Pubbl. Gio, 13 Ago 2015
La nuova società tra avvocati. Diminuisce la professionalità a favore della concorrenza?
Modifica paginaL’urgente necessità di allineamento alle politiche europee in materia di concorrenza è stata sensibilmente avvertita in quest’ultimo anno nel settore della professione forense, sfociando nella predisposizione di un disegno di legge discusso su più fronti: il Ddl Concorrenza 2015. I lavori preparatori al progetto di legge, avviati il 3 Aprile ed ancora in corso, seguono un iter legislativo altalenante suscitando, oltre alle aspre reazioni dell’OUA (Organismo Unitario dell’Avvocatura), anche una notevole confusione sulle novità normative per la categoria professionale. Da qui la necessità di un percorso a ritroso nell’ambito della disciplina della società tra avvocati, prendendo le mosse dall’esatto inquadramento dell’istituto.
1. La società tra avvocati come società senza impresa.
L’introduzione della società tra avvocati, ad opera del D.lgs. 2-2-2001, n. 96, dirama i suoi effetti in duplice direzione. In attuazione alla direttiva 98/5/CE, l’istituto si colloca nel quadro delle politiche dell’Unione volte al potenziamento del mercato interno quale “spazio senza frontiere” nel quale la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali è garantita. Trasposta sul piano dell’ordinamento nazionale, la società tra avvocati sperimenta una nuova forma di esercizio dell’attività professionale e, affiancata dalle società di servizi professionali interdisciplinari, stride con l’iniziale contesto normativo in quanto deroga al divieto generale di costituzione di società per l’esercizio di professioni intellettuali.
Pertanto la società tra avvocati concretizza la prima ipotesi normativa di società senza impresa. Sebbene esista di fatto un rapporto di regolare coincidenza tra organizzazione societaria ed attività d’impresa, l’art. 2247 cod. civ. smentisce che vi sia una necessaria correlazione tra i due termini. L’economicità dell’attività sociale indica non la tendenziale finalità dell’attività imprenditoriale – pareggio tra costi e ricavi – bensì la natura dell’attività. L’attributo “economico” riferito alla società acquista un significato differente dal parametro di imprenditorialità e si specifica nel carattere produttivo dell’attività. L’attività economica, genericamente intesa, è quell’attività produttiva di beni o servizi aventi valore patrimoniale. D’altra parte una simile ricostruzione della nozione di economicità è suggerita dalla circostanza che scopo precipuo dell’attività sociale è il lucro, vale a dire superamento dei costi mediante i ricavi. Ed infatti, all’individuazione della finalità dell’attività sociale attende l’ultima parte dell’art. 2247 cod. civ. laddove precisa che l’attività economica è esercitata allo scopo di dividerne gli utili. Ne deriva che si rimane all’interno della fattispecie societaria anche in presenza di un’attività economica, ma priva dei requisiti dell’imprenditorialità di cui all’art. 2082 cod. civ. e ciononostante senza sfociare meramente in attività altruistica o volontaristica. Il limite ultimo di estensione dell’economicità coincide con l’esercizio in comune dell’attività professionale, poiché in virtù di un’espressa opzione legislativa il professionista non è mai equiparato all’imprenditore.
2. Il professionista intellettuale e l’imprenditore.
L’esercizio della professione intellettuale, quantunque poggi su una struttura organizzativa complessa (impiego di ingenti capitali e di un certo numero di ausiliari e collaboratori), non ricade mai nell’area dell’imprenditorialità. La non accostabilità tra le due figure di professionista intellettuale ed imprenditore è confermata all’art. 2238 cod. civ. ove si prevede che le disposizioni in materia di impresa si applicano al professionista solo “se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa”. Ciò implica che al professionista si riserva il medesimo trattamento giuridico dell’imprenditore unicamente se la professione è esercitata nell’ambito di una diversa attività di per sé qualificabile come attività d’impresa (esemplificando, il medico che gestisce la casa di cura ove presta la propria opera). Le giustificazioni tradizionalmente addotte per spiegare l’aprioristica esclusione dei liberi professionisti dalla classe degli imprenditori hanno fatto leva sul requisito dell’organizzazione. In particolare, nell’ambito dell’esercizio professionale difetterebbe l’elemento dell’organizzazione di tipo imprenditoriale, vale a dire di un apparato organizzativo che non solo quantitativamente ma anche funzionalmente preminente rispetto alla prestazione del professionista. Il fattore organizzativo sarebbe inevitabilmente piegato ad una funzione ausiliare o strumentale rispetto all’opera intellettuale del professionista.
