ipotesi di agire provvedimentale nel suo complesso all’interno del quale si genera il danno e la giurisdizione del giudice amministrativo si sarebbe giustificata in ragione del contesto.

Secondo le Sentenza qui in commento bisogna necessariamente ripartire e tornare alla posizione delle Sezioni unite dell’anno 2011, con quelle tre menzionate ordinanze: la n. 6594, 6595, 6596, compiendo alcuni passi in avanti.

Il primo è che la giurisdizione amministrativa presuppone che ci sia una controversia sul legittimo esercizio di un potere autoritativo: la sentenza n° 204 del 2004 della Corte costituzionale ha costruito in questo modo la giurisdizione del giudice amministrativo. Quindi, la giurisdizione amministrativa presuppone l'esistenza di una controversia sul legittimo esercizio del potere autoritativo e il risarcimento del danno non è una nuova materia del giudice amministrativo ma uno strumento ulteriore, rispetto alla tutela demolitoria, rispetto alla tradizionale tutela fondata sull’annullamento dell'atto amministrativo per cautelare il cittadino di fronte all'esercizio del potere.

Qualora la causa petendi non sia l'illegittimità dell'atto amministrativo ma il comportamento della pubblica amministrazione contrario a buona fede. Qui giunge l'eco della sentenza numero 5 del 2018 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato secondo cui affinché sorga una responsabilità della pubblica amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva ma occorrono altri presupposti ovvero che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso ed a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti contraria ai doveri di correttezza e di lealtà.

A tal proposito, è possibile ricavare una sorta di consonanza di idee tra la sentenza delle Sezioni unite in commento e quella menzionata dell'Adunanza plenaria la quale ultima, si ricordi, non si pronunciava espressamente sulla natura da contatto sociale qualificato però affermava già che il danno nascesse nell'ambito di una situazione relazionale qualificata, pur senza prendere posizione sulla natura giuridica contrattuale o extracontrattuale della responsabilità.

Questa situazione relazionale oggi trova il suo perfetto inquadramento nell'ambito di questa sentenza delle Sezioni unite; infatti, non a caso, le Sezioni unite richiamano l'Adunanza plenaria n. 5 del 2018 affermando che, non diversamente da quanto accade nei rapporti con i privati, anche per la pubblica amministrazione le regole di correttezza e di buona fede non sono regole di validità del provvedimento ma determinano soltanto una responsabilità precontrattuale per il comportamento tenuto.

Con l'entrata in vigore del “Codice del processo amministrativo”, l'articolo 7, primo comma, ammette la possibilità di un risarcimento del danno da comportamento quando il comportamento sia riconducibile, anche immediatamente, all'esercizio di un potere così come insegnato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n° 191 del 2006.

Queste conclusioni non vengono smentite neppure dall'articolo 30, secondo comma, del “Codice del processo amministrativo” che, nel descrivere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, richiede comunque che questa materia possa essere esclusiva soltanto quando la pubblica amministrazione agisca esercitando un potere autoritativo; affermazione in linea con l'interpretazione che possiamo trovare nella sentenza n° 191 del 2006 secondo cui occorre comunque un comportamento collegato all'esercizio del potere.

In definitiva, per aversi giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è necessario che la causa petendi si radichi nelle modalità di esercizio del potere amministrativo.

La pronuncia in commento ricorda, poi, una sintesi linguistica ovvero che il danno da affidamento incolpevole sia un danno da delusione della fiducia che il privato abbia riposto nella pubblica amministrazione; un danno subito a causa di una condotta dettata da fiducia mal riposta. Si tratta, in sostanza, di un'aspettativa di coerenza e di non contraddittorietà nel comportamento dell'amministrazione.

