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Pubbl. Ven, 10 Apr 2020

La discrezionalità amministrativa nella scelta dei requisiti di accesso ai concorsi pubblici

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Vincenzo D´avino



Il contributo analizza brevemente la discrezionalità amministrativa, principio fondamentale attraverso cui la Pubblica Amministrazione integra il processo decisionale con particolare riferimento alla sentenza n. 6972 del 14/10/2019 con cui il Consiglio di Stato ha verificato la legittimità della richiesta, quale requisito minimo di accesso ad un concorso pubblico, di un titolo ulteriore al diploma di laurea.


ENG Briefly, the paper focuses on the administrative discretion, legal fundamental from that Public Administration uses to integrate decision making and the latest Council of State´s decision of 14th October 2019,n. 6972 that verifies the legality of the request, as a minimum requirement of access to a open competitive exam, for an additional qualification to the degree.

Sommario: 1. Premessa fattuale; 2. i requisiti minimi per la partecipazione al concorso; 3. la discrezionalità amministrativa in generale; 4.  la discrezionalità amministrativa in particolare; 5. L'illegittimità del bando di concorso; 6. Conclusioni.

1. Premessa fattuale

Nella vicenda, oggetto del commento, il Consiglio di Stato ha vagliato il gravame proposto avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Roma n. 6223 del 05/06/2018.

In quella sede, alcuni soggetti avevano impugnato una serie di provvedimenti amministrativi tra cui, spiccatamente, il bando di concorso pubblico relativo all’assunzione di 500 funzionari da inquadrare in vari profili della III area del personale non dirigenziale (posizione economica F1) presso il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.

A tutti i ricorrenti era stata preclusa la partecipazione al concorso poiché, nonostante fossero in possesso del titolo di laurea in Architettura, erano carenti dell’ulteriore titolo di accesso previsto dall’art. 3 del relativo bando settoriale, ed in particolare di un “diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale”, ovvero di un titolo equipollente/equivalente nella disciplina di riferimento.

Di tale previsione veniva eccepita l’illegittimità per violazione di una serie di norme di legge, articolata in un unico, complesso motivo di ricorso, accanto al quale veniva avanzata un’incidentale istanza cautelare.

Tale domanda di sospensione degli effetti, accolta con decreto monocratico presidenziale, veniva poi confermata con ordinanza collegiale: di talché il Tribunale permetteva a tutti i ricorrenti di partecipare alla procedura selettiva, in attesa della pronuncia definitiva sul ricorso.

Sennonché, la sentenza ha disatteso le istanze dei ricorrenti e, per l’effetto, il ricorso è stato rigettato.

Da qui è sorto l’interesse ad appellare in capo a tutti quei soggetti che, ricorrenti in primo grado, avevano partecipato proficuamente alla procedura selettiva per effetto dei provvedimenti cautelari.

2. I requisiti minimi per la partecipazione al concorso

Il fulcro della decisione del Consiglio di Stato involge la legittimità o meno dell’art. 3 del bando del concorso pubblico de quo che, come rilevato in punto di fatto, ha stabilito come requisito di partecipazione il possesso, oltre che del diploma di laurea, anche di un diploma di specializzazione, o dottorato di ricerca, o master universitario di secondo livello di durata biennale (o, comunque, di un titolo a questi equipollente).

Orbene, gli appellanti sostenevano l’illegittimità di tale previsione perché sarebbe in contrasto con l’art. 2 del D.P.R. n. 487 del 09/05/1994, concernente il “Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”.

La norma invocata individua i requisiti generali di cui deve essere in possesso ciascun cittadino che voglia accedere agli impieghi civili presso le Pubbliche Amministrazioni: per quel che qui specificamente rileva, il VI comma stabilisce che “per l’accesso a profili professionali di ottava qualifica funzionale è richiesto il solo diploma di laurea”.

