Pubbl. Lun, 6 Lug 2020
La contiguità mafia-impresa nei suoi profili generali e gli strumenti di contrasto nel Codice penale
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Tommaso Passarelli
Le reti di relazioni rappresentano da sempre l´aspetto più pericoloso e problematico del fenomeno mafioso. Intessendo rapporti con settori dell´imprenditoria, della finanza e dell´economia, le organizzazioni mafiose riescono a ”ripulire” i proventi illeciti delle attività delittuose e ad agire sui mercati dell´economia legale. Gli strumenti di contrasto che il diritto penale predispone contro le condotte di fiancheggiamento sono molteplici e di diverso genere: l´obiettivo di questo lavoro è quello di fornirne una esposizione quanto più possibile completa.
Sommario: 1. Profili generali. – 2. Il sistema di contrasto nel Codice penale. – 2.1 Le fattispecie di riciclaggio e impego di capitali illeciti. – 2.2 La fattispecie di autoriciclaggio. – 3. Considerazioni conclusive.
1. Profili generali.
Già nel 1991, il prof. G. Fiandaca si interrogava sul tema della riconducibilità alle tradizionali categorie del diritto penale delle condotte di contiguità degli imprenditori rispetto ad ambienti mafiosi ad essi circostanti[1]. Il contributo è occasionato dalla ordinanza - sentenza emessa dal tribunale di Catania nei confronti di Amato e altri coimputati in data 28 marzo 1991, in cui erano tirati in ballo i c.d. “cavalieri del lavoro”. Nella sentenza in commento, in giudici catanesi muovono la loro ricostruzione da una analisi in chiave socio-criminologica, che vede il contesto catanese più variegato rispetto a quello palermitano in termini di “assortimento” mafioso.
Oltre a “Cosa Nostra”, erano infatti presenti in loco altri gruppi criminali organizzati, che si contendevano il controllo del territorio. La presenza criminale così distribuita si atteggiava ad industria della protezione, secondo il modello classico delle associazioni mafiose[2]. L'imposizione delle pratiche estorsive in cambio del bene della protezione caratterizzava la dinamica dei rapporti tra mafiosi ed operatori economici, con questi ultimi che, a seconda delle circostanze, optavano per l’affiliazione diretta alle associazioni criminali (scelta più radicale), ovvero “per una soluzione di non conflittualità”, tramite l'accettazione dell'imposizione estorsiva[3]. Una data situazione di fatto dava luogo ad una “zona grigia” dove risultava disagevole effettuare una netta distinzione tra imprenditori-complici e imprenditori-vittime rispetto alle associazioni mafiose.
In un contesto così astruso e dai contorni indefiniti, dove l'imprenditore di turno era chiamato a soddisfare le richieste mafiose anche in termini di assunzioni di lavoratori ed approvvigionamento di materie prime, arrivando fino alle estreme conseguenze di mascherare sotto l’attività di impresa i sotterfugi illegali delle cosche mafiose[4], appare poco condivisibile l'orientamento della giurisprudenza "appiattito" nel qualificare la posizione degli imprenditori come di soggezione (e dunque di vittime), per via del diffuso timore che un eventuale conflitto col potere mafioso mettesse a rischio l'intera attività di impresa. Il compromesso cui gli operatori economici pervengono è dunque rivolto al mantenimento dell’attività di impresa. Da ciò discenderebbe la non imputabilità degli stessi per la carenza contemporanea degli elementi soggettivo (assenza della volontà di aderire all’associazione mafiosa) ed oggettivo (lo stato di soggezione si pone come ostativo di una scelta diversa)[5].
Tralasciando le ricostruzioni dogmatiche connesse alla possibilità di configurare il concorso esterno in date situazioni, emerge prepotentemente la preoccupazione sul piano politico-criminale con riguardo a quelle condotte di contiguità alla mafia che fuoriescono dal classico schema della partecipazione interna all'associazione mafiosa.
Nella sentenza in commento, i giudici siciliani arrivano ad escludere la responsabilità degli imprenditori per via del fatto che il fine economico dell'attività di impresa non risulta compatibile con il perseguimento delle finalità mafiose. Ciò ad avviso del prof. Fiandaca è vero solamente in astratto, in quanto nel loro concreto operare i c.d. “Cavalieri del lavoro” di Catania traevano un concreto vantaggio dalla loro contiguità agli ambienti mafiosi, soprattutto con riguardo alla loro posizione sul mercato[6].
Sul piano oggettivo, Fiandaca propone una rivisitazione dei parametri associativi, troppo legati ad arcaici formalismi come i rituali di affiliazione. La partecipazione associativa dovrebbe potersi desumere anche per facta concludentia, nel caso di una stabile e duratura messa a disposizione di soggetti a primo acchito esterni al sodalizio, che diano un fattivo e concreto contributo al perseguimento del programma associativo[7]. Ne conclude l'autore che “si propenda per la configurabilità del concorso (come in linea teorica insinua lo stesso giudice istruttore), ovvero si ritenga ammissibile la sola partecipazione interna, nell' un caso e nell’altro il comportamento oggettivo deve, per assumere rilevanza penale presentare queste caratteristiche minime: esso deve cioè immancabilmente concretizzarsi in un contributo o apporto obiettivamente idoneo alla conservazione ovvero al rafforzamento della struttura associativa”[8].
Sul caso dei cavalieri del lavoro di Catania prende posizione nella sua (già in precedenza menzionata) opera anche il noto giudice G. Turone[9], secondo il quale per lungo tempo l'impunità per la categoria dei c.d. “colletti bianchi” è stata garantita da quei retaggi culturali che li volevano estranei (a priori) da ogni ambiente e da ogni dinamica criminale. I giudici catanesi non riscontrarono alcuna responsabilità in capo agli imprenditori, ma lo fecero senza tenere nella giusta considerazione quella serie di condotte (assunzioni di comodo o addirittura meramente formali, espansione delle attività imprenditoriali anche fuori dalla provincia di origine, etc.) sintomatiche di relazioni assai più profonde e compromesse rispetto alla mera “non conflittualità” ritenuta salvifica per la continuazione delle attività di impresa[10].
Alla luce di questi rilievi, risulta necessaria una analisi accurata del caso concreto, con uno sguardo nitido ed orientato al discernimento tra rapporti di compiacenza e rapporti di sottoposizione. Nel richiamare una pertinente analisi sociologica sul tema, l'autore illustra le principali differenze tra imprenditori collusi e subordinati: i primi avrebbero un tipo di protezione attivo, caratterizzato da un rapporto fideistico con gli ambienti mafiosi, che lascerebbe loro maggiori margini di negoziazione circa la corresponsione del pizzo e soprattutto ne garantirebbe un più elevato grado di libertà in termini di iniziativa economica; per contro, gli imprenditori subordinati sarebbero destinatari di una protezione meramente passiva e i loro rapporti con gli ambienti mafiosi sarebbero figli di una forte imposizione che non lascerebbe loro margini di negoziazione con riguardo alla misura del pizzo e ne condizionerebbe anche la libertà di iniziativa economica[11].
