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Pubbl. Lun, 4 Mag 2020

Sottrazione alla giurisdizione amministrativa dell´atto politico

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Federica Scordino



Nel parere del Consiglio di Stato n.2483/2019 si ribadisce il principio per cui ”per ravvisare il carattere politico di un atto, al fine di sottrarlo al sindacato del giudice, occorre che sia impossibile individuare un parametro giuridico (sia norme di legge, sia principi dell´ordinamento) sulla base del quale svolgere il sindacato giurisdizionale.”


Sommario: 1. I fondamenti normativi della giustizia amministrativa; 2. Definizione di “atto politico”; 3. Compatibilità dell’art. 7 c.p.a. con i principi costituzionali; 4. L’orientamento consolidatosi in giurisprudenza riportato nel parere del Consiglio di Stato; 5. Conclusioni del Consiglio di Stato.

1. I fondamenti normativi della giustizia amministrativa.

La Giustizia amministrativa svolge un ruolo fondamentale all’interno di uno stato di diritto, in quanto si fa portavoce di quell’orientamento liberalei che si era già sviluppato a fine ‘800 e che ha trovato un pieno riscontro soltanto con l’entrata in vigore della Costituzione. Uno stato di diritto si caratterizza, infatti, per il fatto di fornirsi di strumenti che siano in grado di garantire una tutela piena ed effettiva al singolo soggetto così come sancito nelle convenzioni internazionali ed europee. L’art. 1 del codice del processo amministrativo (c.p.a.) stabilisce, infatti, che: “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”.

I principi Costituzionali fanno allora da sfondo a un complesso sistema che, da un lato, vuole garantire una piena tutela al cittadino sulla base di un principio di parità tra la Pubblica Amministrazione e il singolo amministrato, dall’altro non esclude che in determinati casi si applichino dei regimi eccezionali, sui quali inevitabilmente si sono posti dei dubbi circa la loro legittimità in osservanza dei principi costituzionali.

Quando si parla di giurisdizione, è indispensabile partire dall’art. 24 Cost., il quale si pone come pilastro portante ma anche come criterio interpretativo di tutte quelle norme contenute nei codici di settore, e per quello che adesso ci interessa, nel codice del processo amministrativo. L’art. 24 Cost. stabilisce: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.

Questa norma, non soltanto si fa portavoce di uno storico cambiamento radicale rispetto a quello che era il contesto vigente ante Costituzione, ma si è sempre posta alla base di interpretazioni giurisprudenziali volte ad ampliare, quanto più possibile, il diritto alla tutela del singolo individuo.

La giurisprudenza ha cercato di raggiungere quest’ultimo obiettivo, naturalmente in riferimento alla giustizia amministrativa, in più modi ed in varie occasioni; ad esempio si potrebbe pensare alla pluralità di azioni oggi esperibili di fronte al giudice amministrativo e allo stesso tempo, all’estensione dei casi in cui tali azioni sono esperibili; proprio per questo il codice del processo amministrativo, oggi si pone come traguardo, o meglio come un risultato raggiunto dopo una serie di tentativi rivolti a garantire una tutela effettiva al singolo amministrato.

Non sono mancati, in dottrina, aperti dibattiti circa i casi di eccezionalità rispetto all’art. 24 Cost.; uno di questi è riportato nell’art. 66 Cost.ii il quale ha da sempre ricondotto alle Camere il potere dell’autodichia, o comunemente definita come “giurisdizione domestica”.

Infatti, guardando all’art. 24 Cost., con l’autodichia si andrebbe ad operare una deroga al principio generale del diritto dell’azione che spetta a tutti coloro che vedano ledere i propri diritti soggettivi o interessi legittimi. Questo dimostra quanto ampio e frastagliato risulti il nostro sistema normativo.

2. Definizione di “atto politico”

Solitamente un atto politico ha un contenuto abbastanza generico in quanto si pone l’obiettivo di perseguire delle finalità pubbliche, proprio per questo motivo, difficilmente può configurarsi come un atto lesivo di un singolo soggetto o, più precisamente, di un suo interesse legittimo; è molto più probabile, invece, che siano gli atti compiuti a valle, cioè i successivi atti di attuazione che potranno ledere la sfera giuridica del privato.

Nel corso del tempo sono maturati vari orientamenti ai fini di individuare i tratti distintivi di un “atto politico”: un primo orientamento riscontrava il carattere politico nello scopo perseguito dall’atto, ipotesi difficile da accettare, considerato il rischio di far scivolare l’attenzione dall’atto all’obiettivo perseguito; un secondo orientamento, in mancanza di una presa di posizione normativa, reputava opportuno individuare caso per caso il carattere politico di un atto; anche quest’ultima non è una tesi di facile accettazione in quanto porterebbe all’imprevedibilità e all’incertezza della tutela giurisdizionale alla quale, come si vedrà in seguito, l’atto politico sarebbe sottratto.

