Pubbl. Ven, 15 Mag 2020
Caso Fasciani: la natura oggettiva del metodo mafioso
Modifica paginaLa Suprema Corte torna a pronunciarsi sull’applicabilità dell’art. 416-bis c.p., superando i precedenti orientamenti in tema di mafie “delocalizzate” in aree geografiche non tradizionali e mafie “autoctone”. Nella decisione in commento i Giudici di legittimità affermano con chiarezza che per qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale è sempre necessario accertare in concreto la sussistenza del metodo mafioso non essendo sufficiente la capacità potenziale di sprigionare la carica di intimidazione.
Sommario: 1. Premessa. – 2 Metodo mafioso e mafie “delocalizzate”. – 3. Metodo mafioso e mafie “autoctone”. – 4. Metodo mafioso e garanzie costituzionali. – 5. Conclusioni.
1. Premessa.
Con la sentenza in commento la Cassazione torna ad occuparsi degli elementi costitutivi della fattispecie di stampo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p.[1].
La Suprema Corte, riconoscendo il carattere mafioso[2] del c.d. Clan Fasciani, affronta la controversa e rilevante questione dell’applicabilità della norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. alle mafie diverse da quelle c.d. “storiche”. Il riferimento è a quei gruppi criminali “senza nome”, ossia quelle associazioni che, nonostante siano “prive di un nomen e di una storia criminale”, utilizzano gli stessi metodi e perseguono i medesimi scopi delle organizzazioni di stampo mafioso già note[3].
I Giudici di legittimità, nel presupposto che nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p. non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti ma anche le «piccole mafie» precisano che per queste ultime “non basta la parola mafia” al fine di identificare il carattere penalmente significativo, essendo necessario accertare in concreto il metodo mafioso, ossia la forza intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile del vincolo associativo, da cui deriva la condizione di assoggettamento e omertà[4].
La ricostruzione offerta sulla natura del metodo mafioso quale elemento costitutivo della fattispecie da accertare in concreto costituisce il fulcro della pronuncia in esame, volta a superare il rischio – concretizzatosi in tema di mafie “autoctone” e “delocalizzate” – di una prassi applicativa che non ha considerato o addirittura ha escluso la natura oggettiva di tale requisito. Come ampiamente sostenuto da autorevole dottrina, è proprio il metodo mafioso che colloca la fattispecie all’interno della categoria dei reati associativi “a struttura mista”, in contrapposizione a quelli “puri”, tra cui l’associazione ex all’art. 416 c.p.[5]. Il metodo, pertanto, assume la connotazione di elemento ulteriore, da accertare in concreto, tale da qualificare la societas sceleris non “per ciò che è”, ma per ciò che “fa”, ossia per le sue modalità operative in un determinato contesto territoriale e storico[6].
Particolarmente interessante, inoltre, appare l’attenzione ai principi costituzionali di proporzionalità, tassatività e offensività sempre più spesso sacrificati in tema di repressione alla criminalità organizzata[7].
2. Metodo mafioso e mafie “delocalizzate”.
La decisione della Suprema Corte costituisce un importante avanzamento ermeneutico, soprattutto se si considera il diverso orientamento in tema di mafie “delocalizzate”[8], secondo cui per la configurabilità del reato di associazione mafiosa è sufficiente una forza di intimidazione anche solo meramente potenziale e non effettiva ed attuale.
Questo ultimo orientamento è stato espresso in occasione di importanti processi[9] contro organizzazioni criminali ‘ndranghetiste radicate nel nord Italia, nel corso dei quali nonostante il deficit probatorio determinatosi proprio in ordine all’accertamento del metodo mafioso, i giudici hanno considerato applicabile la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis c.p.. In particolare, è stato ritenuto sufficiente dimostrare i rapporti tra l’organizzazione criminale sottoposta a giudizio e l’associazione mafiosa attiva in Calabria, in assenza della prova dell’avvalimento della forza di intimidazione e del conseguente assoggettamento e omertà negli specifici ambienti di insediamento[10].