Se dunque l'imprenditore subordinato viene a trovarsi in uno stato di necessità tale da configurare l'esimente di cui all'art. 54 c.p., anche alla luce del fatto che l'associazione mafiosa ha ben potuto mettere in piedi in un dato contesto una situazione ambientale cui è di fatto impossibile sottrarsi, dunque l'imprenditore è nella materiale impossibilità di rifiutare l’adempimento delle incombenze che la mafia impone, nel caso dell'imprenditore colluso il discorso è diverso. Benché in origine egli possa definirsi una vittima della mafia, col passare del tempo arriva a stipulare un accordo reciprocamente vantaggioso con la stessa associazione mafiosa, sicché l’iniziale vulnus derivante dall'imposizione del pizzo viene ad essere sopperito con i vantaggi che il pactum sceleris gli ha garantito e continuerà a garantirgli nel corso del tempo[12]. Col passare del tempo, la relazione tende a divenire di tipo clientelare e le richieste dell'associazione mafiosa confermeranno “prestazioni diffuse”[13].
Tali prestazioni potranno assumere i caratteri più disparati e avranno il loro fondamento sul rapporto fideistico-personale che intercorrerà tra imprenditore e mafioso. All'imprenditore sarà richiesto di nascondere latitanti, ovvero di testimoniare in favore del mafioso di turno. Proseguendo, si registra la presenza di un’ulteriore categoria di imprenditori collusi, definita come “identificati”[14]. Questi ultimi saranno avvinti ai soggetti mafiosi non da rapporti strumentali, bensì da una particolare vicinanza di vita che li condurrà ad identificarsi con essi e sovente a condividerne le sorti[15].
Da ultimo, viene individuata la categoria degli imprenditori strumentali, che instaurano con i mafiosi un rapporto “tra pari”, con l'obiettivo di perseguire interessi vantaggiosi per entrambe le parti. Si tratta di soggetti imprenditoriali dotati di grande spessore in termini di dimensioni aziendali, che vanno alla ricerca di intese occasionali per il fatto di trovarsi ad operare in un dato contesto territoriale (caratterizzato dalla presenza mafiosa) solo per un lasso di tempo limitato, sovente nell'ambito dei lavori pubblici[16]. La presenza mafiosa viene in questo caso declinata come un dato ambientale del contesto territoriale in cui ci si ritrova ad operare e di conseguenza viene tradotto, da principio, in un surplus di costi messo in preventivo ab origine[17].
Sul versante giurisprudenziale, l'indirizzo dei giudici di Catania non venne seguito dalla Cassazione del 1994 (sentenza Amato), che condannò a titolo di partecipazione interna ex art. 416 bis la condotta di “allineamento” alle consorterie mafiose locali[18]. La giurisprudenza di merito seguì un tale orientamento, anche se con qualche incertezza in termini di qualificazione giuridica dei fatti, imputando agli imprenditori talune volte la partecipazione dall'interno, altre volte il concorso dall'esterno.
Anche la dottrina si divide sul punto, tra chi propende per la qualificazione partecipativa, sulla base del perseguimento di illeciti fini di arricchimento, strumentali a rafforzare le associazioni mafiose ed aventi carattere stabile e duraturo nel tempo e chi non ravvisa un tale ruolo in seno all'associazione da parte dell'imprenditore colluso, neanche sul piano soggettivo (non si vede come l'imprenditore possa perseguire le finalità proprie del programma associativo) [19].
Il Turone propende per la prima ipotesi, sulla base del fatto che l'associazione ben potrebbe riconoscere lo status di associato all’imprenditore sulla base delle prestazioni offerte e ben potrebbe quest'ultimo perseguire le finalità associative sulla base dell'intreccio delle attività che caratterizzano il connubio mafia-impresa[20].
Ma il punto cruciale è un altro, ossia quello di tracciare la linea di demarcazione tra “contiguità compiacente e contiguità soggiacente”[21].
Uno spunto sul tema è fornito dal GIP di Bari in un provvedimento del 1996 inerente alla “mala-sanità” pugliese[22]. Il suddetto provvedimento ha evidenziato come un imprenditore che ha visto l'associazione mafiosa prendere il controllo della propria impresa, abbia assunto un ruolo nell'associazione mafiosa al fine di trarne un vantaggio speculare a quello dell'associazione stessa, mirando a ricoprire una posizione di monopolio sul mercato del settore sanitario privato. Un vantaggio che poteva essere perseguito solamente col mezzo del metodo mafioso proprio del sodalizio criminale di appartenenza[23].
La Corte di Cassazione arriva ad un ancoraggio più certo con la sentenza Iovino del 2005[24].
Il caso al vaglio della Suprema Corte è quello di un imprenditore condannato per concorso esterno “in virtù” del fatto di aver pagato una tangente assai cospicua (pari ad ottanta milioni di vecchie lire), con la finalità di arricchirsi. La tangente sarebbe il risultato escatologico di preventivi accordi aventi la finalità di tenere “indenne se e gli altri imprenditori da continue richieste ed intimidazioni estorsive"[25]. I giudici della Corte di Cassazione annullarono senza rinvio, ritenendo insussistente la finalità di arricchimento perseguita dall'imprenditore, riscontrando una assenza di vantaggi in capo a quest'ultimo, che invero avrebbe agito al fine di ridurre al minimo il danno derivante dalla richiesta estorsiva (ineluttabile), senza alcun intento di rafforzare l'associazione mafiosa, ovvero di perseguirne le finalità[26].
Più nello specifico sul punto la sentenza D'Orio del 2005, che discerne tra l'imprenditore vittima e quello colluso: il primo subisce l'imposizione mafiosa e cerca una mediazione al fine di limitare al minimo il danno derivante dall'estorsione; il secondo instaura un “rapporto sinallagmatico” con l'associazione mafiosa e trae un profitto dalle sue relazioni criminali[27]. Così la sentenza ne delinea i connotati: “in altri termini, si ritiene ragionevole considerare imprenditore “colluso” quello che è entrato in un rapporto sinallagmatico di cointeressenza con la cosca mafiosa, tale da produrre vantaggi (ingiusti in quanto garantiti dall' apparato strumentale mafioso) per entrambi i contraenti e tale da consentire, in particolare, all’imprenditore di imporsi sul territorio in posizione dominante grazie all’ausilio del sodalizio, il cui apparato intimidatorio si è reso disponibile a sostenere l’espansione dei suoi affari in cambio della sua disponibilità a fornire risorse, servizi o comunque utilità al sodalizio medesimo”[28].
La dinamica sembra dunque ricalcare fedelmente il binario dello scambio tra agevolazione (fornita dall'imprenditore alla cosca mafiosa per mezzo dei servizi offerti) e metodo mafioso (fornito dalle cosche mafiose all'imprenditore, che se ne avvale nel perseguimento dei suoi affari ed interessi, a danno della concorrenza, finendo così con l'assumere una posizione via via sempre più monopolistica sul mercato di riferimento).
