La posizione dell´individuo nel diritto internazionale
Modifica pagina
Riccardo Samperi
La ricostruzione teorica della dottrina classica, aderente alla realtà giuridica del tempo, secondo la quale l’individuo sarebbe stato un mero “bene” di pertinenza statale, appare oggi superata. L’individuo, infatti, è un soggetto di diritto internazionale, seppur dotato di una soggettività più ristretta e limitata rispetto a quella degli Stati. Tale assunto è confermato da circostanze fattuali, che costituiscono indici rivelatori della parziale soggettività degli individui, ossia: a) il moltiplicarsi di trattati internazionali, sia universali che regionali, a tutela dei diritti umani; b) il riconoscimento, da parte della giurisprudenza internazionale, della titolarità di diritti immediatamente esercitabili dagli individui nei confronti degli Stati; c) il riconoscimento di una responsabilità, personale e diretta, in capo agli individui in caso di commissione di gravi crimini internazionali.
Sommario: 1. La dottrina “classica”: l’individuo quale mero “oggetto” o beneficiario indiretto di norme internazionali. – 2. La posizione dell’individuo nel diritto internazionale pattizio di carattere universale. – 3. La tutela dei diritti umani nelle convenzioni internazionali di carattere regionale. – 4. Il contributo della Corte internazionale di giustizia al riconoscimento di una parziale soggettività agli individui. – 5. Soggettività giuridica degli individui e giurisdizione penale internazionale. – 6. L’invidiabile posizione degli individui nel quadro normativo dell’Unione europea. – 7. Considerazioni conclusive.
1. La dottrina “classica”: l’individuo quale mero “oggetto” o beneficiario indiretto di norme internazionali
Il diritto internazionale, a differenza di quello interno, non è prodotto da un’ autorità giuridica sovraordinata rispetto ai destinatari (il Parlamento negli ordinamenti di civil law, la giurisprudenza in quelli di common law), ma proviene dai suoi stessi destinatari: gli Stati, enti “superiorem non reconoscentes”, posti su un piano di (formale) parità giuridica[1].
Si tratta, quindi, di un ordinamento costruito su una base volontaristica, le cui norme assumono la forma di consuetudini o trattati internazionali. Le prime vincolano la totalità degli Stati; le norme pattizie, invece, vincolano soltanto gli Stati parti del trattato (salvo che – come spesso accade – il contenuto del trattato coincida con consuetudini internazionali vincolanti erga omnes).
Soggetti di diritto internazionale sono, per antonomasia, gli Stati[2]. Oltre ad essi, sono dotati di soggettività internazionale anche altri enti, come le Organizzazioni internazionali[3], la Palestina[4], la Santa Sede[5] e, secondo alcuni autori, ma l’opinione non è pacifica, il Sovrano Ordine militare di Malta[6].
La dottrina tradizionale escludeva che gli individui, in quanto tali, fossero dotati di soggettività giuridica sul piano internazionale, e ciò perché:
- essi non prendono parte al procedimento di formazione delle norme internazionali, siano esse consuetudinarie o pattizie;
- a differenza degli Stati, non possono agire personalmente a tutela dei propri diritti (sia in via di autotutela che davanti a tribunali internazionali)[7].
In sostanza, gli individui sarebbero stati meri “oggetti” o, al più, meri beneficiari indiretti delle norme internazionali[8]. Per usare le parole di Santi Romano, «essendo la Comunità internazionale […] una comunità paritaria, fondata sul principio dell’indipendenza e dell’uguaglianza dei suoi membri, ne rimangono esclusi coloro che, per vincoli di subordinazione verso altri enti, non potrebbero in essa assumere una certa posizione di autonomia, che è altresì necessaria perché il mantenimento dei loro impegni non sia impedito da una volontà estranea. In altri termini, le persone internazionali sono sempre, per usare un’espressione del linguaggio diplomatico, delle Potenze»[9].
Si tratta di una teoria sviluppatasi tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, quando gli Stati, assoluti o totalitari, avevano un potere sostanzialmente illimitato sugli individui, che non erano “cittadini”, ma “sudditi”.
Al tempo, gli Stati creavano norme giuridiche vincolanti solo per disciplinare interessi propri, per lo più politici, economici e militari. Inizialmente, i Trattati avevano ad oggetto materie quali guerra, pace, rapporti economici; tutte questioni, insomma, molto eterogenee tra loro, ma accomunate dal profondo disinteresse dei governanti verso l’individuo.
Dunque, la teoria elaborata dalla dottrina tradizionale è comprensibile (e anche condivisibile) soltanto se inquadrata nel contesto storico di riferimento. Gli autori classici non hanno fatto altro che “fotografare” la realtà giuridica internazionale nella quale vivevano; ed effettivamente, in quel contesto, gli individui erano condannati all’irrilevanza sul piano del diritto internazionale.
Bisogna, tuttavia, prendere atto del profondo cambiamento intervenuto iniziato dalla seconda metà del XX secolo. Dopo l’abominio della Seconda Guerra mondiale, infatti, la società civile ha gradualmente acquisito consapevolezza del proprio ruolo (quantomeno nel “blocco occidentale”) e a fare pressione sul mondo politico, rivendicando i propri diritti.
Non a caso, è proprio in questa fase storica che si afferma la “dottrina dei diritti umani”, che ha profondamente inciso sul contenuto dei trattati internazionali, i quali hanno, così, iniziato ad occuparsi di diritti umani, oltre che di interessi prettamente statali[10].
Per tali ragioni, la ricostruzione teorica della dottrina classica, aderente alla realtà giuridica del tempo, appare oggi superata. L’individuo, quindi, oggi è un soggetto di diritto internazionale, seppur dotato di una soggettività più ristretta e limitata rispetto a quella degli Stati.
Tale assunto è confermato da circostanze fattuali, che costituiscono indici rivelatori della parziale soggettività degli individui, ossia: a) il moltiplicarsi di trattati internazionali, sia universali che regionali, a tutela dei diritti umani; b) il riconoscimento, da parte della giurisprudenza internazionale, della titolarità di diritti immediatamente esercitabili dagli individui nei confronti degli Stati; c) il riconoscimento di una responsabilità, personale e diretta, in capo agli individui in caso di commissione di gravi crimini internazionali[11].
2. La posizione dell’individuo nel diritto internazionale pattizio di carattere universale
È opportuno menzionare, in via puramente esemplificativa e senza alcuna pretesa di esaustività, le più importanti convenzioni internazionali che hanno ad oggetto o che fanno menzione degli individui e dei loro diritti fondamentali. Tali fonti, infatti, possono essere considerate indici rivelatori di una parziale soggettività internazionale in capo agli individui.
Dal punto di vista cronologico, il primo di tali accordi è la Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1946, che ha dato vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), il cui scopo principale è la risoluzione pacifica delle controversie tra Stati[12].
L’analisi si limita alle parti dello Statuto che testimoniano una maggiore attenzione da parte degli Stati nei confronti dei propri cittadini: a tale scopo essi sono disposti a sacrificare gli orgogli nazionalistici e sforzarsi di cooperare al per «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», «decisi a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne», come affermato nelle clausole preambolari della Carta.
Altro importante pregio della Carta è l’istituzione del Consiglio di Sicurezza (articolo 7)[13], le cui decisioni, a differenza delle risoluzioni dell’Assemblea Generale, sono vincolanti per gli Stati membri e sono state adottate non soltanto in caso di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, ma anche, più raramente, per contrastare violazioni dei diritti umani[14].
La Carta assume rilievo per una duplice ragione: innanzitutto testimonia la crescente attenzione degli Stati nei confronti degli individui (preambolo), in secondo luogo, legittimando l’Organizzazione all’uso della forza, le fornisce (almeno in teoria) i mezzi per assicurare una tutela effettiva dei diritti umani.
In seno all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948 è stata adottata la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, la quale costituisce un atto di soft law, di per sé non vincolante, anche se ormai la tutela dei diritti umani ha assunto il rango di norma consuetudinaria vincolante nei confronti di tutti gli Stati[15].