Una parte della dottrina ha posto in evidenza come con tali pronunce si sia trasformato il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. in un reato associativo “puro” essendo sufficiente ai fini dell’integrazione della norma incriminatrice l’esclusiva “potenziale capacità di avvalersi della forza di intimidazione”[11].
Proprio il contrasto tra quest’ultima pronuncia e parte della giurisprudenza che riteneva, viceversa, che il modello di cui all’art. 416-bis c.p. fosse a struttura “mista”, ha indotto la prima sezione penale della Cassazione a richiedere l’intervento delle Sezioni Unite sul punto[12]. Il Primo Presidente non ha dato seguito alla richiesta, dando per consolidato l’orientamento secondo cui ai fini dell’integrazione della fattispecie di associazione ex art. 416-bis c.p. il metodo mafioso deve essere tale da sprigionare una capacità di intimidazione (non soltanto potenziale, ma) effettiva, attuale ed oggettivamente riscontrabile[13].
Il successivo orientamento della giurisprudenza ha tuttavia evidenziato la persistenza o comunque il sussistere di un effettivo un contrasto interpretativo sul punto.
Infatti, se da un lato, alcune sezioni della Corte di legittimità richiedevano la prova che «l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, quale forma di condotta positiva», altre sezioni si sono distanziate da tale impostazione[14].
Si pensi, ad esempio, alla sentenza relativa al processo “Alba Chiara”[15], in cui i Giudici di legittimità, facendo riferimento ad una mera articolazione di un’associazione mafiosa storica, hanno ritenuto che fosse sufficiente ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p. lo stretto rapporto di dipendenza con la casa “madre” senza la necessità di riscontrare un’obiettiva, effettiva ed attuale capacità di intimidazione. In altre parole, una volta accertata la presenza sul territorio di una struttura criminosa di stampo mafioso frutto di una mera “gemmazione” di una precedente organizzazione dello stesso tipo, radicata ed operativa nei territori di origine, si è ritenuto sufficiente accertare il collegamento delle due cellule e non anche l’effettiva esplicazione del metodo mafioso nell’ambiente circostante da parte della cellula “figlia”[16]: il potenziale intimidatorio della ‘ndrangheta nei territori “colonizzati” renderebbe superflua l’effettiva esteriorizzazione del metodo mafioso.
3. Metodo mafioso e mafie “autoctone”.
Anche in tema di mafie “autoctone” la Corte di cassazione si è distanziata dal modello a “struttura mista” sopra descritto[17].
Il riferimento è alla vicenda a tutti nota come “Mafia Capitale”[18] in cui i Giudici di legittimità sono intervenuti in sede cautelare con due sentenze gemelle, enunciando principi di diritto in materia di accertamento del metodo mafioso[19].
La Corte ha ricostruito lo sviluppo dell’organizzazione criminale romana sulla base dell’ordinanza applicativa della misura cautelare e del provvedimento di riesame: in una prima fase, l’attività del sodalizio è stata definita di tipo “tradizionale” poiché operante in materia di estorsione, usura, recupero crediti (c.d. “mondo di sotto”); progressivamente, si è ampliata, infiltrandosi nel mondo economico-imprenditoriale e nella pubblica amministrazione, verso l’acquisizione del controllo di appalti, servizi pubblici, autorizzazioni e concessioni sfruttando avvalendosi del favore di funzionari pubblici (c.d. “mondo di sopra”)[20].
Ebbene, la questione principale, sottoposta al vaglio della Corte, era se potesse essere attribuito il carattere mafioso all’organizzazione (del c.d. “mondo di mezzo”) che esercitava, in virtù di contiguità politico-elettorali, «condizionamenti diffusi nell’assegnazione di appalti, nel rilascio di concessioni, nel controllo di settori dell’attività di enti pubblici o di aziende parimenti pubbliche», tanto da annullare la concorrenza.