Questo principio di tutela dell'affidamento si atteggia come fondamentale del diritto dell'Unione europea e del nostro ordinamento giuridico da cui si ricavano una serie di elementi nell'ambito della legge sul procedimento amministrativo, ovvero la legge n° 241/90:

  • l'indennizzo in caso di revoca di un provvedimento amministrativo, previsto dall'articolo 21 quinquies;
  • i limiti temporali all’annullamento di un provvedimento amministrativo secondo un tempo ragionevole e in un massimo di 18 mesi così come previsti dall’articolo 21 nonies; 
  • il fatto che, in caso di annullamento amministrativo sia necessario tener conto dell'interesse del soggetto interessato dal provvedimento;
  • l'obbligo di risarcire il danno ingiusto determinato dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione procedimento amministrativo previsto all'articolo 2-bis.

La decisione in commento opera poi un passaggio interessante perché afferma che le norme menzionate non si attagliano direttamente alla fattispecie perché riguardano il procedimento amministrativo. Qui, invece, si afferma che non ci sia un procedimento e che questa tipologia di danno non derivi dal provvedimento ma da un comportamento.  Quindi, in realtà, le norme richiamate dalle Sezioni unite afferiscono all'area provvedimentale e al tema dell’illegittimità; riguardano però anche l'esercizio del potere della pubblica amministrazione per cui appaiono rilevanti anche per i ragionamenti qui svolti.

5. Il risarcimento dei danni provocati dalla pubblica amministrazione. Una ricostruzione diacronica

La problematica del risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, su cui si è affannata la dottrina e la giurisprudenza più accorta, va affrontata sotto un duplice aspetto, processuale e sostanziale.

A tal proposito, nell’ambito processuale si distinguono almeno tre filoni di indagine:

  • il riparto di giurisdizione per le pretese risarcitorie, nel senso di chiarire se la domanda di risarcimento del danno vada proposta dinanzi al giudice amministrativo o ordinario;
  • le modalità di esercizio dell’azione risarcitoria e, quindi, i rapporti tra azione di annullamento e azione di risarcimento del danno (cd. pregiudizialità)[4];
  • la proponibilità della domanda risarcitoria nel giudizio di ottemperanza.

Sotto il profilo sostanziale vengono, invece, in rilievo gli elementi costitutivi e la natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione: ovvero se sia riconducibile al modello aquiliano o contrattuale da contatto amministrativo qualificato declinato come doveri di correttezza comportamentale della pubblica amministrazione[5].

Il primo problema da affrontare, nell’ambito dell’aspetto processuale, è quello relativo al riparto di giurisdizione. Più precisamente, si verificherà, in concreto, a quale giudice bisogna rivolgersi per chiedere il risarcimento del danno nei diversi casi di:

  1. danno da silenzio;
  2. danno da mancato esercizio dei poteri (potere – dovere) inibitori che al comune spettano laddove taluno abbia presentato una denuncia di inizio attività;
  3. danno da omessa vigilanza Consob sui prospetti informativi;
  4. danno da responsabilità precontrattuale[6];
  5. danno da occupazione appropriativa

Nell’evoluzione in tema di risarcibilità degli interessi legittimi e riparto di giurisdizione vengono in rilievo distinte fasi:

  • fino all’anno 1998[7] il sistema di riparto di giurisdizione era imperniato sulla regola per cui il giudice amministrativo non potesse mai occuparsi dei profili risarcitori, neanche nelle materie di giurisdizione esclusiva[8]. Vigeva, quindi, un sistema del doppio binario in cui al giudice amministrativo ci si rivolgeva per l’annullamento e al giudice ordinario per il risarcimento del danno.
  • Nell’anno 1998 il legislatore avverte un’esigenza di concentrazione processuale;
  • Nell’anno 1999[9] la Corte di Cassazione, dopo aver riconosciuto la risarcibilità del danno derivante da lesione di interessi legittimi, stabilisce anche a quale giudice si debba chiedere.

La legge n. 205/2000, nel riscrivere l’art. 7, comma terzo, della “legge TAR”, prevede che il giudice amministrativo si occupi di risarcimento del danno nell’ambito di tutta la sua giurisdizione; successivamente, nel 2004, la Corte costituzionale, con sentenza n. 204, ha enunciato importanti principi sul tema.