In realtà, la non assimilabilità tra attività d’impresa ed attività professionale e il mantenimento di uno spazio normativo riservato in via esclusiva al professionista risalgono ad una precisa scelta di politica legislativa, retaggio dell’elevata considerazione sociale che storicamente circonda la figura del professionista intellettuale. Basti pensare che originariamente l’esercizio di artes liberales segnalava l’appartenenza ai ceti eruditi della borghesia e della nobiltà, e dunque connotava lo status sociale di “cittadini nati liberi”. Tuttavia è bene evidenziare che il persistere di una distinzione giuridica tra le due figure separa il nostro ordinamento dal sistema europeo all’interno del quale, in ossequio ai principi di libera circolazione delle persone e dei servizi, il professionista è giuridicamente equivalente all’imprenditore. L’assunto è testimoniato dall’art. 57 TFUE, che fa confluire nella nozione di “servizi” ogni attività a carattere industriale, commerciale, artigiana ed anche “le attività delle libere professioni”; nonché dalla nozione comunitaria di impresa adottata dalla Corte di Giustizia e coincidente con “qualsiasi attività economica, a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento, in particolare quella consistente nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato”.
3. Dalla Legge n. 1815/ 1939 al D.lgs. n. 96/2001.
La mancata equiparazione giuridica tra impresa e professioni intellettuali ha intralciato l’introduzione delle società tra professionisti, stante l’incompatibilità tra il principio di personalità della prestazione d’opera intellettuale, rigorosamente codificato agli artt. 2229 e ss. cod. civ., e l’esercizio della stessa in forma societaria, inevitabilmente impersonale. Invero, laddove si immagini una società avente quale oggetto esclusivo l’esercizio in comune dell’attività professionale (società tra professionisti in senso stretto), lo svolgimento del singolo incarico professionale si atteggerà alla stregua di un rapporto di immedesimazione organica con i soci professionisti: il singolo incarico è assunto giuridicamente dalla società nei confronti del cliente attraverso i propri soci, quest’ultimi obbligati soltanto verso la società ad eseguire la prestazione d’opera intellettuale.
Per tali ragioni, in origine l’art. 1 della L. n. 1815 del 1939 disciplinava, quali unici strumenti di esercizio in forma associata della professione intellettuale, gli studi di assistenza e consulenza. Si tratta di un vero e proprio contratto associativo cui potevano prendere parte esclusivamente coloro che erano muniti dei necessari titoli di abilitazione per l’esercizio della specifica professione e subordinatamente alla condizione di utilizzare “nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti con i terzi, esclusivamente la dizione di studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati”. Parallelamente il successivo art. 2 prescriveva il divieto di “costituire, esercitare o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al precedente articolo, società, istituti, uffici, agenzie od enti, i quali abbiano lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati ed ai terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria”.
Il divieto generale di esercizio in forma societaria dell’attività professionale è stato parzialmente eroso dall’intervento normativo del 2001 che consentì la costituzione delle società tra avvocati. Il rischio di snaturare il carattere personale della prestazione professionale – rischio connaturato all’esercizio in forma societaria dell’attività di avvocato - è stato scongiurato da una serie di precisazioni normative.
In primo luogo, il d.lgs. n. 96/2001, muovendo dalla necessaria presenza nella compagine sociale di soli professionisti abilitati, ruotava intorno al principio di esclusività della partecipazione societaria (secondo il quale l’avvocato non poteva contemporaneamente partecipare ad altra società tra avvocati) ed al principio di scelta da parte del cliente del professionista cui affidare l’esecuzione dell’incarico.
In secondo luogo, estendendo alla società tra avvocati la disciplina propria della società in nome collettivo, si optava per un modello societario idoneo a preservare la componente personale del vincolo societario. Tuttavia, eccettuando le obbligazioni sociali non derivanti dall’attività professionale – per le quali si applicava il regime di responsabilità uniforme proprio delle s.n.c. – si ribadiva il principio di personalità della responsabilità professionale, giacché ai sensi dell’art. 26, primo comma “Il socio o i soci incaricati sono personalmente e illimitatamente responsabili per l'attività' professionale svolta in esecuzione dell'incarico”. In tal modo l’esercizio in comune dell’attività di avvocato non scalfiva minimamente il rapporto diretto e personale del professionista con il singolo cliente, né sotto il profilo dell’esecuzione dell’incarico né sul piano della responsabilità, dato che le regole generali del diritto societario sono state asservite alla specificità dell’oggetto sociale e combinate con le norme civilistiche in materia di libere professioni.
