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Pubbl. Lun, 21 Set 2020

La concessione demaniale marittima con particolare riferimento alle problematiche che pone il rinnovo o la proroga

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Vincenzo Visone
Dottore di ricercaUniversità degli Studi di Napoli Parthenope



Questo studio approfondisce la vicenda delle concessioni demaniali marittime e, in particolare, la questione del rinnovo o la proroga. Lo scritto spiega un’ampia ricognizione della disciplina dei beni pubblici e privati nonché dei criteri di qualificazione degli stessi. In via successiva, affronta specificamente il tema principale delle concessioni demaniali marittime, attraverso la ricostruzione normativa e le vicissitudini susseguitesi sia in seno alla giurisprudenza amministrativa e parimenti dinanzi alla Corte di Giustizia.


ENG This study explores the story of maritime state-owned concessions and, in particular, the issue of renewal or extension . The paper explains a broad reconnaissance of the discipline of public and private assets as well as of the qualification criteria of the same. Subsequently, it specifically addresses the main theme of maritime state-owned concessions, through regulatory reconstruction and the vicissitudes that occurred in jurisprudence, in Italy and in Europe.

Sommario: 1. Introduzione; 2. Dalla Costituzione al codice civile;  3. Le varie classificazioni dei beni;  3.1. I criteri di classificazione; 4. Il caso delle concessioni demaniali marittime; 5. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale, domestica e comunitaria, delle concessioni demaniali marittime; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

La disamina della concessione demaniale marittima e delle questioni problematiche sorte in ordine al suo rinnovo o alla sua proroga impone un preliminare quanto necessario riferimento alle disposizioni che governano il diritto di proprietà, al regime giuridico cui sono sottoposti i beni pubblici e privati nel tessuto del Codice civile, nonché all’influenza esercitata dal diritto comunitario circa il ruolo dello Stato nella gestione dell’economia interna.

In ordine al primo aspetto, l’art. 42 della Costituzione statuisce che la proprietà è pubblica o privata. Dal secondo comma della disposizione appena cennata, invece, si desume la possibile appartenenza dei beni economici allo Stato, ad altri enti e ai privati. L’ultima parte della norma, infine, prevede una riserva di legge che tange la proprietà privata, la cui utilizzazione è piegata ad una funzione sociale.

Autorevole dottrina[1] evince dal tenore letterale dell’art. 42 Cost. una rilevante conseguenza, ovvero la capacità dello Stato di assumere la duplice veste di proprietario e/o di regolatore. Ciò si spiega alla luce di una precisa scelta del legislatore costituente, il quale, superando la concezione accolta dal codice napoleonico del 1804 e del codice civile italiano del 1865 che ravvisava nell’appartenenza di un bene ad un ente pubblico la proiezione dell’esercizio della sovranità sul territorio, ha aderito alla ricostruzione per cui la proprietà pubblica si distingue da quella privata non per la sua natura bensì in virtù della disciplina che la governa[2].

2. Dalla Costituzione al Codice civile

La norma di rango costituzionale de qua costituisce, dunque, il fondamento degli artt. 822 e ss. del Codice civile. Quest’ultimo, innanzitutto, enuncia che appartengono allo Stato e fanno parte del demanio pubblico il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti, i fiumi, i torrenti e le altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia, nonché le opere destinate alla difesa nazionale. Il secondo comma dell’art. 822 annovera nei beni riconducibili al demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade le strade ferrate, gli aerodromi, gli acquedotti, gli immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico, e artistico a norme delle leggi in materia, le raccolte di musei, pinacoteche e gli altri beni che sono assoggettati al regime proprio del demanio pubblico.

Il successivo art. 826 del codice indica, invece, i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato; mentre mediante l’art. 828 il legislatore sì è fatto carico della loro regolamentazione. Essi pertanto sono soggetti alle regole particolari che li concernono e, in quanto non è diversamente disposto, alle regole del Codice civile e ciò che fa parte del patrimonio indisponibile non può essere sottratto alla sua destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano.

L’art. 828, poi, prevede una categoria residuale, quella dei beni patrimoniali disponibili.

Infine, molte leggi speciali dettano una disciplina peculiare per dei beni privati d’interesse collettivo. Paradigmatico sul punto è il decreto legislativo 42 del 2004, il quale attribuisce poteri di natura conformativa in capo alle pubbliche amministrazioni sulle res di proprietà privata avente rilevanza culturale e paesaggistica.