Prima della sentenza del 1999, la giurisprudenza della Corte di Cassazione era dell’avviso per cui l’interesse legittimo non meritasse la tutela risarcitoria sulla base di una serie di argomentazioni. Pur affermando il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi, la stessa Corte riteneva che alcune posizioni soggettive meritassero già una tutela di tipo risarcitorio. Attraverso la teoria dei diritti affievoliti la giurisprudenza riusciva così a garantire la tutela risarcitoria a determinati interessi legittimi fingendoli diritti soggettivi, dando la possibilità di chiedere il risarcimento del danno davanti al giudice ordinario, ferma restando la pregiudizialità[10].

Con la sentenza n° 500/99, la Corte di Cassazione riteneva che vi fossero due giudici del risarcimento del danno. Si sosteneva che si dovesse guardare alla causa:

  • se cagionato dalla pubblica amministrazione, nell’esercizio di materie esclusive, si riteneva che si dovesse andare davanti al giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 35 d.lgs. n° 80/98;
  • se cagionato dalla pubblica amministrazione, nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, si riteneva la giurisdizione del giudice ordinario.

Fondamentale argomento teorico posto a base di questa costruzione sostiene che, dalla lesione dell’interesse legittimo, deriverebbe un diritto soggettivo al risarcimento del danno, sicché, applicando il criterio della causa pretendi, una controversia di tal genere non potesse che essere instaurata dinanzi al giudice ordinario.

A queste conclusioni si opponeva chi riteneva che il diritto soggettivo al risarcimento del danno altro non fosse che una tecnica di tutela dell’interesse legittimo: se la tutela risarcitoria è rimedio da far valere nel caso di lesione di interesse legittimo, la correlata azione non può che essere proposta davanti al giudice amministrativo.

A conferma di questo orientamento, si sosteneva, è il fatto che diversamente opinando si rischierebbe di far rivivere, ai fini del riparto di giurisdizione, il criterio del petitum formale in luogo della causa pretendi. Ad ulteriore riprova, un terzo argomento sosteneva che l’art. 103 della Costituzione attribuisce testualmente al giudice amministrativo la “tutela” degli interessi legittimi e non solo la loro “cognizione”: la tutela, di conseguenza, potrà attuarsi anche attraverso il risarcimento del danno.

Il terzo momento, rilevante ai fini di questa ricostruzione, si ha con la legge n. 205/2000 che riscrive l’art. 7, comma terzo, della “legge TAR”. Il criterio adottato dal legislatore, ai fini della ripartizione tra giudice ordinario ed amministrativo, in tema di risarcimento del danno, è quello della causa del danno.

Per quanto attiene al riferimento alla consequenzialità contenuto nella medesima norma, si è sostenuto che c’è consequenzialità, e quindi giurisdizione del giudice amministrativo, solo quando i diritti patrimoniali siano la conseguenza di un atto impugnato e caducato. Nel caso contrario si radicherà la giurisdizione del giudice ordinario.

Ulteriore passaggio è quello che si attua con la sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004. Il criterio indicato dalla Consulta è che il giudice amministrativo può avere giurisdizione, anche esclusiva, in tema di risarcimento del danno, purché sussista la c.d. “inerenza al potere” della controversia da portare dinanzi al giudice amministrativo, cioè che nella controversia la pubblica amministrazione si sia comportata da autorità[11].

Viceversa, quando la controversia, anche per la sua appendice risarcitoria, non inerisca all’esercizio del potere sarà competente a conoscerla il giudice ordinario. Seguendo il criterio dell’inerenza al potere la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34 del d. lgs. n° 80/98 nella parte in cui prevede la devoluzione al giudice amministrativo delle controversie riguardanti i comportamenti della pubblica amministrazione in materia di edilizia e urbanistica. L’assetto successivo a tale pronuncia della Corte costituzionale prevedeva quindi che i danni derivanti dall’illegittimo esercizio del potere venissero chiesti al giudice amministrativo mentre per i meri comportamenti si andava dinanzi al giudice ordinario.