Il punto rilevante in questa sede - ed affrontato dalla Corte - è se la capacità di intimidire i singoli debitori potesse ritenersi idonea a integrare il metodo mafioso di cui all’art. 416-bis c.p.. La questione appare non di poco conto stante l’esistenza sodalizi finalizzati ad estorsioni che agiscono attraverso forme di prevaricazione, in grado di terrorizzare le vittime delle minacce e che, tuttavia, non costituiscono organizzazioni di tipo mafioso[21].
Ebbene, nel caso di specie, la Corte ha rinvenuto che la posizione di monopolista da parte del sodalizio criminale romano sia stata ottenuta grazie ad un sistema di “intese corruttive” con diversi pubblici funzionari e “all'occorrenza, per effetto della incombente capacità di intimidazione esercitata sui potenziali concorrenti...”[22]. Il carattere mafioso del sodalizio risiedeva, dunque, nella possibilità di utilizzare la forza di intimidazione, “già sperimentata nei tradizionali settori delle estorsioni e dell'usura”.
La statuizione ha suscitato non poche perplessità.
Innanzitutto, l’espressione “all’occorrenza” dimostrerebbe che la capacità di intimidazione sia richiesta solo in via potenziale, come strumento da adottare in caso di necessità, rendendo superflua l’effettiva esteriorizzazione del metodo. Come sostenuto da autorevole dottrina, siffatta impostazione entrerebbe in conflitto con il principio di tassatività[23], poiché ritiene integrato il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. in assenza dell’estrinsecazione del metodo mafioso e degradandolo a duplicato dell’associazione per delinquere[24].
In secondo luogo, la Corte avrebbe riconosciuto il carattere mafioso dell’organizzazione nonostante la carica di intimidazione non avesse un carattere diffuso, ma fosse diretta verso singole vittime, con violenza privata o estorsione. Inoltre, non appare essere accertato che le vittime della prevaricazione fossero consapevoli che la forza di intimidazione promanasse dall’associazione in quanto tale. Invero, ai fini dell’integrazione dell’art. 416-bis c.p., è necessario che la forza di intimidazione del sodalizio (e non del “capo” persona fisica) si manifesti nei confronti non di singole vittime, ma di vere e proprie collettività o categorie di persone. In altre parole, le accertate pratiche estorsive ed i rapporti con ambienti di criminalità organizzata mafiosa ed eversiva non sono di per sé sufficienti a poterla definire come associazione ex art. 416-bis c.p..
Nonostante le ambiguità di tali passaggi della motivazione, non manca tra i commentatori chi sostiene che le sentenze gemelle della Cassazione si possano comunque annoverare tra gli orientamenti non inclini a forzature “dilatatrici” della fattispecie incriminatrice[25].
4. L’avvalimento del metodo mafioso e garanzie costituzionali.
Con la sentenza in esame la Corte afferma con chiarezza la connotazione oggettiva del metodo mafioso superando gli orientamenti sin ora descritti.
Il Giudice di legittimità precisa che «il metodo mafioso […] assumerebbe connotazioni di pregnanza "oggettiva", tali da qualificare non soltanto il "modo d'essere" della associazione [...] ma anche il suo "modo di esprimersi" in un determinato contesto storico e ambientale». Proprio l’“oggettività” del metodo mafioso «vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, in linea con i più recenti approdi della Corte Costituzionale»[26]. L’accertamento deve essere tanto più rigoso quanto più la realtà associativa delinquenziale sia diversa dalle mafie “storiche”[27].
La Corte identifica dunque il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. come un reato “a struttura mista”[28], contrapposto all’associazione a delinquere “pura” ex 416 c.p.[29].
Tale inquadramento ha, anzitutto, ragioni di tipo costituzionale. In particolare, in ossequio al principio di proporzione e offensività, il trattamento sanzionatorio rigoroso previsto dall’art. 416 bis c.p. necessita un quid pluris – ossia l’estrinsecazione del metodo mafioso da cui discendono assoggettamento e omertà – che si somma al programma e all’organizzazione del sodalizio[30].