3. Le varie classificazioni dei beni

I beni che appartengono al demanio dello Stato, al suo patrimonio disponibile e quelli la cui titolarità è da ricondursi in capo ai privati si distinguono sia rispetto al loro regime giuridico sia in ordine alla funzione che sono chiamati ad espletare.

I beni demaniali, a mente dell’art. 823 del Codice civile, sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge. Secondo l’esegesi ermeneutica prevalente la inalienabilità comporta l’incommerciabilità dei beni di cui si discorre. La dottrina prevalente[3], dall’interpretazione della disposizione normativa de qua, attinge diverse e rilevanti conseguenze.

I beni demaniali infatti non sono cedibili attraverso un contratto di diritto privato a pena di nullità[4], non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi se non nei modi e nei limiti previsti dalla legge, né di un possesso valido ai fini di un acquisto mediante usucapione, né di garanzia patrimoniale per i creditori della pubblica amministrazione cui appartengono, né di procedure esecutive. Inoltre, l’acquisto e la perdita della demanialità segue un precipuo iter procedimentale, consistente in una dichiarazione della pubblica amministrazione con successiva pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.

Peraltro, per i beni appartenenti al demanio naturale, si ritiene sufficiente che essi possiedano le caratteristiche richieste dalla legge, mentre per quelli annoverabili nel demanio artificiale occorre la realizzazione dell’opera, la sua rispondenza ai connotati previsti dal referente normativo che viene in rilievo e la sua destinazione al soddisfacimento di un interesse pubblico. La perdita della demanialità è soggetta ad un procedimento esattamente speculare.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione[5] e il Consiglio di Stato[6], invero, hanno asserito che è ammissibile una sdemanializzazione tacita purché sussistano atti e fatti dell’ente proprietario che depongano inequivocabilmente in tal senso, non bastando in proposito il mero disuso delle res publicae.

I beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato, almeno in tesi, sono governati da una regolamentazione meno severa. Infatti, l’art. 828 del Codice civile si limita a sancire che essi non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi che stabiliti dalle leggi che li riguardano. Sul significato da attribuire alla locuzione destinazione si sono registrati diversi orientamenti dottrinali.

Secondo una prima esegesi interpretativa[7], essa dovrebbe intendersi quale impedimento alla pubblica amministrazione non di cedere mediante negozi di diritto privato i beni oggetti del patrimonio indisponibile dello Stato, bensì di rendere oggetto di negoziazione la loro funzione, modificabile soltanto facendo ricorso alle regole previste a tal fine da specifiche disposizioni normative.

Per i sostenitori di un differente approdo ermeneutico[8], vi sono numerose leggi settoriali intervenute nella materia de qua che hanno imposto per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato una disciplina perfettamente sovrapponibile a quella dettata dall’art. 823 del Codice civile per il demanio pubblico. L’indisponibilità della destinazione cui sono sottoposti equivarrebbe, pertanto, alla loro incommerciabilità nei termini e con i riverberi pratico applicativi sopra indicati.

I beni disponibili, viceversa, sono commerciabili, usucapibili, possono essere oggetto di garanzia patrimoniale ed attinti da eventuali procedure esecutive. Un simile insieme di precetti è giustificato dalla loro funzione squisitamente economica, consistente nel garantire dei flussi di cassa alle pubbliche amministrazioni.

I cosiddetti beni privati di interesse collettivo, invece, appartengono a privati; tuttavia le potenziali vicende che li riguardano, come la loro circolazione, l’acquisto o l’alienazione registrano delle deroghe rispetto a quanto previsto dal Codice civile in virtù di un interesse pubblico da cui sono intrinsecamente contrassegnati.

Infine, il Codice civile contempla i beni privati soggetti a vincoli di varia natura, quali quelli urbanistici, edilizi o idrogeologici. Il potere di esercitare un pubblico potere si spiega, secondo autorevole dottrina, alla luce dell’interferenza dell’uso esclusivo della proprietà privata con un interesse pubblico. Il rapporto tra quest’ultimo e il bene giustifica la titolarità in capo ad un comune cittadino e vincoli conformativi poiché, a differenza dei beni appartenenti al demanio dello Stato, al suo patrimonio indisponibile o disponibile, nonché dei beni privati di interesse collettivo, obiettivamente rilevanti per la generalità dei consociati, i beni la cui titolarità spetta ai privati sono attinti solo dall’esterno dall’interesse pubblico, che può incidere su di essi in virtù della funzione sociale attribuita dalla Costituzione alla proprietà.