Ne conclude l'autore che “ciò che distingue la posizione di “soggiacenza” da quella di “compiacenza” è proprio il requisito dell'ingiusto vantaggio che può essere conseguito dall'imprenditore attraverso il predetto “rapporto sinallagmatico”[29]. L'ingiusto vantaggio non potrà essere rappresentato da un accordo volto a limitare i danni originati dall'imposizione mafiosa.
Le imputazioni per gli imprenditori collusi potranno avvenire sia a titolo di partecipazione nel reato associativo, sia a titolo di concorso esterno. A seconda delle risultanze probatorie acquisite nel caso concreto, sarà possibile dimostrare la stabilità delle relazioni e l'assunzione di un ruolo interno al sodalizio, caratterizzato dall'affectio societatis (come nel caso degli imprenditori clienti), ovvero una partecipazione soltanto esterna. Può risultare strumentale a tal uopo l'illustrazione del “metodo-Siino” utilizzato da Cosa Nostra per la ripartizione degli appalti pubblici[30]. La partecipazione reiterata e continuativa, l'ideazione di strategie e l'organizzazione del sistema degli appalti qualificheranno l'imprenditore come partecipe del sodalizio mafioso; l'imprenditore che non fa parte del sodalizio ma partecipa al comitato di affari e pone in essere scambi di reciproco vantaggio con le cosche, sarà qualificato come concorrente esterno. Se quest'ultimo dovesse intensificare la sua partecipazione al sistema di spartizione e contribuire alle sue dinamiche, sarà inquadrato come concorrente esterno “qualificato”[31].
Difficilmente poi la posizione degli imprenditori in precedenza inquadrati come “strumentali” potrà essere qualificata come di partecipazione interna, perché connotata da un carattere contingente ed estemporaneo, da una relazione impersonale tra i soggetti coinvolti e da un carattere instabile delle relazioni, che non hanno come finalità quella di ottenere un vantaggio illecito, bensì quella di ridurre al minimo l'impatto estorsivo, già qualificato a monte come un aggravio dei costi dovuto al fattore ambientale “mafia”[32]. Anche a titolo di concorso esterno l’imprenditore strumentale sarà difficilmente imputabile, dal momento che sarà difficile ricostruire in capo ad esso un contributo di conservazione o rafforzamento che non sia al contempo un danno ingiusto da lui subito[33]. Tuttavia, un tale profilo di neutralità risulta fondato su dinamiche relazionali sottili e dagli equilibri precari: se dovessero venir meno, si aprirebbe la strada del concorso esterno anche per questi ultimi[34].
Uno sguardo d'insieme sul contrasto ai rapporti di contiguità tra mafie e imprese prova a fornirlo il prof. C. Visconti[35], avvertendo preliminarmente sulla necessità di affrancarsi dalle logiche e dal pensiero “populista” nella risposta penalistica al fenomeno criminale di tipo mafioso, agendo in ossequio alle garanzie costituzionali della persona e tenendo sempre presenti gli acuti insegnamenti di Giovanni Falcone, al fine di scongiurare una legislazione avente mera portata simbolica e al contempo priva di ogni efficacia sul piano pratico.
L'autore prende le mosse da una ricostruzione in termini sociologici “che renda il discorso giuridico il più aderente possibile agli scenari mafiosi contemporanei”[36].
Che le mafie abbiano assunto i connotati dell'impresa e perseguano il raggiungimento di profitti ed affari vantaggiosi (siano essi leciti o illeciti ) appare oggigiorno un dato di realtà. Il perseguimento della logica del profitto da parte delle mafie avviene attraverso una dinamiche ripartita in quattro fasi: “a) svolgimento di attività illecite lucrose, come tali rientranti in un ambito di economia criminale (estorsioni, traffico di stupefacenti, ecc.); b) condizionamento accaparramento dei flussi di spesa pubblica mediante traffico di influenze e/o impiego della forza di intimidazione e di condizionamento; c) investimento delle risorse illecitamente acquisite in attività imprenditoriali anche formalmente lecite; d) utilizzazione dei canali finanziari e bancari allo scopo di riciclare, ottenere finanziamenti, effettuare investimenti nel mercato finanziario globale, ricorrendo strumenti sempre più sofisticati”[37]. Ma il connubio mafia-impresa non ha come scopo solamente il profitto dal punto di vista economico. Il punto cruciale di questa dinamica di rapporti è rappresentato dalla capacità delle mafie di costruire le proprie “reti di relazioni”, che da sempre rappresentano il proprio “capitale sociale”, l'elemento distintivo che le differenzia da ogni altro fenomeno criminale esistente[38].
Disinnescare questi rapporti avrebbe il risultato di minare alle fondamenta la forza e il radicamento delle mafie. Più che da spiccate capacità manageriali, l'operare mafioso nelle attività imprenditoriali si caratterizza per il continuo interfacciarsi col mondo politico-istituzionale, in settori ove vige la regolazione pubblica del mercato e che vede il regime concorrenziale fortemente ridotto. In un tale circolo vizioso si registra anche l'agire di quei soggetti definiti come “colletti bianchi” (professionisti, pubblici funzionari, uomini politici) che mettono a disposizione delle associazioni mafiose il loro patrimonio in termini di conoscenze, competenze e relazioni, al fine di trarre un vantaggio dalle loro frequentazioni criminali.
È in questo contesto che matura il fenomeno conosciuto come “zona grigia”, ove si determinano i rapporti di reciproco vantaggio tra associazioni mafiose e colletti bianchi di ogni ordine e grado[39]. La dinamica è ancora una volta quella delineata nelle pagine precedenti: l'agevolazione fornita alle mafie dai soggetti estranei al sodalizio, in cambio del metodo mafioso offerto quale controprestazione del rapporto sinallagmatico in essere tra associazioni mafiose e colletti bianchi. In un siffatto “sistema del malaffare”, il soggetto mafioso non è sempre in posizione di preminenza, “nel senso che il gioco condotto soprattutto da comitati di affari o da cordate politico-clientelari, che “usano” i mafiosi per regolare le attività, proteggersi dalla concorrenza, ottenere favori dalle amministrazioni pubbliche”[40].
Un quadro così delineato non consente una netta bipartizione tra imprenditori onesti e disonesti, essendo le dinamiche di cui sopra connotate da un forte grado di incertezza con riguardo alla loro qualificazione giuridica.