Non è la Dichiarazione in sé a vincolare gli Stati, ma la consuetudine di cui essa costituisce espressione. Nel preambolo, oltre a ribadire la necessità di promuovere rapporti pacifici tra le Nazioni (così come sancito nella Carta delle Nazioni Unite), si afferma altresì che il riconoscimento della dignità a tutti i membri della “famiglia umana” costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo[16].
La Dichiarazione ha dato notevole impulso allo sviluppo della dottrina dei diritti umani, in qualche modo “internazionalizzando” un embrione di Costituzione globale[17].
Con l’evoluzione della coscienza sociale, si è affermata la necessità di una maggiore tutela per determinate categorie di soggetti, in particolare donne[18], bambini, anziani e persone con disabilità[19].
Altra importante testimonianza del crescente rilievo assunto dagli individui è il Patto per i diritti civili e politici[20], concluso a New York il 16 dicembre 1966, che attribuisce agli individui diritti (autodeterminazione, vita, partecipazione politica) e libertà (di pensiero, di religione, di coscienza, di parola, di associazione, di stampa e di riunione).
La disciplina sostanziale è completata dal Protocollo facoltativo, anch’esso adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 a New York, che ha introdotto un meccanismo di tutela di carattere procedurale. Gli individui che ritengono che un loro diritto, tutelato dal Patto, sia stato violato possono sottoporre all’esame di un Comitato[21] una comunicazione scritta, previo esaurimento dei mezzi di tutela interni.
Tale organo rimette la comunicazione all’attenzione dello Stato coinvolto, il quale potrà, entro il termine di sei mesi dalla comunicazione, formulare delle spiegazioni o porre rimedio alla criticità evidenziata. Il vulnus della disciplina sta nell’assenza di qualsivoglia forma di coercizione nei confronti dello Stato responsabile. La previsione di tali meccanismi di tutela, per quanto talvolta ineffettivi, testimonia la crescente sensibilità statale verso le istanze individuali e di conseguenza la tendenza del diritto internazionale a riconoscere agli individui una parziale soggettività.
3. La tutela dei diritti umani nelle convenzioni internazionali di carattere regionale
Alcuni Trattati a tutela dei diritti umani sono stati adottati a livello regionale da Stati che condividono tradizioni giuridiche simili[22].
La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, adottata il 4 novembre 1950 in seno al Consiglio d’Europa, sancisce a carico degli Stati parte l’obbligo di rispettare i diritti tutelati dalla Convenzione (art. 1), in particolare diritto alla vita (art. 2), ad un equo processo (art. 6), al matrimonio (art. 12) e ad un ricorso effettivo (art. 13).
Malgrado l’indubbia bontà delle intenzioni, suddetta Convenzione, al pari della quasi totalità degli strumenti giuridici internazionali, aveva un peccato originale: nella prima formulazione, infatti, non erano previsti strumenti di attuazione coercitiva nei confronti degli Stati. A tale vulnus ha posto rimedio il Protocollo aggiunto n. 11 del 1994, in virtù del quale la Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere stato vittima di una violazione dei diritti riconosciuti nella Convenzione, previo esaurimento delle vie di ricorso interne ed entro sei mesi. La sentenza definitiva è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione. Se il Comitato ritiene che uno Stato rifiuti di conformarsi alla sentenza definitiva, può, dopo aver messo in mora tale Parte e con voto a maggioranza dei due terzi, adire la Corte sulla questione dell’adempimento.
Ad onor del vero, bisogna ammettere che la tutela particolarmente evoluta assicurata ai cittadini europei dalla CEDU costituisce ancora un’eccezione nel panorama processuale internazionale.
Nel continente africano, ad esempio, lo standard di tutela dei diritti umani è decisamente inferiore rispetto all’Europa, tuttavia sono riscontrabili segnali incoraggianti nella Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata a Nairobi il 27 giugno 1981[23].
La peculiarità di questo trattato sta nel fatto che esso tutela non soltanto gli individui (a cui tuttavia, riconosce una gamma di diritti e libertà ben più embrionale rispetto a quanto previsto dalla Cedu), bensì anche i popoli. Questa scelta trova la propria giustificazione nei genocidi che hanno insanguinato il continente: più avanti si parlerà, in proposito, del Tribunale per i crimini commessi in Ruanda. Emblematico è il fatto che a tutti i popoli venga riconosciuto il diritto all’esistenza (art. 20), diritto che in altre parti del mondo non ha bisogno di formale riconoscimento per essere garantito.
In materia di diritti umani, la Carta prevedeva l’istituzione di un organo politico, la Commissione, che svolge una funzione di controllo e supervisione della condotta degli Stati rispetto agli obblighi previsti dalla Carta stessa. A differenza delle Carte dei diritti adottate in Europa e in America latina (su cui infra), la Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli non prevedeva l’istituzione di un organo giurisdizionale con il compito di assicurare il rispetto dei diritti: la Corte africana, infatti, è stata creata con un Protocollo ad hoc, adottato a Ouagadougou (Burkina Faso) nel 1998 ed entrato in vigore il 25 gennaio 2004[24].
Gli individui possono svolgere la funzione di osservatore presso la Commissione Africana sui diritti umani e dei popoli; in tal caso essi avranno facoltà di adire direttamente la Corte, ma solo nel caso in cui gli Stati abbiano esplicitamente dichiarato di accettare la giurisdizione. In tutti gli altri casi, la Corte può essere adita esclusivamente da: a) Commissione; b) Stati parte del Protocollo; 3) Organizzazioni non governative[25].
«La Corte emette sentenze vincolanti su casi di violazione dei diritti umani e dei popoli così come sanciti dalla Carta africana e ordina rimedi, riparazioni e, ove necessario, misure provvisorie. A differenza della Commissione, che ha una mera funzione di controllo e supervisione della condotta degli Stati rispetto agli obblighi previsti dalla Carta stessa, la Corte tiene vere e proprie udienze pubbliche, al termine delle quali pronuncia le sentenze. […] Le sentenze della Corte sono definitive e gli Stati che hanno ratificato il Protocollo hanno l’obbligo di eseguirle. La funzione di controllo sull’esecuzione delle sentenze della Corte è esercitata dal Consiglio esecutivo dell’Unione Africana. Nel caso in cui le sentenze non siano eseguite, è previsto, in ultima istanza, che l’Assemblea dell’UA possa imporre delle sanzioni nei confronti degli Stati inadempienti. […] Su richiesta di uno Stato membro dell’Unione Africana, uno dei suoi organi o una qualsiasi organizzazione africana che abbia ottenuto status di osservatore presso l’Unione Africana, la Corte può emettere opinioni consultive su qualsiasi questione giuridica riguardante la Carta o ogni altro strumento in materia di diritti umani, a condizione che il contenuto del parere non si riferisca ad una materia oggetto di esame corrente da parte della Commissione»[26].
I rapporti tra Corte e Commissione sono ispirati al principio di complementarità, come dimostra il riconoscimento, da parte del Protocollo del 1998, della legittimazione processuale in favore della Commissione[27].
L’adozione della Carta e l’entrata in funzione della Corte africana rappresentano un importante progresso nella tutela dell’individuo nel continente africano, sebbene la situazione dei diritti umani in molti paesi del continente rimanga ancora piuttosto allarmante.
Nel continente americano, la tutela dei diritti umani è affidata alla Corte interamericana dei diritti umani, creata sulla base dell'art. 33 della Convenzione americana sui diritti umani, adottata al termine della Conferenza interamericana dei diritti umani, riunitasi a San José de Costa Rica il 22 novembre 1969[28].
La Convenzione, entrata in vigore nel luglio 1978, è basata sul dualismo Commissione – Corte e gli individui possono rivolgersi in via diretta soltanto alla prima[29].
La Commissione interamericana è un organo politico indipendente dell'Organizzazione degli Stati Americani (OSA), creato nel 1959 allo scopo di promuovere il rispetto dei diritti umani in tutti gli Stati membri[30].