In secondo luogo, la necessità di una verifica in concreto del metodo mafioso risiede anche nel principio di legalità penale e, in particolare, in uno dei suoi corollari, rappresentato dal principio di tassatività o sufficiente determinatezza: una fattispecie penale che dovesse incentrare il suo disvalore su elementi di tipo psicologico, che non si esteriorizzano e, come tali, non accertabili o suscettibili di prova, non sarebbe conforme al principio di precisione e determinatezza, così come definito dalla Corte Costituzionale[31].
Inoltre, ritenere che la fattispecie associativa mafiosa abbia come presupposto la verifica in concreto dello stesso metodo – quale elemento oggettivamente riscontrabile – significherebbe porre un argine a derive soggettivistiche, secondo un modello di diritto penale d’autore precluso dal sistema.
Dunque, l’avvalimento del metodo mafioso deve andare al di là di una dichiarazione di intenti: non è la “mafiosità” del singolo o la volontà di avvalersi di tale metodo a qualificare, in sé, l’associazione; ma è il “modo di fare” che consiste in un elemento specializzante dell’associazione a delinquere di stampo mafioso rispetto all'associazione a delinquere semplice, di cui all’art. 416 c.p. [32].
Infine, appare opportuno porre in rilievo altresì una ragione di tipo testuale: l’uso dell’indicativo presente da parte del legislatore non consente di leggere la disposizione nel senso di una mera intenzione, ma la forza intimidatrice e le condizioni di omertà e assoggettamento devono considerarsi elementi oggettivi della fattispecie[33].
5. Conclusioni.
In questa prospettiva, la sentenza in commento costituisce un indubbio avanzamento ermeneutico verso un’interpretazione della fattispecie associativa di stampo mafioso maggiormente conforme ai principi costituzionali.
La Corte infatti ha ritenuto che ai fini della configurabilità del delitto di associazione mafiosa - con riguardo alle mafie c.d. non tradizionali - è necessario che il sodalizio abbia conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile[34].
Dunque, il giudice di merito deve condurre un giudizio di accertamento da cui emerga la “mafiosità” della consorteria. A tal fine, la Corte individua degli indici di presunzione della connotazione mafiosa dell’organizzazione: l’intensità del vincolo di assoggettamento omertoso, gli specifici settori in cui l’attività viene svolta, le forme di manifestazione e la natura degli strumenti intimidatori adottati, l’estensione dell’area in cui il sodalizio dispiega la sua egemonia, la tipologia e la diversità dei settori illeciti di interesse, l’estrinsecazione del potere decisionale e la sottomissione delle controparti professionali e istituzionali.
Ebbene, la Corte ha ravvisato nel c.d. “clan Fasciani” gli indici descritti, precisando che il sodalizio che originariamente appariva come una associazione a delinquere "semplice" di cui all’art. 416 c.p. ha, invece, raggiunto «quel quid pluris che ne ha permesso l’inquadramento in quella di tipo mafioso»[35], soprattutto poiché il sodalizio non era più percepito come «Carmine Fasciani più soci», ma come «clan Fasciani»: «la caratura criminale del capo ha strutturato intrinsecamente quella del gruppo criminale e con essa ha finito per confondersi»[36].
La sentenza costituisce dunque un’efficace “linea guida”[37] per un’interpretazione costituzionalmente orientata e una ragionevole applicazione della norma incriminatrice. Infatti, nel solco del filone giurisprudenziale maggiormente garantista[38], la Corte ribadisce che sebbene l’avvalimento del metodo mafioso possa manifestarsi in vario modo[39], dovrà comunque essere concretamente accertato ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 416-bis c.p.. Tuttavia, alla luce delle interpretazioni oscillanti sopra descritte appare più che mai necessario un intervento delle Sezioni Unite al fine di risolvere ogni dubbio.
[1] Cass. pen., Sez. II, 16 marzo 2020 (ud. 29 novembre 2019), n. 10255, in italgiure.it.