La grande stratificazione normativa prodotta nel corso degli anni al fine di contrastare la diffusione del fenomeno mafioso ha generato una confusione sistemica che oggi crea più di un'incertezza a studiosi e interpreti. L’abbondanza e l'eterogeneità delle norme (sistema di prevenzione, sistema penale, responsabilità da reato degli enti) suggeriscono una visione assai pragmatica nella loro applicazione, individuando di volta in volta quale sia lo strumento normativo che meglio si confà al caso concreto. Il primato fino ad ora è spettato senza dubbio al sistema di prevenzione (sequestro e confisca), in quanto più agile ed efficace rispetto agli altri sistemi (forse più garantistici, ma meno idonei a garantire risultati pratici in termini applicativi)[41]. Una prassi del genere rischia, inoltre, di scoraggiare l'adozione da parte degli enti di efficaci misure organizzative volte a prevenire le infiltrazioni mafiose, che potrebbero costituire il volano di una “prevenzione partecipata” tra settore pubblico e settore privato contro le infiltrazioni mafiose[42].
Il sistema penale così concepito persegue dunque la duplice finalità di inibire le infiltrazioni mafiose nei gangli del sistema economico da un lato e, dall’altro lato, tutelare le aziende infettate dal virus mafioso, ricollocandole sul mercato con la giusta dotazione di “anticorpi necessari per prevenire ulteriori infiltrazioni criminali”[43].
Le caratteristiche dell'impresa mafiosa e gli aspetti di rilevanza penale della contiguità mafia-impresa sono esposti con ottima perizia nel contributo scientifico offerto di recente dal prof. F. Siracusano[44].
Esordisce l'autore mettendo in rilievo l’aspetto relazionale del fenomeno mafioso, che lo fa assurgere al rango di soggetto imprenditoriale. Invero, le mafie tradizionalmente intese faticavano a soddisfare il modello imprenditoriale (che viene mutuato dalle ricostruzioni sociologiche) e questo alla luce del fatto che le (oramai superate) attività legate allo sfruttamento della terra avevano una rendita assai poco lucrosa in confronto ai grandi profitti che caratterizzano le attività mafiose moderne. Degno di nota ci appare lo spunto inerente alla doppia fase in cui il fenomeno mafioso si presenta al cospetto della storia: una prima fase statica, di mera gestione del latifondo ed una seconda fase dinamica, votata alla realizzazione di profitti per mezzo dello sfruttamento delle attività economico-finanziarie[45].
L'impresa mafiosa si caratterizza per l'uso del marchio di fabbrica proprio delle associaizoni di cui all'art. 416-bis: il metodo di cui al comma terzo del suddetto articolo, che le conferisce una posizione di preminenza sul mercato, con l'effetto di scoraggiare la concorrenza. L’operatività sul mercato di un soggetto economico così strutturato è alimentata inoltre dalla grande disponibilità di capitali che le associazioni mafiose immettono nell'impresa assoggettata al loro controllo.
L'impresa mafiosa viene declinata in due distinte accezioni: un primo tipo, che potremmo definire "in house", viene creato ed amministrato in seno al sodalizio criminale, in cui evapora l’alterità tra le attività imprenditoriali e quelle criminali in senso stretto; un secondo tipo, che potremmo definire "extra house", è rappresentato dall'impresa “a partecipazione mafiosa”, che fa capo ad un soggetto distinto e separato dall'associazione mafiosa, ma che con quest’ultima stipula una sorta di contratto, onde approvvigionarsi di quelle risorse che la stessa associazione può mettergli a disposizione[46]. Un rapporto dunque di tipo sinallagmatico, dove l'impresa beneficia degli apporti mafiosi onde rafforzarsi sui mercati in cui si ritrova ad opera e, per contro, l'associazione mafiosa beneficia di quei contributi che l'impresa può apportargli onde accrescere il proprio patrimonio in termini di relazioni e “capitale sociale”[47].
Il legislatore del 1982 ha saputo cogliere queste dinamiche e l'introduzione della Legge n. 646/1982, c.d. “Rognoni-La Torre”, si poneva l'obiettivo di prevenire e reprimere il fenomeno, andando a colpire la principale finalità dell'associazionismo mafioso, rappresentata dalla gestione di “settori e fasce di attività lecita”[48].
L'autore è assai esplicito sul punto, asserendo che “la commissione di “delitti” sembra ormai diventata una finalità secondaria, di carattere strumentale al raggiungimento degli obiettivi leciti. Le attività legali non sono, così, una copertura delle attività criminali ma ne rappresentano il naturale e fondamentale sbocco”[49].
Le finalità mafiose si “mimetizzano insidiosamente” con quelle aziendali e se ne differenziano soprattutto per le modalità del perseguimento, connotate dal metodo mafioso di cui all'art. 416-bis, comma terzo.
Il limite della norma di cui all'art. 416-bis c.p. è rappresentato, come noto, dal non poter intercettare le condotte di quei soggetti che non sono organici all'associazione mafiosa, che apportano quei “contributi “neutri”, in sé leciti, ma realizzati per “agevolare” l'associazione o utilizzando il “metodo mafioso”[50], contribuendo in questo modo alla causa mafiosa. Il legislatore del 1982 non è riuscito dunque a tipizzare le condotte di questi soggetti esterni alle associazioni mafiose, pur nell'ambito di un complessivo sforzo che merita di essere riconosciuto. La densità dell'art. 416-bis, terzo comma, testimonia lo sforzo prodotto in sede parlamentare nel tentativo di individuare con nitidezza quelle attività non strettamente criminali che l'associazione mafiosa persegue e che la differenziano dal tipo di associazione per delinquere di tipo comune. In questa norma vengo estrinsecate tutta una serie di attività latu sensu professionali che richiedono ai fini della loro corretta espletazione un livello di conoscenze e competenze tali che l'associato di mafia non può verosimilmente soddisfare. Ma se la norma delinea dettagliatamente le attività “para lecite” che l'associazione mafiosa persegue, non giunge fino a delineare il tipo di condotte funzionali al loro perseguimento.
Il ruolo che in questo contesto il soggetto contiguo assume è quello di “interfaccia legale dell'organizzazione mafiosa, intervenendo nell'ambito produttivo, sociale e istituzionale di riferimento e consentendo, in questo modo, al sodalizio criminale il raggiungimento dei suoi scopi”[51]. Senza un apporto così qualificato, l'associazione mafiosa difficilmente riuscirebbe a perseguire quella parte di programma criminoso “para lecita”, “limitando la propria capacità criminale alla mera “commissione di delitti”[52]. L'area di contiguità sul versante dell'impresa mafiosa si presenta come assai vasta ed eterogenea, determinata da quella serie di intrecci relazionali che l'organizzazione mafiosa pone in essere con quei soggetti che di volta in volta risultano strumentali al perseguimento dei suoi obiettivi programmatici e l'art. 416-bis in questo senso risulta insufficiente onde intercettare le condotte di quei soggetti contigui che dell'organizzazione mafiosa non fanno parte.
La Legge n. 646/1982, c.d. “Rognoni-La Torre”, ha introdotto, accanto al delitto di cui all'art. 416-bis c.p., la fattispecie di cui all'art. 513-bis c.p., volta a disciplinare l'illecita concorrenza con minaccia e violenza. La norma prevede una pena da due a sei anni per “chiunque nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia”, prevedendo al secondo comma che la pena è aumentata “se gli atti di concorrenza riguardano un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo stato o da altri enti pubblici”.