Le funzioni della Commissione possono essere distinte in quelle intese alla promozione dei diritti umani e quelle che hanno lo scopo di sorvegliare il rispetto dei diritti umani. Essa è competente a ricevere petizioni riguardanti i diritti tutelati nella Carta da parte dei privati cittadini, secondo due diverse procedure: quella generale, che si applica ai soli Stati membri della Convenzione, nella quale non vige la condizione del previo esaurimento dei ricorsi interni, e quella individuale, che si applica a tutti gli Stati, in cui invece occorre avvalersi prima di tutti i rimedi interni eventualmente previsti[31].
«La Corte ha fondamentalmente due funzioni, una contenziosa e una consultiva […]. La funzione contenziosa è il meccanismo attraverso cui la Corte determina se uno Stato è incorso in responsabilità internazionale per aver violato alcuni dei diritti sanciti nella Convenzione americana dei diritti umani. Solo gli Stati parte e la Commissione possono presentare un caso alla Corte. […] La funzione consultiva, invece, è lo strumento attraverso cui la Corte dà opinioni su questioni poste dagli Stati membri dell’OSA o dagli organi dell’organizzazione. […] Infine, la Corte può adottare le misure provvisorie che considera adeguate in casi di estrema gravità e urgenza e quando è necessario prevenire danni irreparabili alle persone. Ciò può avvenire, su richiesta della Commissione interamericana, sia in casi che sono già a conoscenza della Corte, sia in casi che nessuno ha ancora presentato. La Corte interamericana dunque non è competente ad esaminare le petizioni presentate da individui e organizzazioni poiché queste vanno presentate alla Commissione, che è l’organo incaricato di ricevere e valutare le denunce fatte dagli individui in merito a violazioni dei diritti umani commesse da uno degli Stati parte»[32].
Le pronunce della Corte hanno contribuito notevolmente allo sviluppo della tutela dei diritti umani nel continente sudamericano. L’auspicio è che venga riconosciuto anche agli individui il diritto di accedere direttamente alla Corte, in modo da assicurare una maggiore effettività della tutela.
Le Carte dei diritti adottate a livello regionale sono parecchio eterogenee tra loro, passando da uno standard di tutela decisamente elevato (CEDU) a uno sicuramente più basso (Carta africana), passando per un livello intermedio (Carta interamericana), mentre per quanto riguarda la tutela giurisdizionale, la Carta africana, consentendo l’accesso diretto alla giustizia da parte degli individui (sebbene a condizione che la giurisdizione della Corte sia stata previamente accettata dagli Stati), risulta più evoluta rispetto a quella interamericana, dove ai cittadini è riconosciuto un mero diritto di petizione rivolto alla Commissione.
Bisogna, tuttavia, tenere presente che il riconoscimento della qualità di parte processuale non è elemento costitutivo della soggettività giuridica dell’individuo sul piano internazionale. I due concetti si pongono su livelli diversi: sostanziale la soggettività, che consiste nella idoneità dell’individuo ad essere astrattamente titolare di diritti e destinatario di obblighi; processuale la qualità di parte, che invece è la possibilità, riconosciuta non a tutti i soggetti giuridici, di agire in giudizio per far valere le proprie pretese. Sia gli individui che gli Stati sono, quindi, soggetti internazionali, sebbene l’ampiezza delle rispettive soggettività sia diversa, più ristretta per gli individui, piena per gli Stati.
Gli Stati possono sempre essere parti in un processo internazionale, gli individui più raramente, poiché devono essere rispettate talune condizioni oppure perché è negato loro l’accesso diretto alla giustizia davanti ad alcuni Tribunali internazionali (CIG e Corte interamericana), ma questo non inficia la loro parziale soggettività internazionale, proprio come, negli ordinamenti nazionali, l’impossibilità di agire personalmente in giudizio non esclude la soggettività giuridica dei minori di età.
4. Il contributo della Corte internazionale di giustizia al riconoscimento di una parziale soggettività agli individui
Nel Caso LaGrand (Germania c. Stati Uniti), la CIG ha affermato la diretta titolarità in capo agli individui di diritti contenuti all’interno di una convenzione internazionale e l’autonomia della loro posizione giuridica rispetto a quella dello Stato di appartenenza (in questo caso la Germania).
Il 2 marzo 1999, la Germania aveva adito la Corte Internazionale di Giustizia, instaurando un procedimento contro gli Stati Uniti per presunte violazioni della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963, in ragione del trattamento a cui erano stati sottoposti due suoi cittadini, i fratelli Karl e Walter LaGrand (arresto, detenzione, processo, condanna a morte ed esecuzione della sentenza).
Il 7 gennaio 1982, i due erano stati tratti in arresto per tentata rapina a mano armata in una banca di Marana, in Arizona, durante la quale il direttore aveva perso la vita ed un impiegato era stato ferito gravemente. Il 14 febbraio 1984 venivano quindi incriminati per omicidio, tentato omicidio e tentata rapina a mano armata, in seguito processati davanti al Tribunale della Contea di Pima (Arizona). Il 14 dicembre dello stesso anno venivano condannati a morte per il primo capo di imputazione e all’ergastolo per gli altri.
All’epoca dei fatti, sia la Germania che gli Stati Uniti erano parti della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari e del relativo Protocollo addizionale. È fatto non contestato che le autorità americane, anche dopo essere venute a conoscenza che i LaGrand non erano cittadini americani bensì tedeschi, non li avevano informati del diritto all’assistenza consolare, né avevano comunicato al consolato tedesco il loro arresto, in tal modo violando l’obbligo internazionale nei confronti della Germania, sancito dall’art. 36 della Convenzione.
Nelle memorie, il governo tedesco aveva affermato che gli Stati Uniti avevano violato i diritti di protezione ed assistenza consolare di cui i LaGrand godevano in virtù dell’art. 36, comma 1, lett. b), della Convenzione, non informandoli tempestivamente, dopo essere venuti a conoscenza della cittadinanza tedesca, che avevano il diritto di chiedere assistenza consolare della Germania.
Nelle contro memorie, il governo statunitense aveva riconosciuto che il non aver tempestivamente informato i LaGrand del loro diritto alla protezione consolare, previsto dall’art. 36 della Convenzione di Vienna, aveva costituito una violazione dell’obbligo internazionale nei confronti della Germania, contestando, però, che tale norma fosse idonea a fondare un diritto soggettivo direttamente in capo ai singoli individui.
Al riguardo, invece, la Germania sottolineava che l’art. 36 attribuiva un diritto non soltanto allo stato di nazionalità, bensì, individualmente, anche ai suoi cittadini, ritenendo tale interpretazione corroborata dai lavori preparatori alla Convenzione e dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti degli individui non cittadini dello stato in cui vivono, adottata dall’assemblea Generale con risoluzione 40/144 del 13 dicembre 1985.
Gli Stati Uniti contestavano l’interpretazione dell’art. 36 fornita dalla Germania, affermando che, a loro giudizio, tale norma avrebbe attribuito un diritto esclusivamente agli Stati e non anche agli individui: sebbene questi ultimi fossero i diretti beneficiari dell’assistenza consolare, non sarebbero stati, secondo tale opinione, titolari di alcun diritto individuale e non avrebbero, quindi, potuto pretendere alcunché.
Alla fine, la Corte, considerando che l’art. 36 impone allo Stato di detenzione precisi obblighi nei confronti sia dello Stato di nazionalità che del cittadino, affermò che la suddetta norma sanciva diritti individuali e che questi potevano essere fatti valere dinnanzi ad essa dallo Stato di nazionalità. L’art. 36, quindi, non si limita a riconoscere agli individui i diritti di cui questi possono godere all’interno dello Stato ricevente secondo le sue leggi, bensì crea diritti individuali nuovi che possono essere esercitati direttamente anche nei confronti di suddetto stato.