Un terzo orientamento, che sembra oggi quello consolidato in giurisprudenza e confermato dalla sentenza che esamineremo a breve, permette di identificare un atto politico in base alla sussistenza di due requisiti: uno oggettivo e l’altro soggettivo.

Quest’ultimo orientamento rende anche più agevole la distinzione tra atto politico e atto di alta amministrazione, infatti mentre il primo è un atto libero nei fini da perseguire, il secondo, che tra gli atti amministrativi è quello che si connota per maggiore discrezionalità, persegue solo ed esclusivamente fini di pubblica utilità, cioè di interessi pubblici individuati dalla legge.

3. Compatibilità dell’art. 7 c.p.a. con i principi costituzionali

Entrando nel merito della competenza del giudice amministrativo, la norma dalla quale bisogna partire è l’art. 7 c.p.a.iii, da cui si evince una sottrazione dei così detti atti politici alla giurisdizione amministrativa: “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico”.

La norma, se nella prima parte espone la regola generale che per contenuto riprende l’art. 103 Cost.iv, nella parte conclusiva del suo primo comma, esclude da tale giurisdizione gli atti o i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico: i così detti atti politici.

Gli atti politici, potendo inserirsi soltanto nella giurisdizione amministrativa, una volta esclusi, per rigore di logica sono sottratti a qualsiasi tutela giurisdizionale, ciò vuol dire che non è ammessa alcuna impugnazione di tali atti. Sussiste così un difetto assoluto di giurisdizione in quanto il legislatore esclude la possibilità che si possa chiedere tutela contro un atto politico. Questo è un inciso che ha creato non pochi dubbi giurisprudenziali circa la compatibilità di tale disposto, non soltanto con l’art. 24 Cost, ma tuttalpiù con l’art. 113 Cost. Quest’ultima norma così recita: “Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa.

Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti. La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”.

Spesso la dottrinav si è anche soffermata sulla parola “sempre” che il legislatore ha voluto appositamente inserire nella parte iniziale del testo con riferimento alla tutela dell’amministrato: dopo un’attenta lettura può dedursi che, effettivamente, la presenza o meno di questa parola (sempre) nel testo non ne cambia il significato, eppure il legislatore le ha attribuito un valore enfatico che riesce maggiormente a marcare il cambiamento segnato dalla nostra Costituzione rispetto ad un regime precedente che aveva soppresso qualsiasi diritto fondamentale.

L’art. 113 Cost. conferma il principio democratico circa il superamento della concezione dell’amministrazione come potere separato e con la conseguente esclusione, per quest’ultima, di qualsiasi privilegio processuale.

Se tutte le norme di settore vanno sempre lette e interpretate in modo conforme ai principi costituzionali, come verrebbe spiegata la sussistenza di due norme con contenuti apparentemente contrastanti? In realtà, la Corte costituzionale, ad oggi, non ha assunto alcuna posizione a sostegno di una (legittimità) o dell’altra (illegittimità) tesi, però la giurisprudenza, ha cercato di interpretare la definizione di “atto politico” nel modo più restrittivo possibile, cercando così di sottrarre alla giurisdizione amministrativa una quantità più ridotta di atti.

4. L’orientamento consolidatosi in giurisprudenza riportato nel parere del Consiglio di Stato

Il parere del Consiglio di Stato, n. 2483 del 2019, oggetto del presente commento, racchiude la consolidata tendenza volta ad assicurare quanto più possibile una tutela piena ed effettiva all’amministrato.

Nel caso di specie, il professore Ossola, precedentemente nominato console onorario della Repubblica d’Austria a Torino, impugnava con ricorso straordinario al Capo dello Stato il mancato rinnovo dell’exequatur per la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e del relativo atto conclusivo nonché lesivo per lo stesso ricorrente; quest’ultimo lamentava inoltre la mancata conoscenza delle ragioni e del contenuto del provvedimento di diniego.

Il Ministero resistente eccepiva l’inammissibilità del ricorso sul provvedimento di exequatur in quanto atto politico, infatti, il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale sosteneva che la procedura in parola, avendo natura eminentemente politica in quanto attinente alle relazioni tra Stati sovrani, doveva ritenersi sottratta al sindacato del giudice amministrativo.