Sennonché la stessa Consulta non ha approfondito, nella menzionata “sentenza 204”, la nozione di comportamento, favorendo lo sviluppo di un ampio dibattito proprio in tema di comportamenti della pubblica amministrazione.

Si svilupperanno, ora, alcune ipotesi di riparto di giurisdizione su casi possibili di comportamenti sleali della pubblica amministrazione.

6. Il danno comportamentale da silenzio.

Uno dei dubbi su cui si sono esercitati dottrina e giurisprudenza è se il silenzio sia un comportamento o una forma di esercizio del potere. Sul punto, la sentenza di riferimento è l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato datata 15 settembre 2005, n. 7[12].

L’ordinanza aveva sottolineato tre diversi profili:

  • uno di natura sostanziale, su quali fossero i danni da silenzio di cui fosse possibile chiedere il ristoro;
  • due di natura processuale. Di questi, l’una verteva sulla giurisdizione e l’altro sulle modalità di esercizio dell’azione[13].

Quanto al profilo di natura sostanziale, due sono le principali tesi a confronto.

Una prima tesi[14] sostiene che perché si configuri un danno da silenzio non sia sufficiente la mera illegittimità dello stesso ma sia necessario un giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita[15]. Secondo questa impostazione non sarebbe risarcibile il silenzio mero.

Una seconda tesi[16] sostiene che il privato abbia una sorta di diritto soggettivo al rispetto della tempistica procedimentale da parte della pubblica amministrazione, a prescindere dalla spettanza del bene finale. L’esistenza di questa autonoma posizione soggettiva genererebbe la risarcibilità del danno da ritardo mero. All’interno di questa teoria si distinguono due diverse impostazioni: chi ritiene che al rispetto della tempistica corrisponda un vero e proprio diritto soggettivo, creando però dubbi sulla giurisdizione, e chi ritiene che, al rispetto della tempistica, si associ una posizione del tutto autonoma che assume le sembianze dell’interesse legittimo di tipo procedimentale.

La posizione, criticata, dell’Adunanza plenaria sul punto è che può essere risarcito solo l’interesse sostanziale al bene della vita e non l’interesse al rispetto della tempistica procedimentale che non integrerebbe il requisito dell’ingiustizia del danno richiesto dall’art. 2043 c.c.

In relazione al problema del riparto di giurisdizione, con riferimento ai profili di natura processuale e partendo dall’impostazione dottrinale successiva alla “sentenza 204”, la dottrina ha ritenuto di dover distinguere tra:

  • comportamento puro[17];
  • comportamento amministrativo[18].

Secondo questa impostazione, poi recepita dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, un comportamento è il contrario di un potere e non di atto amministrativo nel senso che ci possa essere un potere che si eserciti anche senza l’adozione di un atto.

Il Consiglio di Stato valuta, innanzitutto, se il silenzio sia o meno un comportamento, concludendo che il danno da silenzio va chiesto al giudice amministrativo perché l’amministrazione, pur non adottando un atto amministrativo, esercita inadeguatamente un potere. Ne deriva che il silenzio è un potere che l’amministrazione non esercita.

Il silenzio è, quindi, “comportamento amministrativo”, espressione che non si rinviene nella sentenza in esame ma che verrà utilizzata più tardi dalla Corte costituzionale, nella sentenza n° 191/2006.

Secondo un’altra argomentazione, si registrerebbero alcune aporie nell’ordinamento, poiché, a fronte della lesione della medesima situazione soggettiva, ci sarebbero giudici diversi, a seconda della tecnica di tutela invocata. La pubblica amministrazione, quindi, restando inerte, deciderebbe innanzi a quale giudice instaurare il giudizio poiché il privato dovrebbe attivare il rito, ex art. “21 bis” della “legge TAR”, dinanzi al TAR, ora articoli 31 e 117 del c.p.a, richiedendo il risarcimento del danno al giudice ordinario, con conseguente sdoppiamento della tutela a fronte della medesima situazione soggettiva.