Per questi motivi, con quattordici voti contro uno, la Corte ha dichiarato che gli Stati Uniti, non comunicando ai LaGrand il loro diritto all’assistenza consolare di cui all’art. 36, comma 1, lett. b), della Convenzione di Vienna avevano violato sia i loro diritti individuali, sia l’obbligo di comunicazione alla Germania.
L’importanza di questa sentenza si rinviene nel riconoscimento da parte della Corte della autonoma titolarità di diritti da parte degli individui, attribuiti loro da una Convenzione internazionale ed esercitabili direttamente ed autonomamente senza la necessità della protezione diplomatica dello Stato di nazionalità[33].
A considerazioni sostanzialmente analoghe la Corte perviene nel Caso Avena (Messico c. Stati Uniti), affermando che gli Stati Uniti, non concedendo il diritto all'assistenza consolare a 52 imputati messicani condannati a morte a seguito di procedimenti penali, avevano violato la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 e, pertanto, erano tenuti ad assicurare adeguata riparazione all'illecito, ossia sottoporre a revisione le sentenze di condanna a morte, non ancora eseguite al momento della pronuncia.
L’interpretazione secondo cui l’articolo 36 attribuisce agli individui diritti immediatamente esercitabili nei confronti degli Stati è stata ribadita nel più recente caso Jadhav (India c. Pakistan) del 2018.
L’imputato, cittadino indiano condannato a morte in Pakistan, era stato accusato di crimini di spionaggio. La peculiarità del caso sta nel fatto che il Pakistan non contesta la titolarità del diritto soggettivo da parte dell’individuo coinvolto, ma eccepisce l’inapplicabilità dell’art. 36 della Convenzione nel caso di crimini di spionaggio.
Sul punto, la Corte, accogliendo le osservazioni dell’India, ha evidenziato che non esiste alcuna norma internazionale, consuetudinaria o pattizia, che esclude l’ambito di operatività dell’articolo 36 della Convenzione nel caso di crimini di spionaggio. Per tale ragione, il diritto all’assistenza consolare non viene intaccato dal tipo di reato contestato all’imputato[34].
5. Soggettività giuridica degli individui e giurisdizione penale internazionale
L’entrata in vigore dello Statuto della Corte Penale Internazionale nel 1998 e l’affermazione della responsabilità penale individuale a livello internazionale costituiscono una ulteriore argomentazione a favore della tesi secondo cui gli individui siano dei soggetti internazionali.
Per diritto penale internazionale si intende quell’insieme di norme che sanzionano i crimini internazionali degli individui, come ad esempio quelli contro la pace, contro l’umanità, di guerra e genocidi. Quando un individuo commette un così riprovevole atto, ne risponde personalmente; in altre parole, vi è la presunzione assoluta che egli non stia agendo quale organo dello Stato di nazionalità, bensì a titolo personale.
I crimini internazionali, imputabili esclusivamente agli individui, vanno tenuti distinti dai delitti internazionali, come ad esempio l’uso della forza (vietato dall’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite), che sono invece imputati allo Stato e soltanto quest’ultimo sarà chiamato a risponderne. La differenza tra le due categorie di atti non è meramente terminologiche, ma ha rilevanti ricadute pratiche, innanzitutto per la determinazione della disciplina applicabile: nel caso dei crimini è responsabile solo l’individuo davanti alla Corte penale internazionale, dei delitti invece è chiamato a rispondere lo Stato davanti alla Corte internazionale di giustizia.
Le norme che disciplinano i regimi di responsabilità si differenziano nettamente: mentre l’individuo può essere sottoposto a reclusione, altrettanto non è possibile per uno Stato, che, in conseguenza della commissione dell’illecito internazionale (rientrante nella categoria dei delitti) sarà tenuto alla cessazione dell’illecito, all’obbligo di riparazione e potrà subire delle contromisure da parte dello Stato vittima (interruzione dei rapporti diplomatici, sanzioni economiche, sostegno a Stati ostili, ecc.), contromisure che, si intuisce, non sono utilizzabili nei confronti di un semplice individuo.
L’esistenza di una limitata soggettività internazionale degli individui è corroborata dalla istituzione di tribunali penali internazionali e dalla affermazione della responsabilità penale dell’individuo per crimini internazionali.
Il concetto di responsabilità penale internazionale degli individui risale al Patto di Londra dell’8 agosto 1945, stipulato dalle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, con cui venne istituito il Tribunale Militare Internazionale per processare i criminali nazisti.
La competenza del Tribunale è indicata dall’art. 6 del relativo Statuto in riferimento a crimini di guerra, contro la pace o l’umanità commessi da cittadini di paesi dell’Asse. La rescissione del nesso funzionale tra Stato e individui è testimoniata dall’art. 8, secondo cui il fatto che l’accusato avesse agito su istruzione dello Stato (vale a dire in esecuzione di ordini impartiti da superiori) non lo esonerava da responsabilità penale. Agli imputati veniva riconosciuto il diritto ad un equo processo (art. 16 Statuto) e il Tribunale, con sentenza motivata e definitiva, poteva infliggere la morte o ogni altra pena che esso ritenesse giusta (art. 27)[35].
Il Tribunale dichiarò di giudicare sulla base del diritto internazionale, poiché il suo Statuto non era «esercizio arbitrario di potere da parte delle nazioni vittoriose, ma espressione del diritto internazionale esistente al momento della sua creazione; e al riguardo è essa stessa un contributo al diritto internazionale». All’obiezione degli imputati «che il diritto internazionale riguarda le azioni degli Stati sovrani e non dispone alcuna pena per gli individui; e inoltre che, quando l’atto in questione è un atto dello Stato, coloro che lo compiono non sono personalmente responsabili, ma sono protetti dalla dottrina della sovranità dello Stato», il Tribunale rispose che «i crimini del diritto internazionale sono commessi da uomini e non da entità astratte, e le norme del diritto internazionale possono essere applicate solo punendo gli individui che commettono tali crimini»; inoltre «l’essenza stessa dello Statuto è che gli individui hanno obblighi internazionali che trascendono dagli obblighi nazionali di obbedienza imposti dal singolo Stato. Chi viola le leggi di guerra non può ottenere l’immunità perché abbia agito sulla base della autorità dello Stato, se lo Stato che autorizza l’atto va oltre la sua competenza secondo il diritto internazionale»[36].
La validità giuridica del processo è stata messa in dubbio in più occasioni da alcune importanti personalità. Tra questi vi era il giurista Hans Kelsen il quale, favorevole comunque allo svolgimento di un processo per punire i crimini nazisti, sollevò perplessità in ordine alla composizione della Corte: «possono esserci pochi dubbi che una corte internazionale sia molto più adatta per questo compito che una corte nazionale civile o militare. Solo una corte costituita da un trattato internazionale del quale non solo i vincitori ma anche gli stati sconfitti siano parti contraenti non incontrerà quelle difficoltà con cui dovrà confrontarsi una corte nazionale»[37].
In risposta, il professor Al Goodheart dell'Università di Oxford, ha rifiutato questo punto di vista scrivendo: «anche se questo argomento può suonare attraente in teoria, esso ignora il fatto che va contro l'amministrazione della legge di qualsiasi nazione. Se fosse vero, allora nessuna spia potrebbe avere un processo legale, perché il suo caso è sempre trattato da giudici che rappresentano la nazione nemica. Eppure nessuno in questi casi ha mai sostenuto che fosse necessario chiamare una giuria neutrale. I prigionieri avevano il diritto di chiedere che i loro giudici fossero equi, ma non che fossero neutrali. Come fece notare Lord Writ, lo stesso principio è applicabile alla legge criminale ordinaria perché “un ladro non può lamentarsi per essere giudicato da una giuria di cittadini onesti”»[38].