[2] Un’associazione è di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p. quando i suoi sodali «si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva». Per forza di intimidazione si intende la capacità di incutere timore in virtù della predisposizione all’uso della coazione e che, per espressa previsione normativa, deve promanare dal vincolo associativo ossia dev’essere espressa impersonalmente dall’organizzazione criminale, non ritenendosi sufficiente che un timore (più o meno diffuso) sia legato alla figura di singoli sodali. L’assoggettamento e l’omertà devono derivare dalla forza di intimidazione: per assoggettamento si intende la condizione di sottomissione e soggezione psicologica; per omertà si intende il rifiuto di collaborare con lo Stato in ragione di una sfiducia verso lo stesso o il timore di ripercussioni non solo alla persona, come la paura di non poter più lavorare. G. Fornasari, D. Provolo, I reati contro l’ordine pubblico, Giappichelli Editore, 2017, pp. 76-77; Fiandaca, Musco, Diritto penale, Parte speciale, vol. 1, Zanichelli, Bologna, 2012, pp. 38 e ss .
[3] Cass. pen., Sez. II, 16 marzo 2020, cit., p. 64. Per un commento si veda C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, in Sist. Pen., 24 marzo 2020; E. Damante. Art. 416-bis c.p. e associazioni criminali “senza nome”: la Cassazione propone uno “screening di mafiosità” in riferimento al Clan Fasciani di Ostia, in Giurisprudenza Penale, n. 4/20
[4] C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, cit.
[5] I. Merenda- C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, in Dir. Pen. Cont., p. 9.
[6] C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, cit.
[7] Si pensi alla prassi “dilatatrice” finalizzata ad adattare la risposta penale all’evoluzione specifica che l’azione degli estremisti islamici ha assunto negli ultimi anni. In particolare, in numerose pronunce la Corte di cassazione ha ampliato il campo di applicazione della fattispecie partecipativa, valorizzando l’adesione psicologica al programma criminoso dell’associazione (Cass., sent. 46308 del 2012, Chabchoub, in italgiure.it). Da tale estensione si è avvertito un duplice rischio: da un lato, la difficoltà di un effettivo controllo giurisdizionale sulla concreta imprescindibile materialità della condotta e sull’incidenza causale del contributo del singolo rispetto alla realizzazione delle finalità perseguite dall’associazione; dall’altro, la possibile sovrapposizione o incertezza di confini tra partecipazione e altre condotte di agevolazione di cui agli articoli 270-ter e ss. c.p. e di concorso esterno ai sensi degli artt. 110 e 270-bis c.p. Sul punto, si veda L. D’agostino, I margini applicativi della condotta di partecipazione all’associazione terroristica: adesione psicologica e contributo causale all’esecuzione del programma criminoso, in Dir. Pen. Cont., n. 1/2017, pp. 85-86
[8] In tema di espansione della mafia calabrese nel nord Italia e sul ruolo svolto dai collaboratori di giustizia nella descrizione del processo delocalizzazione di alcune cellule anche in paesi stranieri si veda A. Balsamo, S. Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. Pen. Cont., 18 ottobre 2013, 1.
[9] Cass., sez. I, 10 febbraio 2012, n. 252418; Cass., sez. V, 7 maggio 2013, n. 28091 in italgiure.it.
[10] La pronuncia contrasterebbe con quell’impostazione secondo cui tra gli artt. 416 e 416-bis c.p. il secondo integra una norma specializzante, con un quid pluris che amplia il thema probandum e rende più complesso e difficile l’accertamento. Un maggior onere probatorio la cui ragione risiede nel maggior carico sanzionatorio dell’art. 416-bis e alle conseguenze speciali sul piano processuale e sanzionatorio. G. Insolera – T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, G. Editore, 2019, p. 75.
[11] I. Merenda- C. Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, cit., p. 10.