Sulla questione, il Collegio ha ritenuto opportuno prendere le mosse non tanto dalla qualificazione dell’atto, cioè se si tratti di atto politico o di atto di alta amministrazione, né tanto meno dai suoi caratteri oggettivi e soggettivi, bensì dalle caratteristiche della norma poste a fondamento della funzione esercitata con l’atto impugnato.

Il Consiglio di Stato conferma di farsi portavoce di un orientamento, in realtà, già consolidato in giurisprudenza e riportato in una pronuncia della Corte Costituzionale n. 81 del 2012: l’ampia discrezionalità politica che può riscontrarsi in un’azione di governo trova fondamento sull’ordinamento, infatti, tale potere discrezionale sarebbe circoscritto da limiti posti dal legislatore attraverso le norme giuridiche, motivo per cui, il rispetto di tali vincoli assicura la piena legittimità dell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale e dunque la piena validità dell’atto.

Ad avviso del Consiglio di Stato, la vera difficoltà maturata negli anni e con la quale ha dovuto fare i conti la stessa giurisprudenza, consiste nella mancanza di parametri giuridici alla stregua dei quali poter verificare la natura di un atto politico. Le uniche limitazioni cui l’atto politico soggiace sono costituite dall’osservanza dei precetti Costituzionali, la cui violazione può giustificare un sindacato della Corte costituzionale di legittimità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge o su qualsivoglia atto lesivo delle competenze costituzionalmente garantite.

Un’altra sentenza successiva (n.808/2016) ha evidenziato che anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha confinato in margini esigui l’area della immunità giurisdizionale, da escludere allorquando l’atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema normativo, anche se si tratti di un atto emesso nell’esercizio di ampia discrezionalità.

Dunque, l’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale va confinata entro limiti rigorosi; ed infatti per ravvisare il parametro politico di un atto, al fine di sottrarlo al sindacato del giudice, occorre che sia impossibile individuare un riferimento giuridico sulla base del quale svolgere il sindacato giurisdizionale.

Proprio sulla base di quanto già esposto in precedenti pronunce giurisprudenziali, il Collegio ha ritenuto che ai fini dell’impugnabilità di fronte al giudice amministrativo, non rileva tanto la natura dell’atto, quanto invece l’esistenza di un riferimento normativo posto alla base dell’esercizio del potere discrezionale; non è un caso infatti che nelle decisioni della Corte non compaia mai l’inciso “atto politico”.

Subito dopo la Costituzione, la giurisprudenza aveva confermato che qualsiasi atto amministrativo anche se qualificabile come atto politico, purché non si tratti di atto governativo, è sindacabile, può essere annullato o disapplicato qualora ponga limiti a situazioni soggettive attive; anche se in questa prospettiva sembrerebbero sfumare le categorie di “atto politico” ed “atto di alta amministrazione”.

Tali categorie avevano comunque permesso di abbandonare la “teoria del movente” di origine francese, secondo la quale, facendo riferimento a caratteri prettamente soggettivi, attribuiva all’arbitrio del Governo la qualificazione dell’atto, consentendo di sottrarre al sindacato del giudice amministrativo qualsiasi atto in cui asserisse la presenza di motivi politici. Fino a quel momento, dalle pronunce giurisprudenziali si traeva come conclusione il fatto che fossero due i requisiti richiesti ai fini della qualificazione di un atto come politico: requisito soggettivo (l’atto deve essere stato emanato da un organo di vertice della Pubblica Amministrazione) e requisito oggettivo (l’atto deve concernere la costituzione, la salvaguardia ed il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione).

Ma dopo la sentenza della Corte Costituzionale, sopra citata, cioè la n. 81 del 2012, l’approdo giurisprudenziale sembra addirittura andare oltre, ritenendo che ciò che rileva ai fini dell’impugnabilità o meno dell’atto, non è tanto che esso promani da un organo di vertice della Pubblica Amministrazione e che concerna determinate materie, quanto in realtà che sussista una norma che predetermini le modalità di esercizio della discrezionalità politica, o che, comunque, la circoscriva.

In concreto, sarà allora impugnabile quell’atto che, se pur emanato da un organo di vertice amministrativo che eserciti la funzione di indirizzo politico, trova fondamento su una norma la quale riconosce una situazione giuridica attiva, protetta dall’ordinamento, riferita ad un bene della vita oggetto dalla funzione svolta dall’Amministrazione. Dall’orientamento che si è consolidato in giurisprudenza emerge, dunque, da un lato la consapevolezza del rischio di una mancata tutela piena ed effettiva nei confronti del singolo amministrato a causa della sottrazione di determinati atti alla giurisdizione amministrativa, dall’altro, proprio per questo motivo, il tentativo di ridurre a minimo il numero di atti insindacabili. In questo senso, inoltre, il Consiglio di Stato, nella pronuncia n.6002/2012, ha escluso che possa considerarsi “atto politico” l’indizione di elezioni regionali.