Altro importante contributo all’affermazione del principio della personalità della responsabilità penale internazionale è stato fornito dal Tribunale Penale Militare Internazionale per l’estremo Oriente, il cui Statuto, approvato il 19 gennaio 1946 con atto del comandante supremo delle forze alleate in Giappone (comandante Mac Arthur), contiene all’art. 5 (significativamente rubricato «Giurisdizione sulle persone e sui crimini») la definizione di tre diverse categorie di crimini internazionali individuali, le quali ricalcano essenzialmente quelle già contenute nello Statuto del Tribunale di Norimberga (crimini contro la pace, di guerra e contro l’umanità). Sia il processo di Norimberga che di Tokyo si conclusero con numerose condanne: il primo terminò con dodici condanne a morte per impiccagione (Göring, von Ribbentrop, Keitel, Kaltenbrunner, Rosenberg, Frank, Frick, Streicher, Sauckel, Jodl, Seyss – Inquart, Bormann), tre condanne all’ergastolo (Hess, Funk, Raeder), quattro condanne alla reclusione per venti (von Spirach, Speer), quindici (von Neurath) o dieci anni (Dönitz) e tre assoluzioni (Stacht, von Papen, Frizsche). All’esito del secondo vi furono sette condanne a morte, sedici all’ergastolo e due alla reclusione, rispettivamente per venti e sette anni. Come si nota non vi fu alcuna assoluzione[39].
L’affermazione della responsabilità penale internazionale degli individui è stata confermata dall’istituzione dei Tribunali penali internazionali ad hoc per la punizione dei responsabili dei crimini commessi nella ex Jugoslavia e in Ruanda.
Il primo è stato istituito con la Risoluzione 827 del 25 maggio 1993 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In base all’art. 1 del relativo Statuto, il Tribunale ha competenza per giudicare gli individui responsabili di violazioni serie (gross violations) di norme del diritto internazionale umanitario commesse a partire dal 1991 nel territorio dell’ex Jugoslavia. La competenza della Corte si estende ai crimini contro l’umanità, al genocidio e alle violazioni del diritto internazionale consuetudinario in tempo di guerra. La giurisdizione penale è esercitata nei confronti di persone fisiche (art. 6) individualmente responsabili dei crimini (art. 7); il fatto che una persona abbia agito in esecuzione di ordini statali non esclude la sua responsabilità, ma può, al massimo, influire sulla determinazione della pena.
Fra le garanzie procedurali individuali, lo Statuto prevede (art. 10) che nessuno può essere processato due volte per il medesimo fatto (ne bis in idem). All’imputato vengono inoltre riconosciuti espressamente (art. 21 e ss.) il diritto di essere giudicato in pubblica udienza, di essere giudicato in una lingua da esso conosciuta, con la possibilità e il tempo necessario di preparare le proprie difese. A differenza dei tribunali internazionali di Tokyo e Norimberga, quello per la ex Jugoslavia non può emettere pene capitali, ma soltanto alla reclusione.
Il Tribunale per i crimini commessi in Ruanda è stato istituito con la Risoluzione n. 955 del Consiglio di Sicurezza del 4 novembre 1994, con lo scopo di processare i responsabili del c.d. “genocidio ruandese”[40]. La popolazione ruandese è divisa in due etnie: Hutu (circa l‟80% della popolazione) e Tutsi (circa il 20%). L’art. 1 dello Statuto attribuisce al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda la competenza a giudicare le persone (a prescindere dalla nazionalità) responsabili di violazioni gravi del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio del Ruanda e i cittadini ruandesi che abbiano commesso simili violazioni nel territorio di Stati vicini. La competenza riguarda i crimini di genocidio (art. 2) e contro l’umanità (art. 3) commessi da persone fisiche (art. 5) individualmente, a prescindere dal fatto che il soggetto abbia agito in esecuzione di ordini superiori (art. 6). L’imputato ha il diritto di non essere processato due volte in relazione ai medesimi fatti (art. 9), di essere giudicato in pubblica udienza, di essere prontamente informato delle accuse a suo carico in lingua a lui comprensibile e di avere il tempo e i mezzi per esercitare effettivamente il proprio diritto di difesa (art. 20). Analogamente al Tribunale ad hoc per i crimini commessi nell’ex Jugoslavia, anche quello per il Ruanda non può emettere pene che vadano oltre la detenzione.
La Corte penale internazionale, a differenza dei due tribunali penali internazionali ad hoc, non è un organo delle Nazioni Unite, ma un organo giurisdizionale permanente (art. 1 Statuto) ed autonomo, dotato di personalità giuridica internazionale (art. 4), con il compito di giudicare gli individui che abbiano commesso crimini internazionali di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione (art. 5 e ss.)[41]. Tra i principi fondamentali dello Statuto della Corte a garanzia dell’imputato vi sono il ne bis in idem (art. 20) e il principio di legalità, sotto forma di nullum crimine e nulla poena sine lege (art. 22 – 23) e non retroattività delle norme penali (art. 24).
Ai fini della nostra indagine, sicuramente il più rilevante è l’art. 25, che sancisce a chiare lettere il principio della personalità della responsabilità penale internazionale: chiunque commette un reato sottoposto alla giurisdizione della Corte (crimine internazionale) è personalmente responsabile. Ai fini della configurazione dell’illecito occorre la consapevolezza dell’intento di commettere il reato (art. 25, lett. ii). Non è quindi punibile il soggetto infermo di mente, cioè privo della capacità di intendere e di volere (art. 31), né il minore di anni 18 (art. 26). Una persona fisica è penalmente responsabile ai sensi dello Statuto della Corte (art. 30) solo quando l’elemento materiale sia accompagnato da intenzione e consapevolezza sia del comportamento che delle ragionevoli conseguenze dello stesso[42].
6. L’invidiabile posizione degli individui nel quadro normativo dell’Unione europea
Le norme dell’Unione europea, in certi casi e a determinate condizioni, attribuiscono agli individui diritti immediatamente esercitabili (piano sostanziale) ed azionabili in giudizio (piano processuale) nei confronti degli Stati membri.
Ai sensi dell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, i regolamenti hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in tutti gli Stati membri.
La portata generale va intesa nel senso che il regolamento si rivolge indistintamente tanto agli Stati membri quanto ai singoli individui.
L’obbligatorietà in tutti i suoi elementi non consiste nella semplice vincolatività in ogni sua parte, dal momento che essa è caratteristica comune a tutti gli atti giuridici dell’Ue, ma nella idoneità del regolamento a dettare una disciplina potenzialmente esaustiva della materia di cui si occupa.
Infine, terza ed ultima caratteristica, essi sono direttamente applicabili. L’applicabilità diretta è una caratteristica intrinseca dei Regolamenti e si sostanzia nel fatto che essi non richiedono alcun atto di recepimento interno ai fini della loro applicazione. L’applicabilità diretta va distinta dalla efficacia diretta[43], che invece si ha quando la norma è chiara, precisa ed incondizionata. La diretta applicabilità è una caratteristica intrinseca della fonte normativa (i regolamenti sono direttamente applicabili, le direttive no), l’efficacia diretta è riferita, invece, alla norma giuridica in essa contenuta. Pertanto, potremo avere direttive self executing o autoesecutive (fonti non direttamente applicabili ai sensi dell’art. 288 TFUE) che, contenendo norme chiare, precise ed incondizionate, producono effetti diretti[44].
I Regolamenti, quindi, sono idonei ad attribuire in capo ai singoli cittadini diritti ed imporre loro obblighi, in maniera non meno vincolante che agli Stati.
Quanto alle direttive, l’art. 288, par. 3, del TFUE stabilisce che esse vincolano lo Stato membro a cui sono rivolte per quanto riguarda l’obiettivo da raggiungere, ma lo lasciano libero di stabilire forma e mezzi.
Le direttive si distinguono dai regolamenti perché non hanno portata generale, cioè non si rivolgono anche agli individui ma soltanto agli Stati membri; inoltre, esse non sono direttamente applicabili, ma devono essere recepite mediante un apposito atto di diritto interno, che può essere sia una legge (o un atto avente forza di legge) che un regolamento.