7. Il danno comportamentale da responsabilità della stazione appaltante.

Sul tema del danno da responsabilità della stazione appaltante, vanno esaminate due distinte questioni:

  • una questione sostanziale, di ammissibilità della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione;
  • una questione processuale, di riparto di giurisdizione.

Quanto al profilo sostanziale, negli anni ’60 la giurisprudenza escludeva che si potesse configurare una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione ([19]), perché:

  • la pubblica amministrazione esercita una potestà pubblicistica e, quindi, il giudice non avrebbe mai potuto valutare la coerenza con la buona fede perché così facendo avrebbe finito col sindacare la discrezionalità;
  • il privato non avrebbe potuto fare affidamento sulla conclusione del contratto perché mancherebbe quella relazione specifica tra due soggetti che sola può ingenerare affidamento.

Tale orientamento è stato superato perché il giudice non valuta la discrezionalità della pubblica amministrazione bensì l’attività esercitata iure privatorum, non la discrezionalità quindi ma la correttezza.

Una volta ammesso l’an della responsabilità precontrattuale, la dottrina si preoccupa di fissarne i paletti  di operatività, escludendola per le ipotesi in cui la pubblica amministrazione indichi e gestisca una vera e propria procedura ad evidenza pubblica, perché, in questo caso, mancherebbe il presupposto di invocabilità dell’obbligo di buona fede; non si instaura cioè quella relazione specifica tra due soggetti, poiché l’unica cosa che il partecipante alla gara può sindacare è come la pubblica amministrazione gestisce la procedura ad evidenza pubblica. Si può contestare solo la illegittimità degli atti e non la buona fede.

Secondo questa impostazione solo nella trattativa privata pura può ritenersi sussistente una responsabilità precontrattuale.

Si aggiunga che, nel nostro ordinamento, queste ipotesi sono rare ed anche la trattativa è diventata procedimentalizzata.

La Corte di Cassazione ha riconosciuto la responsabilità precontrattuale quando, scelto il contraente, per l’aggiudicazione dell’appalto si tratta di stipulare il contratto.

In relazione al profilo sostanziale, secondo l’Adunanza plenaria n° 6/2005[20], l’aggiudicatario revocato può chiedere:

  1. il danno per revoca illegittima;
  2. in subordine, il danno per responsabilità precontrattuale[21].

Ebbene, il quadro preesistente in materia, quanto al riparto di giurisdizione, è il seguente.

In una prima fase e prima del 2000 ([22]) la giurisprudenza riteneva che queste controversie da responsabilità precontrattuale dovessero radicarsi in capo al giudice ordinario, seguendo due diversi percorsi argomentativi:

  • in alcune sentenze l’argomentazione utilizzata è quella per cui il danno da scorrettezza lede un diritto soggettivo, cioè il diritto alla correttezza dell’altro soggetto nelle trattative;
  • in altre sentenze si leggeva che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione presupponesse una mera scorrettezza comportamentale e, in quanto comportamento, si radicasse la competenza del giudice ordinario.

In una seconda fase, la giurisprudenza ha sostenuto che le controversie sulla responsabilità precontrattuale dovessero andare al giudice amministrativo in base al combinato disposto dell’art. 6 legge n. 205/2000 e dell’art. 35 d.lgs. n. 80/98, laddove per “affidamento” dovrebbe intendersi la fase che va dall’indizione della gara alla stipula del contratto.

La terza fase si apre con la sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004. La Corte costituzionale si occupa degli artt. 34 e 35 del d.lgs. n° 80/98 ma enuncia anche il principio generale per cui solo se i comportamenti sono riconducibili a mere attività materiali la giurisdizione è del giudice ordinario.

Ci si è chiesti allora se la scorrettezza della pubblica amministrazione possa essere ritenuta un comportamento.