Come emerge dai lavori preparatori, l'intenzione del legislatore era quella di intercettare le condotte di quei soggetti imprenditoriali mafiosi che tramite il ricorso all'intimidazione e più in generale al metodo mafioso di cui l’intimidazione stessa costituisce un corollario ineluttabile, miravano ad eliminare la concorrenza nei loro settori di operatività, avendo di mira il raggiungimento di una posizione di monopolio non contrastato[53].
Tuttavia, il mancato riferimento esplicito al fenomeno mafioso ha reso monca la norma e ne ha condizionato l'applicabilità[54]. Il mancato richiamo alle modalità di cui all'art. 416-bis, terzo comma, ha segnato il limite della norma de qua, essendo i concetti di “violenza” e “minaccia” troppo generici per poter da soli integrare una fattispecie di contiguità mafiosa.
La stessa struttura del fatto tipico ha destato non poche perplessità in sede ermenuetico-applicativa, essendo il fatto tipico strutturato sugli atti di concorrenza e non su quelli volti a scoraggiarla, con le modalità di violenza e minaccia[55]. L'atto di concorrenza è infatti un atto interno al mercato e concerne la competizione tra imprenditori, mentre l'atto di prevaricazione mafiosa non può mai assumere natura concorrenziale (perché al di fuori dalle regole del mercato), ma può “solamente” incidere su di essa, scoraggiandola[56].
Alla luce della ricostruzione più sopra delineata dell'area di contiguità, possiamo dedurne la difficoltà per il legislatore di fornirne una specifica disciplina in seno ad una fattispecie incriminatrice di parte speciale, stante la moltitudine di contributi che i soggetti esterni apportano a seconda delle contingenze, con l'obiettivo di raggiungere “lo scopo sociale” stabilito con la stipula del pactum sceleris. Quel che sembra emergere è la dualità “agevolazione/metodo” negli intrecci tra organizzazioni mafiose e soggetti contigui, con questi ultimi che agevolano l'associazione mafiosa e si avvalgono del metodo mafioso nel perseguimento dei vantaggi e profitti[57]. In questo senso, una soluzione normativa potrebbe essere rappresentata dall'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 (già art. 7, Legge n. 203/91)[58].
2. Il sistema di contrasto nel codice penale.
Terminata la breve esposizione dei contributi sociologici, vediamo di seguito come il legislatore ha tentato di disciplinare gli aspetti di contiguità tra mafia e imprese, analizzando le fattispecie all’uopo previste nella parte speciale del codice penale, fatta eccezione per l’analisi della fattispecie di cui all’art. 513-bis c.p., già esposta nel paragrafo primo.
2.1 Le fattispecie di riciclaggio e impiego di capitali illeciti.
Nella sua trattazione manualistica, il professore G. Fiandaca segnala come l'esigenza di intercettare i flussi di denaro di illecita provenienza, frutto delle attività delittuose poste in essere dalle organizzazioni criminali, abbia indotto dapprima il legislatore nazionale e poi quello europeo a prevedere apposite misure di contrasto in seno all'ordinamento giuridico[59].
La fattispecie in esame è disciplinata dall'art. 648-bis c.p. ed è stata inserita nell'ordinamento italiano per la prima volta con la Legge n. 191/78, che lo rubricava come “Sostituzione di denaro o valori provenienti da rapina aggravata, estorsione aggravata o sequestro di persona a scopo di estorsione”.
Sulla spinta delle sollecitazioni sovranazionali (il Consiglio d'Europa aveva approvato la “Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato”) nel 1993 il legislatore partorisce una riforma che muta la rubrica dell'art. 648-bis, intitolandolo “Riciclaggio”. Contestualmente, viene inserito nell'ordinamento l'art. 648-ter, rubricato “Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita”.
La riforma si presenta con i classici limiti congeniti tipici della legislazione emergenziale, recando una limitata applicazione giurisprudenziale[60].
Con riguardo al presupposto del reato, il legislatore della riforma ha eliminato il vecchio elenco tassativo di reati-presupposto e lo ha sostituito con un presupposto unico, rappresentato da “un qualsiasi delitto non colposo”[61].
Per quello che concerne la condotta tipica, ha previsto “altre operazioni, in modo da ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa”.
La prima formulazione della norma, risalente al 1978, era stata concepita al fine di intercettare i flussi di denaro che fossero il provento dei sequestri di persona e delle rapine, così circoscrivendo in maniera tassativa l'applicazione della fattispecie. L’intervento sul bene che dava luogo a punibilità era soltanto quello materiale e non anche quello giuridico. Rimanevano dunque fuori dall'ambito della norma figure di reato assai rilevanti in termini di proventi, come il traffico di stupefacenti e i reati di concussione e corruzione. Oltre a questo, non venivano considerati punibili gli interventi di tipo giuridico, come l'estinzione di un debito[62]. Nel 1990 il legislatore ampliava il catalogo dei reati-presupposto, aggiungendo il “narcotraffico”.
La riforma del 1993 ha inteso adottare il termine “riciclaggio” inteso nella sua accezione più diffusa, ossia come operazioni che hanno di mira il “ripulire” il denaro in maniera tale da non poter più risalire alla sua provenienza illecita.
L'inibire la circolazione del denaro di provenienza delittuosa e il mettere una barriera alla sua immissione nei circuiti legali dell'economia aveva come scopo anche quello di scoraggiare la commissione dei delitti-presupposto, veicolando il messaggio secondo il quale delinquere non conviene[63].
Alla luce di questi rilievi, non ha convinto la scelta sistemica del legislatore di collocare il delitto de quo nel catalogo dei reato contro il patrimonio: essendo la fattispecie di più ampia portata, appare auspicabile una sua ricollocazione in seno ai delitti contro l'economia.
Il soggetto attivo può essere “chiunque”, al di “fuori dai casi di concorso nel reato”, così escludendo i concorrenti eventuali nel resto presupposto. Per distinguere il concorso nel reato dalla fattispecie di riciclaggio, viene adottato un criterio cronologico avente come riferimento il momento della stipula del patto di riciclaggio: se il patto interviene prima che il reato sia consumato, si ha concorso nel reato presupposto; se interviene successivamente, opera la fattispecie di riciclaggio. Sarà all'uopo necessario (onde configurare la fattispecie concorsuale), inoltre, verificare nel caso di specie l'incidenza che la promessa di riciclaggio ha avuto sui propositi delittuosi degli altri autori del reato[64].
La riforma del fatto tipico ha investito poi sia i reati-presupposto, sia la condotta punibile.
Sulla base delle indicazioni provenienti dalla convenzione europea, sono idonei a fungere da reati-presupposto tutti i delitti non colposi, prevedendo un trattamento sanzionatorio differenziato (una circostanza attenuante) per quelli che prevedono una pena massima inferiore ad anni cinque di reclusione[65].