Infine, le direttive non sono obbligatorie in tutti i loro elementi, nel senso che, almeno di regola, non sono idonee a dettare una disciplina esaustiva della materia, ma hanno quale obiettivo esclusivamente l’armonizzazione delle legislazioni nazionali, lasciando gli Stati liberi di stabilire i mezzi e le forme per il raggiungimento di tale obiettivo.
Esiste una particolare categoria direttive dette self executing (o dettagliate o, ancora, autoesecutive), le quali contengono norme chiare, precise ed incondizionate e producono efficacia diretta negli Stati membri, senza la necessità di atti di recepimento, analogamente ai Regolamenti.
Rimane tuttavia sempre una differenza fondamentale tra Regolamenti e direttive: mentre i primi, ai sensi dell’art. 288 TFUE, sono direttamente applicabili (non necessitando di atti di recepimento da parte degli Stati membri) e si rivolgono tanto agli Stati quanto agli individui (dai quali possono essere sempre invocati, sia nelle controversie verticali, cioè contro gli Stati, che in quelle orizzontali, cioè con altri privati cittadini), le direttive possono produrre (quando contengono norme chiare, precise ed incondizionate) un’efficacia diretta limitata, cioè soltanto verticale (e sono, pertanto, invocabili da parte di un privato cittadino esclusivamente nelle controversie con lo Stato e non in quelle con altri privati cittadini, dal momento che, quantunque dettagliata, la direttiva può avere quale unico ed esclusivo destinatario lo Stato)[45].
Nel periodo di tempo intercorrente tra l’emanazione della direttiva e il suo recepimento da parte dello Stato membro a cui è rivolta, essa produce nei confronti di quest’ultimo l’effetto vincolante di stand still, cioè lo obbliga a non adottare atti normativi o amministrativi che possano pregiudicare o compromettere l’attuazione della direttiva[46].
L’art. 288 TFUE stabilisce che le decisioni sono, al pari dei Regolamenti, vincolanti in tutti i loro elementi. Le decisioni producono efficacia diretta (cioè contengono norme chiare, precise e condizionate), inoltre solitamente (ma non necessariamente) indicano il destinatario a cui si rivolgono (che potrà essere sia uno Stato che un individuo); in tal caso produrranno effetti diretti e saranno vincolanti solo nei confronti di quest’ultimo, ma non nei confronti di tutti gli altri soggetti (quindi, a differenza dei Regolamenti, non hanno portata generale). Se rivolte ad un individuo, quest’ultimo potrà invocare la decisione esclusivamente nell’ambito dei rapporti verticali con gli Stati coinvolti, cioè a cui la decisione si rivolge, ma non anche nei rapporti orizzontali, cioè con altri individui.
Con la sentenza Van Gend en Loos del 5 febbraio 1963, la Corte della Comunità europea (oggi Unione) ha stabilito che il diritto europeo non solo impone obblighi ai paesi della CE, ma attribuisce anche diritti ai singoli, invocabili dinanzi alle giurisdizioni nazionali ed europee. Non è, quindi, necessario che il paese dell'Ue recepisca la norma europea in questione nel proprio ordinamento giuridico interno[47].
L'efficacia diretta ha due aspetti: verticale e orizzontale. La prima si spiega nei rapporti tra i singoli e il paese: i singoli possono far valere una norma europea nei confronti del paese. La seconda si manifesta nei rapporti tra singoli, ossia consente a un singolo di invocare una norma europea nei confronti di un altro singolo.
A seconda del tipo di atto, la Corte di giustizia ha distinto tra efficacia diretta piena (orizzontale e verticale) ed efficacia diretta parziale (solo verticale).
Per quanto riguarda il diritto primario, ossia i Trattati istitutivi dell’Ue, la Corte di giustizia, nella sentenza Van Gend en Loos, ha sancito il principio dell'efficacia diretta piena, subordinandolo, tuttavia, alla condizione che gli obblighi fossero precisi, chiari e incondizionati e che non richiedessero misure complementari, di carattere nazionale o europeo.
Il principio dell’efficacia diretta riguarda anche gli atti di diritto derivato, ossia adottati dalle istituzioni sulla base dei trattati istitutivi. Tuttavia, la portata dell'efficacia diretta (e, dunque, la sua invocabilità davanti al giudice) varia a seconda del tipo di atto[48]: i regolamenti hanno sempre un’efficacia diretta. L’articolo 288 del trattato sul funzionamento dell’Ue precisa, infatti, afferma che i regolamenti sono direttamente applicabili nei paesi dell’Ue. La Corte di giustizia ha precisato che si tratta di un’efficacia diretta piena [49].
Al contrario, le direttive sono rivolte agli Stati, che devono recepirle; in linea generale, quindi, sono prive di efficacia diretta (e, come detto, l’unico effetto immediato che producono è quello di stand still). Esse, tuttavia, hanno efficacia diretta quando sono incondizionate e sufficientemente chiare e precise (e sempre che lo Stato non le abbiano tempestivamente recepite)[50], ma soltanto di carattere verticale, per cui sono invocabili dai privati contro lo Stato, ma non contro altri privati. Inoltre, il mancato recepimento della direttiva non può essere invocato dallo Stato, a sostegno delle proprie pretese, nelle controversie con i privati, per il principio nemini dolus suus prodesse debet (cioè nessuno può trarre vantaggio dal proprio illecito doloso)[51].
Le decisioni, infine, possono avere efficacia diretta quando designano uno Stato membro dell’Ue come destinatario. La Corte di giustizia ha, quindi, riconosciuto un’efficacia diretta solo verticale[52].
La dottrina degli effetti diretti, nata con la sentenza Van Gend en Loos, è stata elaborata inizialmente per risolvere il problema della produzione di effetti da parte di norme internazionali all’interno dei singoli ordinamenti nazionali. Tale teoria, in quanto attributiva di diritti[53] ed obblighi ai singoli individui, costituisce un ulteriore argomento a favore del riconoscimento di soggettività internazionale in capo a questi ultimi.
7. Considerazioni conclusive
Oggi è accolta una concezione realista della soggettività internazionale[54], che tende ad includere nel novero dei soggetti giuridici internazionali gli individui, dopo più di un secolo di incontrastato dominio della concezione statalista, secondo la quale soltanto gli Stati sarebbero stati aprioristicamente idonei a rivestire la qualifica di soggetto internazionale.
Tale opinione è confortata dalla proliferazione a livello internazionale di strumenti di tutela a favore degli individui (soggettività attiva), ai quali fa da contraltare l’obbligo degli Stati di rispettare i diritti umani, nonché dall’affermazione del principio della responsabilità internazionale personale per i crimini internazionali (soggettività passiva), risalente alla storica sentenza del 30 settembre 1946, con cui il Tribunale di Norimberga ritenne che «i crimini contro il diritto internazionale sono commessi da uomini, e non da entità astratte, e le norme di diritto internazionale possono essere applicate soltanto punendo gli individui che commettono il crimine; […] l’essenza stessa della Carta dell’ONU è che gli individui hanno obblighi internazionali che trascendono gli obblighi nazionali di obbedienza imposti dal singolo Stato. Chi viola la legge di guerra non può ottenere l’immunità perché abbia agito sulla base dell’autorità dello Stato, se lo Stato che autorizza l’atto va oltre la sua competenza secondo il diritto internazionale»[55].
Ulteriore argomentazione a sostegno del riconoscimento di una limitata soggettività internazionale agli individui è stata ritenuta l’istituzione dei tribunali internazionali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda e con l’entrata in vigore nel 2002 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, il quale, all’art. 25, riprendendo gli Statuti dei tribunali ad hoc, afferma il principio della responsabilità penale degli individui per i crimini internazionali[56].
Su tale scia si è mossa anche la Corte internazionale di giustizia nelle sentenze LaGrand, Avena e Jadhav, riconoscendo agli individui la titolarità di diritti direttamente esercitabili nei confronti degli Stati (in particolare il diritto all’assistenza consolare di cui all’art. 36 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari), indipendentemente dal diritto dello Stato di nazionalità di esercitare la protezione diplomatica in favore dei propri cittadini.