3.1. I criteri di classificazione

La lettura e l’interpretazione teleologico sistematica della normativa afferente alla normativa de qua ha dato la stura ad opinioni dottrinali differenti e talvolta completamente divergenti circa i canoni da utilizzare per sussumere un bene nel novero di una delle categorie menzionate.

Secondo un primo filone interpretativo[9] in assenza di criteri oggettivi volti a distinguere le diverse categorie di beni e stante l’assimilazione in punto di disciplina tra demanio dello Stato e patrimonio indisponibile, le norme codicistiche avrebbero una funzione meramente descrittiva. I beni pubblici potrebbero essere suddivisi in base al tipo di proprietà cui danno luogo: collettiva, divisa e individuale. Nella prima ipotesi essa concerne beni indivisibili per natura, come il mare e le cose extra commercium, e il godimento degli stessi spetterebbe all’intera collettività.

Nel secondo caso, invece, elemento peculiare della proprietà sarebbe la sua titolarità in capo a due diversi soggetti, resa possibile dal fatto che l’uso del bene da parte di uno non ne impedisce l’utilizzazione da parte di altri.

Nell’ultima fattispecie, infine, la proprietà fa capo ad un solo soggetto cui competono appartenenza e godimento ma secondo differenti gradazioni. La principale obiezione che viene mossa a detta tesi è la mancanza di sufficienti addentellati normativi.

Altra dottrina[10] propone un distinguo tra beni riservati e beni a destinazione pubblica a seconda che essi siano individuati dalla legge sulla scorta delle loro caratteristiche naturali o siano asserviti all’espletamento di un servizio pubblico dalla pubblica amministrativo attraverso un precipuo provvedimento amministrativo. I beni demaniali e i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dello Stato sarebbero annoverabili nella categoria dei beni riservati. Detta teorica, tuttavia, accomunando in punto di disciplina i suddetti beni, collide con le disposizioni presenti nel Codice civile che per l’acquisto o la perdita della demanialità e il passaggio dal patrimonio indisponibile a quello disponibile dello Stato e viceversa prevede regole differenti.

L’approdo ermeneutico prevalente[11], ad onta delle proposte volte a superare le classificazioni previste dal codice civile, muove dal medesimo, proponendo una collocazione dei beni non perfettamente sovrapponibile con quella codicistica (senza entrare in contraddizione con essa), che tiene presente il regime derogatorio della loro disciplina rispetto a quello proprio della proprietà privata e pone la sua attenzione non tanto sull’appartenenza del bene quanto sul suo uso.

Ciò premesso, dunque, sarebbe possibile distinguere quattro categorie di beni, ovvero i beni privati, i beni di club, i beni collettivi e i beni pubblici.

La loro individuazione e differenziazione dovrebbe avvenire in ossequio al principio di proporzionalità, sulla scorta del quale l’ampiezza delle eccezioni al diritto comune devono essere strettamente necessarie al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse, nonché alla luce dei canoni della rivalità e della escludibilità elaborati dalla scienza economica volti ad individuare i cd. fallimenti del mercato.

I beni sono escludibili a seconda che, una volta prodotti, sia possibile estromettere dal loro uso e godimento taluni soggetti; i beni riservati sono quelli la cui fruizione da parte di un soggetto limiti l’utilizzazione e il consumo da parte di altri.

Alla luce di quanto esposto, allora, è stato osservato quanto segue.

I beni privati, come gli alimenti o il vestiario, sono sia escludibili sia rivali. I beni di club, tra cui è possibile annoverare le autostrade a pedaggio, hanno natura non rivale ma escludibile. I beni collettivi, quali pascoli, fiumi, risorse ittiche e faunistiche, non sono escludibili ma hanno carattere rivale. Infine, i beni pubblici non sono né rivali né escludibili.

Detti criteri di natura sostanziale elaborati dalla scienza economica, come già accennato, non collidono con la disciplina dettati dal Codice civile e dalle leggi di settore.

Essi, talvolta, sono gli unici in grado di giustificare l’intervento del pubblico potere e il rilascio di taluni beni, come quelli demaniali, destinati alla fruizione pubblica, a singoli utilizzatori.