Un ulteriore esempio è la pronuncia, sempre del Consiglio di Stato, n.16305/2013, che dopo aver negato il carattere politico all’atto del Governo di rifiuto di avviare le trattative con una confessione religiosa ai sensi dell’art. 8 Cost, è stata censurata dalla Corte Costituzionale con sentenza n.52/2016, la quale ha confermato che l’atto di avvio delle trattative con una confessione religiosa, è demandato alla discrezionalità “politica” del Governo e, in quanto tale, non sindacabile dal giudice amministrativo.

5. Conclusioni del Consiglio di Stato

Ciò che può allora sottolinearsi, ai fini di cogliere la ratio del Consiglio di Stato è l’insieme di caratteristiche necessariamente sussistenti per poter qualificare un atto come “politico”: un atto è ritenuto tale, non quando, potendosi classificare come atto amministrativo, sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico o con una motivazione di ordine politico, ma soltanto quando l’atto sia esercizio di un potere politico.

Un atto del genere è riservato ad autorità cui competa al massimo livello la funzione di indirizzo politico e di direzione della cosa pubblica; e inoltre, sul piano oggettivo, deve ritenersi espressione di funzioni direttamente disciplinate dalla Costituzione o, più concretamente, deve riscontrarsi la mancanza di norme o di principi che identifichino un parametro giuridico applicabile. Non sussistendo queste caratteristiche in capo all’exequatur, oggetto di esame da parte del Consiglio di Stato, l’atto impugnato non può qualificarsi come politico e pertanto non può essere sottratto alla giurisdizione amministrativa.

Da questi caratteri emerge una nozione rigorosa di “atto politico” con la conseguente valutazione che l’esclusione della sua impugnazione non introdurrebbe una deroga al principio costituzionale, prevalendo la tesi giurisprudenziale di compatibilità di questa esclusione con l’art. 113 della Costituzione.

Dopo essersi soffermato sul percorso giurisprudenziale relativo all’atto politico, il Consiglio di Stato procede con l’indicazione dei motivi che lo hanno indotto a ritenere inammissibile il ricorso: l’intero iter involge esclusivamente la partecipazione dei due Stati sovrani interessati, attraverso, nel caso di specie, l’Ambasciata del Paese estero richiedente ed il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale; emerge quindi la piena discrezionalità dello Stato ospitante, che non è tenuto a fornire neanche all’altro Paese la motivazione del diniego di concessione o, come in questo caso, di rinnovo dell’exequatur.

A maggior ragione, rimane esclusa da questa procedura la persona fisica (il professore Ossola) che non vanta alcun titolo a partecipare al procedimento de quo, dal momento che la normativa che disciplina la materia non stabilisce in capo ad essa alcuna regola di garanzia, a prescindere, tra l’altro, dal fatto che si tratti di cittadino italiano o meno.

In definitiva, la procedura oggetto di impugnazione afferisce esclusivamente ai rapporti tra Stati sovrani. Alla stregua di quanto esposto logicamente dal Consiglio di Stato, il ricorso non poteva che essere ritenuto inammissibile.


Note e riferimenti bibliografici

"Lezioni di Giustizia Amministrativa" di Aldo Travi.

i Liberalismo: a fine ‘800 comincia a svilupparsi la tendenza volta ad assicurare una tutela piena dell’amministrato nei confronti della Pubblica Amministrazione; tutela che era stata assente sotto l’Ancien Regime.

iiArt. 66 Cost.: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”.

iiiArt. 7 c.p.a. (testo integrale): “Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni. Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico. 2. Per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo. 3. La giurisdizione amministrativa si articola in giurisdizione generale di legittimità, esclusiva ed estesa al merito. 4. Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma. 5. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall'articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi. 6. Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dalla legge e dall'articolo 134. Nell'esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all'amministrazione. 7. Il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice amministrativo di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi. 8. Il ricorso straordinario è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa”.

ivArt. 103 Cost.: “Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi , in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi. 2. La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge. 3. I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate”.

vTra i più recenti sostenitori di questa teoria: Giuseppe Speciale; concetto ripreso anche da Aldo Travi, il quale sostiene che questa parola (sempre) abbia un valore assoluto e non potrebbe essere soggetta ad alcuna limitazione neppure in situazioni particola