L’argomentazione che nega la soggettività dell’individuo sulla base della mancanza di un autonomo diritto di azione davanti alla Corte internazionale di giustizia non può essere condivisa in quanto l’idoneità a rivestire la qualità di parte processuale non è elemento costitutivo della soggettività giuridica: i due concetti, infatti, si pongono su due livelli diversi, processuale il primo e sostanziale il secondo. Il concetto di soggettività giuridica, inoltre, è più esteso rispetto a quello di parte processuale, dal momento che per essere parte in un processo occorre necessariamente essere soggetti di diritto, ma non tutti i soggetti giuridici sono concretamente in grado di agire a livello processuale e, quindi, di rivestire la qualità di parte all’interno di un processo (ad esempio il minore di età nel diritto interno).
Bisogna, poi, prendere atto della tendenza del diritto internazionale pattizio ad attribuire agli individui il potere di ricorrere direttamente ad organi giurisdizionali internazionali per far valere la lesione dei loro diritti da parte degli Stati: si pensi al Protocollo Addizionale alla CEDU, entrato in vigore nel novembre 1998, che ha attribuito il potere di iniziativa processuale ai singoli individui, esercitabile previo esaurimento di tutti i rimedi giurisdizionali interni. La competenza della Corte è ratione personae: possono esperire ricorso individuale tutti i soggetti che siano stati lesi in un diritto tutelato dalla Convenzione da uno Stato parte mentre erano sottoposti alla sua potestà d’imperio (a prescindere dal fatto che siano cittadini di uno Stato parte della Convenzione, di uno Stato non parte o apolidi).
Nell’ordinamento internazionale attuale, dunque, gli individui (persone fisiche e giuridiche) sono soggetti internazionali.
[1] C. Focarelli, Lezioni di storia del diritto internazionale, Perugia, 2005, 1.
[2] G. Arangio-Ruiz, Stati ed altri enti, in Novissimo Digesto italiano, XVIII, Torino, 1971, 132 e ss. Id. et alii, Soggettività nel diritto internazionale, in Digesto Discipline Pubblicistiche, XIV, Torino, 1999, 298 e ss. G. Sperduti, Sulla soggettività internazionale, in Rivista di diritto internazionale, 1972, 266 e ss. J. Crawford, The Criteria for Statehood in International Law, in M. Evans, P. Capps (a cura di), International Law, 2009, 3 e ss. R. Portman, Legal personality in International Law, Cambridge, 2010.
[3] Nel parere dell’11 aprile 1949, la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto all’ONU «the capacity to bring an international claim against the responsible de jure or de facto government with a view to obtaining the reparation due in respect of the damage caused to the United Nations, to the victim or to persons entitled through him», p. 14. Nel caso di specie, il conte Folke Bernadotte, mediatore delle Nazioni Unite incaricato di negoziare la pace tra Israele e gli Stati arabi, era stato ucciso a Gerusalemme e l’Organizzazione aveva accusato Israele di non avere adottato tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza di Bernadotte, contribuendo, così, alla sua morte. Sul punto,
[4] M. Longobardo, Lo Stato di Palestina: emersione fattuale e autodeterminazione dei popoli prima e dopo il riconoscimento dello status di Stato non membro delle Nazioni Unite, in M. Distefano (a cura di), Il principio di autodeterminazione dei popoli alla prova del nuovo millennio, Padova, 2014, 9-35. L. Prosperi, Ricevibilità ed efficacia giuridica della Dichiarazione di accettazione della giurisdizione della Corte penale internazionale da parte della Palestina, in Ordina internazionale e diritti umani, 2015, 337-357. M. Longobardo, La recente adesione palestinese alle convenzioni di diritto umanitario e ai principali trattati a tutela dei diritti dell’uomo, in Ordine internazionale e diritti umani, 2014, 771-781. Il 17 dicembre 2014, il Parlamento europeo ha approvato una Risoluzione sul riconoscimento dello Stato di Palestina.
[5] A.C Jemolo, La Santa Sede soggetto di diritto internazionale, in Rivista di diritto pubblico, 1925, I, 427 e ss.; Diritto internazionale, 1960, 144 e ss. G. Arangio-Ruiz, On the Nature of the Legal Personality of the Holy See, in Rev. Belge droit int., 1996, 354 e ss. I. Santus, Il contributo della Santa Sede al diritto internazionale. Dal diritto di ingerenza alla responsabilità di proteggere la dignità umana, Padova, 2012.
[6] G. Arangio-Ruiz, Stati ed altri enti, in Novissimo Digesto italiano, XVIII, Torino, 1971, 191 e ss. R. Monaco, Osservazioni sulla condizione giuridica internazionale dell’Ordine di Malta, in Rivista di diritto internazionale, 1981, 14 e ss. Nega tale soggettività B. Conforti, Sui privilegi e le immunità dell’Ordine di Malta, in Foro italiano, 1990, I, 2597 e ss. L’Ordine ha governato un tempo su Rodi e, fino alla fine del Settecento, su Malta; intrattiene rapporti diplomatici con molti Paesi e ha ottenuto la qualifica di osservatore alle Nazioni Unite. La sua attività principale ha carattere assistenziale, funzione nobile ma – secondo l’Autore – non tale da giustificare il possesso della personalità internazionale.
[7] Tuttavia, la situazione è profondamente mutata dopo la seconda guerra mondiale. Oggi, infatti, vi sono tribunali internazionali che ammettono ricorsi individuali (si pensi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e alla Corte di giustizia dell’Ue). F. Mastromartino, La soggettività degli individui nel diritto internazionale, in Diritto e questioni pubbliche, Palermo, n. 10/2010, 415-437.
[8] E. Cannizzaro, Corso di diritto internazionale, Torino, 2016, 329-330. R. Quadri, La sudditanza nel diritto internazionale, Padova, 1935, 58 e ss.
[9] S. Romano, Corso di diritto internazionale, Padova, 1939, 60. Quadri R., La sudditanza nel diritto internazionale, Padova, 1935, 58 e ss.
[10] A. Cassese, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 193 e ss. T. Treves, Diritto internazionale, Milano, 2005, 191 e ss. M. Franchi, I. Viarengo, Tutela internazionale dei diritti umani. Casi e materiali, Torino, 2017, 1 e ss. C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Torino, 2013, 1 e ss. C. Focarelli, La persona umana nel diritto internazionale, Bologna, 2013.
[11] F. Mastromartino, op. cit. C. Focarelli, Schemi delle lezioni di diritto internazionale, Perugia, 2003, 30. P. Bargiacchi, A. Sinagra, Lezioni di diritto internazionale pubblico, Milano, 2009, 91. A. Gioia, Diritto internazionale, Milano, 2010, 4. S. Marchisio, Corso di diritto internazionale, Torino, 2014, 281. R. Sapienza, Diritto internazionale, Torino, 2013, 51.
[12] B. Conforti, C. Focarelli, Le Nazioni Unite, Padova, 2012. A. De Guttry, F. Pagani, Le Nazioni Unite. Sviluppo e riforma del sistema di sicurezza collettiva, Bologna, 2005, 212 e ss. S. Marchisio, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, Bologna, 2012.
[13] P. Bargiacchi, La riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Milano, 2005.
[14] A. Ciampi, Sanzioni del Consiglio di Sicurezza e diritti umani, Milano, 2007, 156 - 163.
[15] Secondo alcuni autori, gli atti di soft law delle NU produrrebbero un “effetto di liceità”, in base al quale lo Stato che abbia tenuto una determinata condotta per uniformarsi e adeguarsi al contenuto di un atto di soft law va esente da responsabilità internazionale. Il rispetto dell’atto diverrebbe, quindi, una sorta di causa di giustificazione (o scriminante) idonea a escludere la responsabilità. In questo senso B. Conforti, Diritto Internazionale, Napoli, 2010, 161-163. Tale opinione non è condivisa da chi, invece, mette in luce che l’effetto di liceità non è stato inserito tra le cause di esclusione dell’illecito internazionale dal Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale del 2001, come A. Gioia, Diritto internazionale, Milano, 2010, 300.