  • secondo alcuni, la sentenza Corte costituzionale n° 204/2004 è riferibile esclusivamente agli artt. 33 e 34 del d.lgs. n° 80/1998, lasciando inalterate le altre ipotesi di giurisdizione esclusiva. Guardando, quindi, al dispositivo della “sentenza 204” nulla sarebbe cambiato in tema di responsabilità precontrattuale;
  • secondo altri, la Corte costituzionale avrebbe enunciato un principio generale che varrebbe quantomeno come criterio interpretativo per le altre ipotesi di giurisdizione esclusiva.

L’Adunanza plenaria ritiene che la mancata tempestiva informazione da parte della stazione appaltante non costituisca un comportamento mero, bensì integra un comportamento mediatamente ricollegabile all’esercizio del potere. Infatti, la mancata informazione afferisce alla gestione della procedura pubblica, attraverso cui si esercita un potere.


Note e riferimenti bibliografici

[1]Cons. St., A.P., 4 maggio 2018, n. 5

[2] La responsabilità del passante è una responsabilità tra soggetti che non si conoscono

[3] Quindi le spese che il soggetto ha posto in essere ovvero i mancati guadagni derivanti

[4] In relazione a questo tema le sentenze Corte di Cass. 13559 e 13560 del 2006 contro Cons. di Stato, Ad. Plen. 2003

[5] Nel diritto civile si parla di responsabilità derivante dall’inosservanza degli obblighi di protezione

[6] Mancata tempestiva comunicazione di assenza di fondi da parte della stazione appaltante

[7] D.lgs. 80/98

[8] Perché le questioni risarcitorie rientravano nei diritti patrimoniali consequenziali, attivando quindi la competenza del g.o.

[9] Sent. n. 500/99

[10] Ad esempio, in tema di esproprio, prima chiedere l’annullamento dell’atto per poi chiedere il risarcimento davanti al g.o, perché del diritto soggettivo “rinato” poteva chiedersi risarcimento.

[11] In questo senso il g.a. è giudice dell’esercizio del potere

[12] Ord. IV sez. n. 875/2005

[13] Più precisamente quest’ultimo si riferiva alla c.d. pregiudizialità – Ad. Plen. n. 4/2003: la pregiudizialità vale anche per un non atto e cioè per il silenzio?

[14] Qualificando la responsabilità della p.a. come aquiliana

[15] Se la p.a. non avesse serbato un silenzio illegittimo avrebbe rilasciato il provvedimento richiesto?

[16] Clarich

[17] Che è quello che non ha niente a che fare con l’esercizio del potere, è svincolato dal potere

[18] E’ il caso in cui la condotta dell’amministrazione pur non concretizzandosi in un atto amministrativo è in qualche modo riconducibile all’esercizio di un potere

[19] Artt. 1337 – 1338 c.c.

[20] Ord. IV sez. n. 920/2005

[21] Le conclusioni della IV sezione si possono così riassumere:

  1. quanto al sub 1, il giudice amministrativo ha ritenuto che, nel caso di specie, la revoca era atto dovuto. Da qui ha dichiarato l’inammissibilità della domanda di risarcimento. Non potendosi dichiarare la pregiudiziale illegittimità del provvedimento veniva a mancare il presupposto stesso del risarcimento.
  2. La causa del danno non era da ritenersi la revoca illegittima, bensì era rappresentata dalla scorrettezza usata dalla pubblica amministrazione nella gestione della gara. Essendo già intervenuta la sentenza Corte costituzionale n° 204/2004, la IV sezione ha rimesso la questione all’Adunanza plenaria.

Uno dei punti affrontati è se la scorrettezza sia un mero comportamento o un esercizio del potere

[22] Art. 6 l. n. 205/2000                                                                                                                                                                            

[23] Che non ha correttamente vigilato sulla veridicità dei libretti informativi

[24] 29 luglio 2005, n. 15916

[25] Ad esempio il potere disciplinare contro i promotori finanziari

[26] Danno da inadempimento di un dovere e non da esercizio di un potere

[27] Sentenza n° 1464-1983