Vengono ricompresi nella fattispecie anche quei reati che non sono rivolti a generare capitali illeciti, come i reati fiscali.
Ad avviso del Fiandaca, circoscrivere con esattezza il perimetro dei reati idonei a generare capitali illeciti è operazione assai complicata e difficilmente esigibile in sede legislativa, date le moderne tecniche di formazione e riciclo dei capitali illeciti[66].
La condotta punibile è stata riformata e ripartita in due diverse modalità: “sostituire” o “trasferire” denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita; ovvero “compiere altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della provenienza illecita”[67]. Il trasferimento dei capitali e il compiere altre operazioni onde ostacolare l'accertamento della provenienza illecita sono le novità di rilievo, che si collocano nell'ottica di un apparato sanzionatorio ad ampio spettro, in modo da colmare le lacune della precedente normativa che la prassi applicativa aveva messo in evidenza.
Sotto l'imperio della precedente normativa, la fattispecie di riciclaggio veniva declinata nel senso della ricettazione, ove si sostituiva il bene proveniente dal reato; ovvero, in senso di favoreggiamento, in caso di ostacolo alll'identificazione della sua provenienza[68].
La condotta del “sostituire” viene intesa a forma libera, come nella vecchia formulazione. Risulta all'uopo idonea ogni forma di rimpiazzo dei beni illeciti con altri leciti.
La condotta del “trasferire” fa riferimento, invece, all'utilizzo di strumenti giuridici[69].
L'oggetto costituito da “denaro, beni o altre utilità” presenta un carattere onnicomprensivo, idoneo a disciplinare qualsiasi cosa che sia apprezzabile sul piano economico.
La seconda modalità della condotta ha destato qualche perplessità con riguardo alla sua formulazione, in quanto la locuzione “in modo da” sembrava poter configurare una distinta ipotesi di reato, a dolo specifico[70]. Ma il significato della formulazione non ha carattere univoco e non è accompagnato da ulteriori elementi caratterizzanti, sicché se ne conclude che deve consistere “in un ostacolo alla identificazione della provenienza illecita”[71].
Il carattere tanto onnicomprensivo della seconda modalità di condotta rischia di assorbire nel suo alveo anche il dettato della prima, in quanto l'attività di ripulitura è pur sempre rivolta a celare la provenienza illecita del bene. Questa seconda formulazione si presenta come potenzialmente idonea ad assurgere al rango di “centro di gravità” del delitto di riciclaggio, rendendo superflua la prima modalità di condotta (riguardante la sostituzione e il trasferimento dei beni)[72].
Sul piano dell'elemento soggettivo, il dolo si presenta come generico, richiedendo la consapevolezza della provenienza illecita dei capitali.
La consumazione del reato si ha quando sostituzione o trasferimento si sono perfezionati (atti idonei ad univoci possono configurare il tentativo ex art. 56 c.p.); la seconda modalità di condotta si perfeziona lcon il compimento di una qualsiasi attività di ostacolo circa l'identificazione della provenienza dei capitali.
La norma prevede al secondo comma una circostanza aggravante qualora il reato sia commesso “nell’esercizio di un'attività professionale”, col chiaro intento di scoraggiare il ricorso a professionisti di settore nella circolazione di capitali[73].
Al comma terzo si prevede, di contro, una circostanza attenuante nel caso in cui i proventi siano riconducibili ad un delitto per cui è fissata una pena massima inferiore ad anni cinque, che reca seco un minor disvalore penale.
Ai fini dell'accertamento probatorio dei reati di riciclaggio e impiego di capitali illeciti, il legislatore del 1992 ha introdotto nell'ordinamento la figura dell'agente provocatore, prevedendo una causa di non punibilità per gli agenti che compiono le attività di cui agli artt. 648-bis e 648-ter nell'ambito di attività di acquisizione probatoria inerenti ai suddetti reati. La causa di giustificazione si presenta come speciale rispetto al dettato dell'art. 51 c.p., in quanto è circoscritta sul piano soggettivo agli ufficiali della DIA e su quello delle finalità all'acquisizione di determinati elementi di prova[74].
Il legislatore del 1990 ha introdotto nell’ordinamento anche un'altra fattispecie, rubricata come “Impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita” di cui all'art. 648-ter c.p. La fattispecie ha subito una modifica, sulla scia di quanto avvenuto anche per la fattispecie di riciclaggio, a seguito delle sollecitazioni sovranazionali derivanti dalla convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato datata 1990, ampliando così nel 1993 la natura dei reati-presupposto, prevedendo che presupposto possa essere un qualsiasi delitto, anche di natura colposa (l'inclusione dei reati colposi non sembra riconducibile a specifici intenti di politica criminale).
L'ambito di operatività della norma è quello immediatamente successivo alla fattispecie di riciclaggio, che coincide con l’investimento dei capitali illeciti: “si vuole in tal modo impedire che l'ordine economico possa subire gravi turbamenti, anche sotto forma di violazione del principio di libera concorrenza, posto che la disponibilità di ingenti risorse a costi inferiori a quelli dei capitali leciti consente alle imprese criminali di raggiungere più facilmente posizioni monopolistiche”[75].
Il soggetto attivo del reato viene identificato con colui che investe il capitale illecito. La norma non trova applicazione nei casi di concorso nel reato-presupposto e nei casi in cui operano le norme circa le fattispecie di ricettazione e riciclaggio.
La condotta punibile si snoda attorno all'attività di “impiego in attività economiche o finanziarie”, con il termine “impiego” che di primo acchito appare assai generico e poco determinato. Tenendo presente la ratio della norma incriminatrice, sembra corretto declinarlo nell'ottica dell'investimento del capitale illecito, facendone un uso a fini di profitto[76].
La “attività economiche e finanziarie” appaiono come riconducibili a un qualunque ambito che sia funzionale a generare profitti, anche se il termine “attività” sembra prestarsi a una duplice interpretazione (l'autore propende per un'interpretazione restrittiva, che si attenga ad un'idea di attività continuative nel tempo, mentre parte della dottrina, tra cui Colombo, propende per un'interpretazione estensiva che tenga conto anche di attività estemporanee)[77].
Il dolo è rappresentato da volontà e coscienza di impiegare utilmente i capitali, di cui si è al corrente circa la provenienza delittuosa.
Restano la circostanza aggravante per la commissione del reato nell'esercizio di un’attività professionale, la circostanza attenuante per il caso in cui il delitto presupposto preveda una pena massima inferiore ad anni cinque e la causa speciale di non punibilità per gli agenti della DIA impegnati in attività di acquisizione probatoria[78].
Sulla spendibilità delle due fattispecie di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. nell'ambito di indagini patrimoniali relative a fatti di mafia, apprezziamo il contributo di G. Turone, già citato nel corso di questa trattazione[79].
L'importanza delle due fattispecie di reato risiede nella loro applicabilità a persone estranee ai reati-presupposto.