4. Le modifiche della L. n. 183/2011 e della L. n. 247/2012, Legge Forense e il Ddl Concorrenza 2015.
In seguito, per effetto di due ravvicinate novità normative si arricchiva la gamma di strumenti per l’esercizio in forma non individuale dell’attività di avvocato. Infatti in concomitanza con l’abrogazione del divieto di costituzione di società tra professionisti mediante la L. n. 183/2011, si interveniva nel settore dell’attività forense con la L. n. 247/2012. All’avvocato si apriva l’alternativa tra l’esercizio in forma individuale della professione o la partecipazione ad associazioni tra avvocati oppure ad associazioni multidisciplinari, fino all’ingresso in una società tra avvocati per la cui disciplina si rinviava ad un decreto legislativo da emanare sulla base dei principi fissati all’art. 5 della Legge Forense.
Sebbene la delega sia rimasta inattuata, tra i suoi principi e criteri direttivi risaltano alcuni spunti interessanti. L’art. 5 era proteso a cercare un delicato punto di equilibrio tra la modernizzazione dell’istituto, prescrivendo che venisse consentita la costituzione della società tra avvocati anche nella forma di società di capitali e di società cooperativa e la preservazione dei tradizionali principi civilistici relativi alle professioni intellettuali. A tal fine, l’apertura verso una moderna forma di esercizio della professione forense, sulla base della consapevolezza dei connessi rischi di spersonalizzazione della prestazione d’opera e di inquinamento dell’indipendenza degli avvocati, veniva contemperata dalla fissazione di alcuni paletti:
- i soci dovevano essere esclusivamente avvocati iscritti all’albo;
- i componenti dell’organo di gestione non potevano essere soggetti estranei alla compagine sociale;
- l’incarico professionale poteva essere affidato soltanto al socio in possesso dei requisiti necessari per la specifica prestazione richiesta dal cliente;
- l’esercizio della professione forense in forma societaria non configura mai un’attività d’impresa, con consequenziale sottrazione della società tra avvocati dal fallimento e dalle altre procedure concorsuali risolutive della crisi di società commerciali.
Il mancato esercizio della delega da parte del Governo ha determinato il fallimento del tentativo della Legge Forense, ma non ha arrestato il corso delle riforme normative in materia. Da ultimo, nel testo del disegno di legge Concorrenza figura un discusso innesto alla L. 247/2012, l’art. 4 bis che ripropone il medesimo contenuto sostanziale della delega dell’abrogato art. 5 della Legge Forense, vale a dire la possibilità che la società tra avvocati si costituisca anche nella forma di società di capitali.
Le recenti novità normative sembrano voler essere più drastiche e non semplicemente perché si eliminano i tradizionali limiti dell’esclusività della partecipazione (consentendo al medesimo professionista di partecipare contemporaneamente a più associazioni tra avvocati), nonché i limiti territoriali relativi al domicilio dell’avvocato (non essendo più necessario che il domicilio professionale sia posto presso la sede dell’associazione di appartenenza), ma specialmente perché si inaugura l’ingresso nella compagine sociale anche di soci di capitale non professionisti.
In dettaglio, l’attuale testo del Ddl Concorrenza all’art. 26, rubricato “Misure per la concorrenza nella professione forense”, alla lett. d) introduce nella struttura della Legge Forense l’art. 4 bis, deputato a disciplinare l’esercizio della professione forense in forma societaria. In modo piuttosto scarno, si consente il ricorso ai modelli della società di persone, società di capitali e società cooperative - purché iscritte in una apposita sezione speciale dell’albo tenuto nella circoscrizione ove ha sede la società stessa – e si ribadiscono i principi di personalità della prestazione professionale e della responsabilità del professionista che ha eseguito la specifica prestazione, nonché il necessario rispetto del codice deontologico forense e la sottoposizione al potere disciplinare dell’ordine di appartenenza. Inoltre, l’art. 26 prosegue prevedendo l’abrogazione dell’art. 5 L. Forense.
5. Il socio di capitali nella società tra avvocati.
Le prime criticità risaltano già dal confronto tra l’articolata disciplina dell’esercizio in forma societaria della professione di avvocato, oggetto di delega nell’art. 5 della L. Forense, e l’asciutta formulazione dell’art. 4 bis Ddl Concorrenza.