Di regola, infatti, la loro utilizzazione non può essere preclusa ad alcun soggetto e non ne impedisce il godimento ad altri. I medesimi, tuttavia, possono perdere la loro natura non rivale e non escludibile per la loro scarsità rendono necessario il ricorso ad uno strumento amministrativo mediante il quale assegnarne l’utilizzazione esclusiva, rappresentato dalla concessione amministrativa.

4. Il caso delle concessioni demaniali marittime

Paradigmatica sul punto è la vicenda inerente alle concessioni demaniali marittime e la disciplina di cui agli artt. 36 e 37 del codice della navigazione.

La prima delle disposizioni menzionate statuisce che l’amministrazione marittima, compatibilmente con le esigenze del pubblico uso, può concedere l’occupazione e l’uso, anche esclusivo, di beni demaniali e di zone di mare territoriale per un determinato periodo di tempo.

Il comma secondo del successivo art. 37 prevedeva, nella sua formulazione originaria, il cd. diritto di insistenza, per cui era data preferenza alle precedenti concessioni già rilasciate, in sede di rinnovo, rispetto alle nuove istanze.

Il diritto di insistenza, come desumibile da una piana lettura della disciplina normativa, è una situazione soggettiva di cui è titolare il concessionario di un bene pubblico e consiste nella preferenza accordata al precedente concessionario, rispetto agli altri concorrenti, nel momento in cui la concessione perde la sua efficacia e l’amministrazione provvede ad attribuire nuovamente il godimento del bene[12].

La giurisprudenza amministrativa, invero, ancor prima dei moniti provenienti dall’Unione Europea di cui tra poco si dirà, aderiva ad opinioni differenti circa la rilevanza del diritto di insistenza.

Secondo un primo orientamento[13] il diritto di insistenza si tradurrebbe in un limite interno della discrezionalità amministrativa, per cui non si può non tenere conto della pregressa utilizzazione del bene poiché essa costituisce indice di maggiore idoneità del precedente gestore a fruire in modo ottimale del bene ed è espressione del legittimo affidamento riposto da quest’ultimo,  i cui investimenti e le cui ragioni meritano di essere tutelati.

La tesi dominante in seno al Consiglio di Stato[14], però, equiparava il diritto di insistenza ad una prelazione civilistica. Ciò stava a significare che lo stesso rileva solo se e nella misura in cui chi ne sia titolare abbia offerto delle condizioni almeno identiche a quelle degli altri concorrenti.  

La dottrina[15]  ritiene che l’amministrazione debba procedere ad una ponderazione comparativa e valutare se vi siano offerte volte a tutelare interessi di rango superiore[16].

La parità di condizioni imporrebbe, dunque, l’espletamento di una gara pubblica, la sua idonea pubblicizzazione, nonché l’effettiva equipollenza delle condizioni proposte dai diversi candidati.

L’interpretazione restrittiva del diritto di insistenza e del vecchio art. 37 era strettamente correlata all’esigenza di rispettare i principi comunitari della libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza, atteso che con la concessione di un’area demaniale marittima si consente ad un soggetto che opera sul mercato di ottenere un profitto volto ad incrementate il suo patrimonio, sia in termini squisitamente economici sia in termini d’immagine.

Ciò posto, se così interpretato il diritto di insistenza di cui all’art. 37 del codice della navigazione non poneva problemi di notevole rilevanza. Particolarmente spinose, viceversa, sono state le questioni sorte a seguito della disciplina introdotta mediante la legge 88 del 2001, che ha sancito la esennalità e il rinnovo automatico delle concessioni demaniali marittime aventi finalità turistico ricreative, in ragione dell’influenza esercitata dal diritto comunitario sulla gestione dei beni pubblici.

In proposito l’art. 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sancisce che i Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri. Quest’ultimo pertanto non esprime un disfavore per la proprietà pubblica rispetto alla proprietà privata.  Gli artt. 28, 36, e 49 del TFUE, tuttavia, enunciano e impongono la libera circolazione delle merci, dei servizi e il cd. diritto di stabilimento. Ciò  sta a significare che il diritto comunitario ha compiuto un ulteriore e diverso passaggio da quella realizzato dalla Carta Costituzionale: se, infatti, la medesima ha posto l’attenzione sul regime giuridico della proprietà per superare la concezione sorta ad inizio ottocento che legava detto diritto dominicale all’esercizio della sovranità dello Stato, per il diritto comunitario rileva solo l’aspetto oggettivo della tutela degli interessi pubblici e delle facoltà riconosciute ai singoli dai trattati in ordine di accedere a beni destinati ad un uso collettivo.

5. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale, domestica e comunitaria, delle concessioni demaniali marittime

Tanto premesso, il diritto di insistenza di cui all’art. 37, alla luce della disciplina introdotta dalla legge 88 del 2001, è stato ritenuto incompatibile con la libertà di stabilimento sancita dall’art. 48 del TFUE dalla Commissione Europea, con la consequenziale apertura di una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia, chiusa dopo l’abrogazione delle norme che prevedevano il rinnovo automatico delle concessioni.

Il legislatore italiano con la legge 221 del 2012, disciplinando nuovamente la normativa esaminanda ha disposto che le concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico ricreativo, ad uso pesca, acquicoltura ed attività produttive ad esse connesse, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e puniti di ormeggio sono prorogate fino al 31 dicembre 2020.

La novella de qua ha reintrodotto nell’ordinamento la proroga a favore dei titolari di pregressi rapporti concessori, estendendone il campo applicativo al di là delle concessioni aventi finalità turistico ricreativo.

La giurisprudenza amministrativa[17], dubitando della sua compatibilità con la libertà di stabilimento sancita dall’art.48 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, ha sollevato una questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE dinanzi alla Corte di Giustizia.

Quest’ultima si è pronunciata con una sentenza dalle argomentazioni articolate[18]. Gli articoli 9 e 12 della direttiva 123 del 2016 sono stati ritenuti i referenti normativi dirimenti per la risoluzione della controversia sottoposta alla sua attenzione.

In primo luogo, i giudici europei hanno osservato che la direttiva appena menzionata è stata attuata con il decreto legislativo n. 59 del 2010. L’intermediazione del legislatore italiano per la sua attuazione era necessaria stante i caratteri di detti atti europei di rango secondario, privi di efficacia diretta nel nostro ordinamento.

In secondo luogo, la Corte di Giustizia ha rilevato che l’art. 9 della direttiva n.123 del 2016 consente agli Stati membri di prevedere un regime autorizzatorio per la realizzazione di determinati servizi pubblici, mentre il successivo art. 12 impone l’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica, di cui la pubblica amministrazione deve fornire adeguata pubblicizzazione, ove ricorrano due presupposti alternativi tra di loro, cioè la scarsità delle tecniche utilizzabili o delle risorse naturali a disposizione.

Il requisito della scarsità, tuttavia, ha natura sostanziale e l’accertamento della sua sussistenza è un dovere posto in capo all’autorità giurisdizionale degli Stati membri. Allorché una siffatta indagine abbia esito positivo le pubbliche amministrazioni hanno facoltà di attribuire la gestione e l’uso esclusivo del bene o dei beni ad un singolo utilizzatore purché ciò avvenga a seguito di una valutazione comparativa governata dai principi di imparzialità, buon andamento e trasparenza e previo atto di assenso a titolo autorizzatorio volto a controllare l’idoneità del candidato risultato vittoriosi circa la realizzazione di quanto debba compiersi in ossequio al contenuto del bando di gara.

In terzo luogo, è stata affermata l’applicabilità della direttiva 123 del 2006, nella misura in cui sussista un interesse transfrontaliero certo, alla luce di un corretto inquadramento sistematico della concessione demaniale marittima, non inquadrabile nella figura della concessione di servizi. Quest’ultima, infatti, consiste nell’attribuzione ad opera della stazione appaltante di provvedere alla gestione e alla erogazione di un determinato servizio al concorrente che se ne assume il rischio e la cui offerta in sede di gara sia stata ritenuta preferibile rispetto alle altre in ossequi al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

L’istituto di cui si discorre, invece, impone un preventivo atto di assenso della P.A. al fine di consentire ai privati l’esercizio di una attività di carattere economico, potenzialmente anche in via esclusiva, in un’area demaniale marittima, cioè su un bene o su beni pubblici che di regola sono destinati alla fruizione dell’intera collettività. Le concessioni demaniali marittime, secondo l’autorevole opinione della Corte di Giustizia, debbono si alla stregua di autorizzazioni.

Allorché dovesse ricorrere il requisito della scarsità di cui all’art.12 della direttiva 123 del 2006, pertanto, il rinnovo e la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime prevista dal diritto italiano si porrebbe in contrasto con la libertà di stabilimento di cui all’art. 48 TFUE. Sebbene, infatti, il comma 3 dell’articolo 12 consenta di tenere conto di motivi di interesse generale al momento della regolamentazione delle procedure selettive volte ad individuare il candidato per la gestione di un bene pubblico, nelle maglie dei quali è annoverabile la tutela del legittimo affidamento dei titolari di pregressi rapporti concessori, detta aspettativa, in virtù della potenziale disparità di trattamento di cui può essere fonte, non è ammissibile poiché lesiva della libertà di stabilimento.