Le condotte che le norme vanno a disciplinare non sono infatti quelle del riciclaggio primario (realizzato dalle organizzazioni mafiose con i delitti produttivi di capitali illeciti), bensì quelle del riciclaggio secondario (realizzato da soggetti estranei al reato-presupposto)[80]. Il caso tipico di riciclaggio primario si avrà quando il soggetto interno al sodalizio mafioso risponderà del reato-presupposto ai sensi dell'art. 416-bis c.p. L'accertamento circa le condotte di riciclaggio secondario da parte di soggetti esterni all'organizzazione mafiosa dovrà poggiare le fondamenta sulle indagini inerenti il reato-presupposto.
Dopo questo “aggancio” iniziale, le indagini circa i reati di riciclaggio e reimpiego potranno proseguire autonomamente e disvelare tutti quegli eventuali apparati predisposti al riciclo dei capitali delittuosi nell'economia legale[81].
Il soggetto interno all'organizzazione mafiosa risponderà invece sempre del reato associativo di cui all'art. 416-bis, anche quando stabilmente predisposto all'attività di riciclaggio dei profitti illeciti e questo in forza del fatto che le singole attività illecite produttive di ricchezza non sono altro da sé rispetto al reato associativo. Questo dato è corroborato dal dettato di cui al comma settimo dell'art. 416-bis c.p., che prevede la confisca obbligatoria “delle cose che costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto del reato o che costituiscono l'impiego dei predetti proventi”[82]. Se i reati-scopo dell'associazione fossero considerati come a sé stanti rispetto all'associazione mafiosa (che nasce come associazione che delinque e non già “per delinquere”) dovrebbe trovare applicazione l'art. 240 c.p. che prevede la confisca soltanto facoltativa. Il riciclaggio primario integra sempre la condotta di partecipazione (dall’interno) al reato associativo ex art. 416-bis c.p.[83].
Il riciclaggio secondario, per contro, si configurerà sempre come esterno al sodalizio, in quanto estraneo al reato-presupposto costituito dal reato associativo. Non sarà dunque possibile il cumulo giuridico tra gli artt. 416-bis e 648-bis e ter, in quanto la condotta di riciclaggio o reimpiego di proventi illeciti non sarà sufficiente a configurare una partecipazione al reato associativo.
Orbene, sarà in ogni caso possibile considerare l'attività di riciclaggio come agevolatrice della consorteria mafiosa e dunque aggravare la condotta de qua si sensi dell'art. 416-bis.184].
2.2 La fattispecie di autoriciclaggio.
Il delitto di autoriciclaggio è stato introdotto nell'ordinamento italiano all'art. 648-ter.1, con l'art. 3 della Legge n. 186/2014 recante misure di contrasto all'evasione fiscale. La ratio legis è da rinvenire nella presa di distanza dal delitto di riciclaggio per quello che concerne l'ancoraggio al reato-presupposto[85].
Nella sua genesi, la fattispecie di riciclaggio fu pensata come strettamente connessa alla commissione del reato-presupposto, assumendo un ruolo più sganciato dopo le riforme degli anni novanta del secolo scorso. Le difficoltà applicative dovute a un simile distinguo hanno aperto la discussione circa l'opportunità di separare sul piano normativo il riciclaggio dal reato-presupposto[86]. Una svolta decisiva è stata data dalla risoluzione del Parlamento europeo del 23 ottobre 2013, recante raccomandazioni agli Stati membri con riguardo alle misure da adottare nel contrasto alla criminalità organizzata, alla corruzione e al riciclaggio del denaro, invitando ad adottare la fattispecie di autoriciclaggio[87].
Il possibile effetto espansivo della fattispecie di autoriciclaggio aveva indotto la dottrina ad assumere una posizione critica, per il timore che una punibilità diffusa si ponesse in antitesi rispetto alla ratio legis che aveva innervato la precedente fattispecie di riciclaggio[88]. La scelta di creare una nuova fattispecie ad hoc e di intervenire su quelle già esistenti di riciclaggio e reimpiego ha avuto come finalità quella di individuare l’autonomia di disvalore inerente la condotta di riciclo, sganciandola dalla commissione del reato presupposto. La pena stabilita è da due ad otto anni, più la multa da cinquemila a venticinquemila euro per chi “avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della loro provenienza delittuosa”. Si prevede poi una circostanza attenuante per il caso in cui il delitto non colposo preveda una pena massima inferiore ad anni cinque e si prevede l'operatività della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis.1. L'utilizzo e il godimento personale del bene assumono il ruolo di causa di non punibilità. Torna l'aggravante comune per il caso di riciclo svolto nell'ambito di un’attività professionale e viene sancita la circostanza attenuante per il caso in cui l'autore “si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l'individuazione dei beni, del denaro o delle altre utilità provenienti dal delitto”. In questo caso la pena è diminuita fino alla metà[89]. L'identificazione dell'origine delittuosa e la previsione della circostanza attenuante calibrata sulla gravità del reato-presupposto mettono in luce come il legislatore non abbia reciso il legame tra quest'ultimo e la condotta di reimpiego[90].
La condotta incriminata appare come il risultato di una fusione tra le vecchie fattispecie di riciclaggio e reimpiego, prevedendo che ad essere assoggettate a pena siano l'impiego, la sostituzione e il trasferimento dei proventi illeciti. La formulazione non convince del tutto, in quanto il concetto di impiego sembra poter assorbire in sé anche quelli di sostituzione e trasferimento. Appare assai elastica, poi, la struttura della causa di non punibilità, essendo il mero utilizzo e il godimento personale suscettibili di letture assai estensive ed eterogenee.
L'aggettivo ‘concreto’ con riguardo all’attività di ostacolo circa l'identificazione della provenienza dei proventi sembra pensato per circoscrivere la portata della norma a quelle condotte particolarmente ostative dell'attività di accertamento posta in essere dagli organi a ciò preposti[91].
Dal punto di vista probatorio, la norma sembra superare le difficoltà che avevano caratterizzato le precedenti fattispecie. Si profila una prassi giudiziaria improntata all'accertamento del reato-presupposto, da cui far discendere, in capo all'autore, la delittuosa provenienza di eventuali capitali che quest’ultimo avesse investito in attività economiche et similia, determinando una sostanziale inversione dell'onere della prova[92].
Il delitto de quo è strutturato come doloso, con un onere probatorio attenuato dal fatto che l'autore è il medesimo soggetto del reato-presupposto. Sarà quindi in re ipsa consapevole dell'illecita provenienza dei capitali.
Per il concorrente eventuale nel reato-presupposto, sembra pacificamente ammessa l'imputabilità a titolo di dolo eventuale[93].
Con riguardo alle circostanze che la norma de qua ha previsto, va segnalato come l'aggravante comune del commettere i fatti nell'esercizio di attività bancaria, finanziaria o professionale appaia di primo acchito come una superfetazione, ben potendo la sola attività professionale ricomprendere le altre due attività[94].