[12] La prima sezione penale, con ordinanza (ud. 15 marzo 2019), dep. 10 aprile 2019, n. 5768, aveva rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto in tema di associazioni di tipo mafioso: «se sia configurabile il reato di cui all’art. 416 -bis cod. pen. con riguardo a una articolazione periferica (cd. “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, anche in difetto della esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento». Con provvedimento del 17 luglio 2019, il Presidente Aggiunto Carcano, ai sensi dell’art. 172 disp. att. c.p.p., ha restituito gli atti alla prima sezione ritenendo che la giurisprudenza fosse convergente nel senso di ritenere che per integrare l’art. 416-bis c.p. occorre che il sodalizio sia in gradi di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non solo potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengono a contatto con i suoi componenti. Parimenti, anche la seconda sezione penale della Cassazione, con ordinanza n. 815/2015 ha invocato l’intervento delle Sezioni Unite, ma il Primo Presidente non ha dato seguito alla richiesta con provvedimento del 28 aprile 2015.
[13] La seconda sezione penale della Cassazione, con ordinanza, dep. 25 marzo 2015, n. 815 ha invocato l’intervento delle Sezioni Unite, ma il Primo Presidente non ha dato seguito alla richiesta con provvedimento del 28 aprile 2015. Sul tema si veda L. Ninni, Alle Sezioni Unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso con riguardo ad articolazioni periferiche di un sodalizio mafioso in aree “non tradizionali”, in Dir. Pen. Cont., 6 giugno 2019.
[14] V. Visconti, I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al Nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. Pen. Cont., 2015.
[15] Cass., Sez. V, sent. 21 luglio 2015 (ud. 03 marzo 2015) n. 31666, in italgiure.it.
[16] Cass., Sez. V, sent. 21 luglio 2015, cit. In tal senso si vedano anche Cass., sez. V, 21 luglio 2015, in CED Cass. n. 264471; Cass., sez. II, 4 marzo 2017, ivi, 270442.
[17] Per mafie “autoctone” si intende un insieme di organizzazioni criminali non operanti nelle regioni di origine delle mafie “tradizionali” né rappresentanti un’articolazione di queste ultime e, cionondimeno, replicanti i medesimi schemi di prevaricazione violenta. In tema si veda E. Mazzanatini, Il delitto di associazione di tipo mafioso alla prova delle organizzazioni criminali della “zona grigia”, Il caso di Mafia capitale, in archiviopenale.it, 2019, 3, 23 ss.
[18] Sulla pronuncia della Corte di Appello di Roma nel processo “Mafia Capitale” si veda E. Cipani, La pronuncia della Corte di Appello di Roma nel processo c.d. Mafia Capitale: la questione dell’applicabilità dell’art. 416-bis c.p. alle “Mafie atipiche”, in Dir. Pen. Cont., 14 maggio 2019.
[19] Cass., Sez. VI, sent. 10 aprile - 9 giugno 2015, n. 24535 e Cass., Sez. VI, 10 aprile- 8 giugno, n. 24536, in Italgiure.it. In tema si veda la nota di C. Visconti, A Roma la mafia c’è. E si vede…, in Dir. Pen. Cont., 2015.
[20] Cass., Sez. VI, sent. 10 aprile - 9 giugno 2015, cit., p. 25.
[21] Cass. Sez. VI, 30.5.2001, n. 35914, in CED Cass. 221246.
[22] Cass., Sez. VI, sent. 10 aprile - 9 giugno 2015, n. 24535, cit. p. 25.
[23] Il cui fine, come noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, dell’art. 1 e 199 c.p. e dell’art. 25 Cost.. Per maggiori approfondimenti si veda G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale, parte generale, Zanichelli editore, 2018, pp. 118 e ss. E. Mezzetti, Diritto penale, Casi e materiali, Zanichelli editore, 2015, pp. 13 e ss.
[24] L. Fornari, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo di intimidazione” derivante da un contesto criminale?, cit. p. 26
[25] In tal senso si veda C. Visconti, A Roma la mafia c’è. E si vede…, cit., p. 5.
[26] Cass. Pen., Sez. II, 16 marzo 2020, cit., 65-66.
[27] Come si è affermato per il Clan Spada di Ostia Cass., Sez. 5, n. 44156 del 13/6/2018 italgiure.it.