In altri termini, l’interesse del precedente concessionario può essere tutelato di volta in volta solo quando si tratti di stabilire ex ante le regole che definiscono la valutazione comparativa da effettuarsi ad opera della pubblica amministrazione, perché il riferimento a tale momento  consente di valutare  gli investimenti realizzati e se la legittimità della aspettativa propria del titolare della concessione scaduta in ordine al suo rinnovo; una proroga istituita dal legislatore senza delimitazione alcuna del suo campo applicativo è da ritenersi discriminatoria, arbitraria e illecita.

6. Conclusioni

Concludendo, si può osservare quanto segue. La regolamentazione dei beni pubblici rinviene la propria fonte nell’art. 42 della Costituzione e negli art. 822 del Codice civile, imperniata sul regime giuridico dei medesimi ed espressione di una concezione secondo cui la loro appartenenza ad un soggetto pubblico era diretta conseguenza dell’esercizio della sovranità dello Stato sul territorio. Tuttavia, non essendovi criteri oggettivi per individuare la disciplina cui sono stati sottoposto i beni pubblici, la dottrina ha formulato diverse teorie, di cui quella ad oggi dominante sembra essere quella che opera un distinguo tra beni pubblici, privati, beni di club e collettivi, fondata non tanto sul loro regime di appartenenza quanto sulle modalità della loro fruizione.

Sebbene detta distinzione faccia riferimento, diversamente dal Codice civile, a criteri di natura sostanziale, sembra porsi in linea con il diritto comunitario, interessato esclusivamente a garantire il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali sancite dai Trattati, quali la libertà di circolazione delle merci, dei capitali e dei servizi.

Alla luce di ciò, la scarsità di taluni beni,  per loro natura fruibili da tutti almeno in astratto, impone l’espletamento di procedure selettive di carattere comparativo per l’attribuzione della gestione del bene in via esclusiva, diversamente dovendosi discorrere di una violazione delle regole della imparzialità, della trasparenza e della non discriminazione, come dimostra l’ipotesi del rinnovo e delle proroghe automatiche delle concessioni demaniali marittime disposte dal legislatore italiano.


Note e riferimenti bibliografici

[1] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, pag. 416, il Mulino, Bologna 2017.

[2] Si veda F. CARINGELLA, Manuale ragionato di diritto amministrativo,  DIKE giuridica editrice, 2019, pag. 673.

[3] V. LOPILATO, Manuale di diritto amministrativo, Giappichelli, Torino 2019, pag. 372.

[4] Si cfr. S. CASSESE, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2015, pag. 259.

[5] Cass. Sez. Un. sent. n.12062/2014.

[6] Consiglio di Stato, sez. V sent. n. 3273/2016.

[7] A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Jovene Editore, Napoli 1989, pag. 770.

[8] M. RENNA, Dizionario di diritto pubblico, Giuffré, Milano 2006, pag. 719.

[9] M.S. GIANNINI, I beni pubblici, Bulzoni, Roma 1963, pag. 33.

[10] V. CERULLI IRELLI, Amministrazione pubblica e diritto privato, G. Giappichelli, Torino 2011, pag. 93.

[11] M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, il Mulino, Bologna 2017, pag.417.

[12] Si veda GAROFOLI-FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Nel Diritto Editore, Roma 2016¸ pag. 495.

[13] Consiglio di Stato, sez IV, sent. n.817 /1993; Consiglio di Stato, sez. IV sent. n. 662/663/1990.

[14] Consiglio di Stato, sez. VI sent.  n. 168/2005; Consiglio di Stato, sez. V sent. n. 3960/2014.

[15] S. CASSESE, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano 2015, pag. 261.

[16] In tal senso si veda Consiglio di Stato, sez. V, sent. n. 2014 del 2003.

[17] Tar Lombardia, Milano, sez IV, ordinanza n. 2401/2014; Tar Sardegna, sez I, ordinanza n.226/2015; Consiglio di Stato, sez VI, ordinanza n.3936 2015.

[18] Corte giust. un.  eur.14 luglio 2016, C-458 e C 67 /15.