[16] E. Alleva, I diritti umani a 40 anni dalla dichiarazione universale, Padova, 1989.
[17] E. Paciotti, Diritti umani e costituzionalismo globale, Roma, 2011.
[18] Si fa riferimento alla Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata in Italia con legge del 14 marzo 1985 n. 132.
[19] A tutela delle quali, è stata stipulata la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata a New York il 30 marzo 2007 e ratificata in Italia con legge del 3 marzo 2009 n.18
[20] F. Pocar, I. Viarengo, Il patto internazionale sui diritti civili e politici, Milano, 2004
[21] S. Angeletti, Libertà religiosa e patto internazionale sui diritti civili e politici. La prassi del comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Torino, 2009.
[22] L. Cappuccio, A. Lollini, P. Tanzarella, Le corti regionali tra stati e diritti. I sistemi di protezione dei diritti fondamentali europeo, americano e africano a controllo, Napoli, 2012.
[23] G. Pascale, La tutela internazionale dei diritti dell’uomo nel continente africano, Napoli, 2017, 27 e ss. D. Tega, Africa: la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli ha finalmente visto la luce. Un nuovo tassello nel sistema universale di protezione dei diritti, in www.forumcostituzionale.it. G. M. Palmieri, La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli e gli altri strumenti regionali di protezione dei diritti dell'uomo: profili comparatistici, in Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 57, No. 1, Gennaio - Marzo 1990, 61-73. G. Rossi, L' Africa verso l'unità (1945-2000). Dagli Stati indipendenti all'atto di unione di Lomé, Roma, 2010, 134 e ss. M. L. Lanza, La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, Centro di Ateneo per i diritti umani, Padova, 2018.
[24] F. Napolitano, La Corte africana dei diritti umani e dei popoli, Centro di Ateneo per i diritti umani, Padova, 2015.
[25] F. Napolitano, op. ult. cit.
[26] F. Napolitano, op. ult. cit. L. Mezzetti, C. Pizzolo, Diritto processuale dei diritti umani, Rimini, 2013, 75 e ss.
[27] G. Pascale, La Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli interviene nell’ambito dell’affare libico. Il principio di complementarità per la prima volta applicato nei rapporti tra Corte e Commissione africana, in Diritti comparati, 30 gennaio 2012.
[28] F. Napolitano, La Convenzione americana sui diritti umani, Centro di Ateneo per i diritti umani, Padova, 2012. C. Arroyo Landa, L. Cassetti, A. Di Stasi, Diritti e giurisprudenza. La corte interamericana dei diritti umani e la corte europea di Strasburgo, Napoli, 2014, 1 e ss. L. Mezzetti, C. Pizzolo, Diritto processuale dei diritti umani, Rimini, 2013, 209 e ss.
[29] F. Napolitano, op. ult. cit.
[30] F. Napolitano, La Commissione interamericana dei diritti umani, Centro di Ateneo per i diritti umani, Padova, 2012.
[31] F. Napolitano, op. ult. cit. L. Mezzetti, C. Pizzolo, op. cit., 75 e ss.
[32] F. Napolitano, La Corte interamericana dei diritti umani, Centro di Ateneo per i diritti umani, Padova, 2012. A. Di Stasi, Diritti e giurisprudenza. La corte interamericana dei diritti umani e la corte europea di Strasburgo, Napoli, 2014.
[33] R. Portmann, Legal Personality in International Law, Cambridge, 2010, 197. C.F. Amerasinghe, Jurisdiction of International Tribunals, Rotterdam, 2003, 350.
[34] R. Samperi, La tutela dello straniero nel processo penale: il diritto all’assistenza consolare, in Riv. Cammino Diritto, 18 settembre 2019.
[35] H. Ehard, The Nuremberg trial against the major war Criminals and International Law, in American Journal of International Law, Vol. 43, 1949, 223 e ss. D. Gallo, Nostalgia di Norimberga, in Questione Giustizia, 1992, n. 2. F.A. Marina, La punizione dei crimini di guerra come reati internazionali da parte delle Potenze Alleate, in Giustizia penale, 1947, 91 e ss.
[36] T. Treves, Diritto internazionale, Milano, 2005, 205 e ss.
[37] H. Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, 1944, 111.
[38] A.L. Goodheart, The Legality of the Nuremberg Trials, Judicial Review, 1946, 15 e ss.
[39] T. Treves, Diritto internazionale, Milano, 2005, 205-208.
[40] A. Cassese, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 202-204.
[41] A. Cassese, Diritto internazionale, Bologna, 2013, 202 e ss. T. Treves, Diritto internazionale, Milano, 2005, 208 e ss.
[42] B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 385 e ss.
[43] E. Cannizzaro, La dottrina degli effetti diretti in taluni dei suoi sviluppi più recenti, in M. Distefano (a cura di), L’effetto diretto delle fonti nell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea, Napoli, 2017, 12 e ss.
[44] R. Mastroianni, G. Strozzi, Diritto dell’Unione Europea, Torino, 2016, 287 e ss. G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2012, 139 e ss. P. Costanzo, L. Mezzetti, A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione Europea, Torino, 2014, 280 e ss. Il concetto di efficacia diretta ha subito dei profondi rivolgimenti: si prendano, ad esempio, il parere del 3 marzo 1928 della Corte Permanente di Giustizia Internazionale e la sentenza Van Gend en Loos del 5 febbraio 1963. Entrambe le pronunce contengono al loro interno il concetto di efficacia diretta, ma, mentre la prima nega che destinatari di tale efficacia possano essere, oltre agli Stati, anche gli individui, la seconda segna una importante sviluppo sul punto: affermando il primato del diritto comunitario (dopo il Trattato di Lisbona, europeo) su quello interno, stabilisce inequivocabilmente che destinatari diretti degli effetti prodotti dalle norme comunitarie sono sia gli Stati che gli individui.
[45] M. Distefano, L’effetto diretto delle fonti dell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea, Napoli, 2017. P Costanzo, L. Mezzetti, A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione Europea, Torino, 2014, 285 e ss.; G. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2012, 139 e ss. R. Mastroianni, G. Strozzi, Diritto dell’Unione Europea, Torino, 2016, 293 e ss.
[46] Cons. St., sent. n. 3621/2008, in tema di annullamento dell'atto amministrativo per violazione di legge, in quanto non conforme al diritto comunitario, ai sensi dell’art. 21-octies della L. 241/1990.
[47] P. Costanzo, L. Mezzetti, A. Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2014, 300-324.
[48] E. Cannizzaro, La dottrina degli effetti diretti in taluni dei suoi sviluppi più recenti, in M. Distefano (a cura di), L’effetto diretto delle fonti nell’ordinamento giuridico dell’Unione Europea, Napoli, 2017, 12 e ss.
[49] Corte Giust. Ue, sent. 14 dicembre 1971, Politi.
[50] Corte Giust. Ue, sent. 4 dicembre 1974, Van Duyn.
[51] Corte Giust. Ue, sent. 5 aprile 1979, Ratti.
[52] Corte Giust. Ue, sent. 10 novembre 1992, Hansa Fleisch, causa C-156/91.
[53] Immediatamente esercitabili, e azionabili giurisdizionalmente, al ricorrere delle summenzionate condizioni.
[54] G. Arangio-Ruiz, Dualism Revisited: International Law and Interindividual Law, in Rivista di diritto internazionale, 2003, 910 ss., 949 ss. T. Treves, Diritto internazionale, Milano, 2005, 51-52. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2014, 13 ss. N. Ronzitti, Introduzione al diritto internazionale, Torino, 2013, 20. A. Tanzi, Introduzione al diritto internazionale contemporaneo, Padova, 2013, 194.
[55] T. Treves, op. cit., 207.
[56] F. Mastromartino, La soggettività internazionale degli individui nel diritto internazionale, in Diritto e questioni pubbliche, n. 10/2010, 434.