[28] Sebbene, da un lato, la dottrina più recente ritenga che la fattispecie di cui all’art. 416-bis sia a “struttura mista” C. Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al Nord. Una sfida alla tenuta dell’art. 416-bis?, in Diritto penale contemporaneo, 2014, Riv. trim., 1/2015, 353 ss.; appare opportuno, dall’altro, segnalare un’impostazione più risalente secondo cui si ritiene superflua una tale distinzione tra modelli associativi G. Fiandaca, Commento all’art. 1 legge 13 settembre 1982 n. 646, in Legislazione penale, 1983, 261 ss.; sugli orientamenti giurisprudenziali in materia si veda anche G. De Francesco, Gli artt. 416, 416-bis, 416-ter, 417, 418 c.p., in G. Corso G Insolera – L. Stortoni. (A cura di), Mafia e criminalità organizzata, Torino, 1995, pp. 51 e ss..
[29] Particolarmente meritorio appare lo sforzo dei giudici di legittimità di conferire un’interpretazione dell’art. 416-bis c.p. in ossequio ai principi di tipicità proporzionalità ed offensività, Cass. pen., Sez. II, 16 marzo 2020, cit., pp. 68 e ss.
[30] L’orientamento si pone in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale, particolarmente dedita a scrutinare il profilo della proporzionalità della pena. In tal senso, si veda Corte cost., sent. n. 236 del 2016 e, in tema di sanzioni “punitive” la sentenza n. 112 del 2019.
[31] Ci si riferisce alla storica sentenza n. 96 del 1981 sul delitto di plagio in cui la Corte costituzionale dichiarò incostituzionale l’intera disposizione di cui all’art. 603 c.p. per difetto di determinatezza.
[32] Cass. Pen., Sez. II, 16 marzo 2020, cit., p. 67.
[33] Nonostante tale impostazione sia attualmente quella più accreditata, parte della dottrina ha mosso un’obiezione di carattere politico-criminale. In particolare, facendo leva sulla ratio della disposizione, si è sostenuto che la prova dell’esercizio effettivo e attuale dell’intimidazione finirebbe per circoscrivere eccessivamente l’ambito applicativo della stessa entro confini più ristretti della fattispecie associativa di cui all’art. 416 c.p. e sfuggirebbero dall’incriminazione proprio quei sodalizi mafiosi talmente forti e strutturati «da esprimere una carica intimidatrice per la loro sola esistenza, senza che se ne renda necessaria una sua estrinsecazione». Per un maggior approfondimento si veda G. Insolera – T. Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, cit., pp. 86-87.
[34] Cass. Pen., Sez. II, 16 marzo 2020, cit., 71.
[35] Ibidem, p. 72.
[36] Ibidem, p. 75.
[37] C. Visconti, “Non basta la parola mafia”: la Cassazione scolpisce il “fatto” da provare per un’applicazione ragionevole dell’art. 416 bis alle associazioni criminali autoctone, cit., definisce la pronuncia come un «vademecum».
[38] Orientamento secondo cui ai fini dell'integrazione della fattispecie è sempre necessario che l'associazione abbia in concreto conseguito nell'ambiente nel quale essa opera un'effettiva capacità di intimidazione, con la conseguenza che tale capacità deve avere una esteriorizzazione in forme di condotta positive. In tal senso, Cass., Sez. 1, n. 19141 del 2006, in CED Cass. 234403; Sez. 5, n. 25242 del 2011, ivi, 250704; Sez. 1, n. 13635 del 2012, ivi, 252358; Sez. 2, n. 31512 del 2012, ivi, 254031.
[39] Si ritiene, in particolare, che il metodo mafioso sussista anche «senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico)», ma può consistere anche nell’avvalimento «di quella forma di intimidazione - per certi aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall'accennato, dal sussurrato, dall'evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere». Così, Cass., Sez. II, 23 febbraio 2015, n. 15412, Agresta e altri italgiure.it.