Il punto di divergenza che emerge con tutta evidenza riguarda la composizione della compagine sociale. Nell’art. 5 citato si specificava che la partecipazione alla società tra avvocati, pur rivestita della forma giuridica della società di capitali, fosse consentita in via esclusiva ai professionisti abilitati, e conseguentemente lo statuto delle società di capitali incideva sulla gestione ed organizzazione della struttura societaria senza alterare la natura autenticamente personale del vincolo societario tra avvocati. Viceversa il Ddl Concorrenza rinvia sic et simpliciter alla società di capitali quale possibile forma organizzativa della società tra avvocati, incautamente consentendo l’ingresso anche di soci non professionisti nel ruolo di soci di capitale, al di fuori di ogni limite numerico o di regole sulla loro posizione ed influenza nella gestione societaria.
Pur apprezzandosi il tentativo di allineare la disciplina della società tra avvocati al regime generale delle altre società tra professionisti, nell’obiettivo di assestamento si omette di recepire i limiti e criteri previsti dall’art. 10 L. 183/2011, funzionali a preservare la professionalità.
All’art. 10, lett. b) si prevede l’ammissibilità in qualità di soci dei soli professionisti iscritti al relativo albo ed in possesso del titolo abilitante, nonché di “soci non professionisti soltanto per prestazioni tecniche o finalità di investimento”. Ma si prosegue precisando che “in ogni caso il numero dei soci professionisti e la partecipazione al capitale sociale dei professionisti deve essere tale da determinare la maggioranza di due terzi nelle deliberazioni o decisioni dei soci; il venir meno di tale condizione costituisce causa di scioglimento della società”.
Nella ratio della L. 183/2011 l’apertura verso forme moderne di esercizio della professione forense quale l’impiego del tipo di società di capitali non può che essere assistita da limiti relativi al peso che i soci non professionisti possono assumere nell’amministrazione della società, a fronte dei rischi di inquinamento dell’indipendenza ed autonomia professionale degli avvocati.
Analoghe misure precauzionali non vengono riprodotte anche per la professione forense nel Ddl Concorrenza che, così come attualmente strutturato, porta con sé l’inevitabile pericolo di assoggettare l’attività forense a ragioni economiche, con conseguente proliferazione di conflitti di interesse in cui verrebbero coinvolti i singoli professionisti. Ed ancora si spiegherebbero effetti deleteri anche sulla qualità professionale in quanto certamente si mina l’autonomia dell’avvocato nello svolgimento dell’incarico e si ancora la misura del compenso del singolo professionista non unicamente “all’importanza dell’opera e al decoro della professione” secondo il parametro qualitativo di cui all’art. 2233 cod. civ., ma anche all’utile complessivamente prodotto dalla società.
Tanto maggiore è il distacco tra remunerazione professionale e guadagno derivante dalla partecipazione alla società, tanto più il livello di qualità del servizio si abbassa. In definitiva, la proposta normativa del Ddl Concorrenza non è idonea a mettere al riparo la professione forense dai pericoli di spersonalizzazione e compromissione dell’indipendenza professionale e, come evidenziato dall’Oua, ciò si riversa in una flessione nella tutela del diritto di difesa del cittadino.
Infine, persino sul piano teorico si sollevano dei dubbi di ammissibilità della società tra avvocati nella forma di società di capitali. In ossequio al principio di tipicità di cui all’art. 2249 cod. civ., la società di capitali è modello utilizzabile solo per l’esercizio di attività “commerciale”, vale a dire la forma organizzativa in questione qualifica l’ente come società commerciale e presuppone di necessità l’esercizio di un’impresa commerciale, sebbene l’attributo “commerciale” designi solo una categoria dogmatica, delineata per comodità definitorie. Ma le società tra avvocati sono strutture organizzative che per definizione non esercitano attività d’impresa e ciò significa che a livello teorico si palesa un’intima contraddizione delle regole che informano il diritto societario. Tuttavia simili rilievi di ordine teorico non hanno alcun riflesso sul piano pratico, essendo ormai superati per volontà dello stesso legislatore.
In presenza di un disegno di legge così vago e lacunoso, residuano invece delle incertezze circa il modo in cui il principio capitalistico - principio cardine del tipo societario in questione – possa esplicarsi nell’ambito delle società tra avvocati, governando i rapporti tra soci e le regole di amministrazione sociale.
Fonti:
- http://www.governo.it/backoffice/allegati/77938-10029.pdf;
- Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema «Ruolo e futuro delle libere professioni nella società civile europea del 2020» (parere d’iniziativa);
- G. F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 2, Diritto delle Società.