La circostanza attenuante ripropone il modello già previsto nella fattispecie di riciclaggio, anche con riferimento al quantum di pena previsto per il reato-presupposto. Un bilanciamento lo opera il richiamo alla circostanza aggravante dell'agevolazione e del metodo mafioso ex art. 416-bis.1, che esclude la deminutio di pena nei fatti di mafia (che difficilmente potrebbero rientrarvi, vista la loro elevata portata edittale). Con l’ultima circostanza attenuante, si è voluta premiare la eventuale collaborazione in sede processuale del reo.
Sulla non compatibilità del reato de quo con quello di associazione mafiosa e concorso esterno in associazione mafiosa si apprezzano le osservazioni di G. Turone, che muove dalle massime giurisprudenziali delle Sezioni Unite Iavarazzo del 2014[95]. La spiegazione di una tale incompatibilità è data dal fatto che la fattispecie associativa di cui all'art. 416-bis c.p. contiene già al sesto comma un'aggravante di pena da un terzo alla metà per le condotte dei mafiosi rivolte al finanziamento di attività economiche con i capitali che sono il profitto delle loro attività delittuose. Il post factum dell'autoriciclaggio risulta dunque assorbito nell'alveo dell'art. 416- bis e la condotta del mafioso autoriciclatore non assume un autonomo disvalore penale ai sensi dell'art. 648-ter.1[96].
3. Considerazioni conclusive
La breve ricostruzione di cui sopra si propone di offrire un focus sugli strumenti normativi di cui il diritto penale si avvale nel perseguire le condotte di contiguità tra organizzazioni mafiose e mondo dell’imprenditoria.
L’apparato normativo si presenta come connotato da pregi e difetti, che di volta in volta ne determinano le sorti in sede applicativa.
La lotta al fenomeno mafioso è destinata a percorrere sempre più spesso la strada del perseguimento dei capitali illeciti.
Lo sosteneva il giudice G. Falcone, il cui motto "follow the money" appare più che mai attuale.
Recidere i legami tra le organizzazioni mafiose e il mondo imprenditoriale si presenta come, un’esigenza non procrastinabile. La disponibilità di grandi capitali non solo accresce il potere criminale delle organizzazioni mafiose, ma rappresenta un requisito pacificamente idoneo a legittimarne la presenza in seno alla società civile.
Storicamente l’inganno delle mafie si articola sul versante del soccorso prestato alle fasce di popolazione maggiormente in difficoltà, quelle a cui lo Stato non riesce a garantire adeguate risposte in termini di occupazione lavorativa.
Le diffuse difficoltà economiche che il mondo imprenditoriale ( e più in generale l'intera società civile ) sta attraversando a seguito dell'emergenza da covid-19, rischia di costituire terreno favorevole all'avanzare delle mafie. L'immediata disponibilità dei capitali (ancorchè illeciti) potrebbe far assurgere le organizzazioni mafiose a soggetti di riferimento per quegli operatori economici maggiormente esposti dal punto di vista economico-finanziario ed inclini al compromesso circa la fruibilità di capitali illeciti.
[1] G. FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale, in Foro It. 1991, pp. 472 ss. .
[2] Sul punto si rinvia alle migliori trattazioni socio-criminologiche, su tutte S. LUPO, Storia della mafia, Donzelli, Roma, 2004.
[3] G. FIANDACA, La contiguità mafiosa degli imprenditori, op. cit., p. 473.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 474.
[6] Ivi, p. 476.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 2015, pp. 494 ss. .
[10] Ivi, pp. 494-496.
[11] Ivi, pp. 497-498.
[12] Ivi, p. 499.
[13] Ivi, p. 500.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 501.
[16] Ibidem.
[17] Ivi, p. 502.
[18] Ivi, p. 503.
[19] Ivi, p. 504.
[20] Ibidem.
[21] Ivi, p. 505.
[22] Ibidem.
[23] Ivi, p. 506.
[24] Ivi, p. 508.
[25] Ibidem.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 509.
[28] Ivi, p. 510.
[29] Ivi, p. 511.
[30] Ivi, p. 513.
[31] Ivi, pp. 514-515.
[32] Ibidem.
[33] Ivi, p. 516.
[34] Ibidem.
[35] C. VISCONTI, Strumenti di contrasto dell’inquinamento criminale dell'economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2014, pp. 705-737.
[36] Ivi, p. 708.
[37] Ivi, p. 709.
[38] Ivi, p. 710.
[39] Ivi, p. 711.
[40] Ivi, p. 712.
[41] Ivi, pp. 724-725.
[42] Ivi, p. 726.
[43] Ibidem.
[44] F. SIRACUSANO, Impresa mafiosa e contiguità, in Crimine organizzato e criminalità economica. Tendenze empirico-criminologiche e strumenti normativi di contrasto nella prospettiva del diritto dell'unione europea, A.A. V.V., Pisa univerity press, Pisa, 2019, pp. 325-353.
[45] Ivi, p. 325.
[46] Ivi, p. 326.
[47] Ivi, p. 327.
[48] Ivi, p. 328.
[49] Ibidem.
[50] Ivi, p. 329.
[51] Ivi, p. 335.
[52] Ivi, p. 336.
[53] Ivi, p. 337.
[54] Ivi, p. 338.
[55] Ivi, p. 339.
[56] Ivi, p. 340.
[57] Ivi, p. 341.
[58] Ibidem.
[59] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, Zanichelli, Bologna, 2015, p. 260.
[60] Ibidem.
[61] Ivi, p. 262.
[62] Ivi, p. 263.
[63] Ivi, p. 264.
[64] Ivi, p. 265.
[65] Ibidem.
[66] Ivi, p. 266.
[67] Ibidem.
[68] Ibidem.
[69] Ivi, p. 267.
[70] Ibidem.
[71] Ibidem.
[72] Ivi, p. 268.
[73] Ivi, p. 269.
[74] Ivi, p. 270.
[75] Ivi, p. 271.
[76] Ivi, p. 272.
[77] Ivi, p. 273.
[78] Ibidem.
[79] G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, op. cit., pp. 579 ss. .
[80] Ivi, p. 582.
[81] Ivi, p. 584.
[82] Ivi, p. 585.
[83] Ibidem.
[84] Ivi, p. 586. Sul punto l'autore effettua uno specifico richiamo alla sentenza delle sezioni unite della corte di Cassazione Iavarazzo/2014.
[85] A. GULLO, Autoriciclaggio. Voce per il libro dell'anno del diritto Treccani 2016, in DPC, 2016, p. 1
[86] Ivi, p. 4.
[87] Ibidem.
[88] Ivi, p. 5.
[89] Ivi, p. 6.
[90] Ivi, p. 7.
[91] Ivi, pp. 8-9.
[92] Ibidem.
[93] Ivi, p. 10.
[94] Ibidem.
[95] G. TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, op. cit., p. 588.
[96] Ivi, p. 589.