Facendo leva su tale specifico aspetto, gli appellanti hanno denunciato l’illegittimità della previsione della lex specialis poiché la P.A. banditrice, in assenza di qualsivoglia motivazione che giustificasse la scelta, ha imposto vincoli più stringenti alla partecipazione al concorso di quelli previsti legislativamente dall’art. 2, comma 6, T.U. concorsi pubblici.

La questione è, in vero, complessa, poiché involge uno degli istituti più caratteristici del diritto amministrativo relativo all’attività della P.A.: la discrezionalità amministrativa. 

3. Circa la discrezionalità amministrativa in generale

Ogniqualvolta una Pubblica Amministrazione esercita un potere amministrativo non vincolato, si può parlare di discrezionalità amministrativa.

Parte della dottrina[1] la definisce come facoltà di scelta fra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato; altri[2], invece, la definiscono come ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine all’interesse primario.

Tanto dall’una, quanto dall’altra definizione emerge pacificamente che ci si trova dinanzi ad una scelta operata dalla Pubblica Amministrazione tra interessi opposti che, pertanto, necessita di apposita motivazione.[3]

Secondo la concezione originaria dell’atto discrezionale, sorta nella Francia della prima metà del XIX secolo, esso era insindacabile dal giudice, poiché frutto di una scelta operata da un Ente preposto alla tutela di interessi generali e, perciò, superiori.

Oggi le cose stanno diversamente.

L’art. 113 della Costituzione sancisce esplicitamente l’impugnabilità di tutti gli atti della Pubblica Amministrazione, laddove questi ledano un diritto od un interesse legittimo.

Ciononostante, le valutazioni connotate dalla discrezionalità amministrativa non possono essere sindacate, in sede di giurisdizione di legittimità del Giudice Amministrativo, per ragioni di merito, ma solo ed esclusivamente nei casi di “eccesso di potere”, nelle sue forme cd. sintomatiche della manifesta illogicità, manifesta irragionevolezza, evidente sproporzionalità e il travisamento dei fatti.[4]

Questi possibili vizi sono tutti evincibili dalla motivazione del provvedimento, elemento fondamentale di ogni atto che sia scaturito da un procedimento amministrativo.[5]

Proprio di questa motivazione, nel caso oggetto di disamina, è contestata l’esistenza in radice.

4. La discrezionalità amministrativa in particolare

Come già accennato, secondo gli appellanti il MiBACT non avrebbe motivato la scelta di derogare al regime minimo imposto dall’art. 2 del D.P.R. n. 487 del 09/05/1994, avendo previsto requisiti di ammissione ulteriori (e, perciò, illegittimi).

Quando una Pubblica Amministrazione bandisce una procedura ad evidenza pubblica, sia essa un concorso ovvero una gara d’appalto, ne deve fissare le regole: nel fare ciò, si distingue tra una serie di norme eterodirette (imposte cioè dalla Legge), ed altre decise autonomamente dall’Ente banditore; tutte vengono convogliate nella cd. lex specialis di gara - il bando.

Le decisioni operate in tal senso dalla P.A. sono espressione della sua discrezionalità amministrativa: invero, il Giudice Amministrativo ha, di recente, stabilito che “l’Amministrazione, in occasione dell’individuazione dei requisiti di partecipazione e dei titoli valutabili nell’ambito della procedura concorsuale, gode di ampia discrezionalità, poiché le scelte relative, in quanto finalizzate alla concreta cura e all’effettivo perseguimento dell’interesse pubblico, riguardano il merito dell’azione amministrativa e sfuggono, pertanto, al sindacato di legittimità del G.A., salva la loro palese arbitrarietà, illogicità, irragionevolezza ed irrazionalità in rapporto al fine che si intenda concretamente perseguire”.[6]

Di tanto ha tenuto conto anche il Consiglio di Stato, che ha richiamato la propria giurisprudenza secondo cui “in capo all’amministrazione indicente la procedura selettiva (si riconosce, ndr.) un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire”.[7]

Sennonché, questa discrezionalità è, comunque, soggetta a dei limiti, sia “minimi” che “massimi”.

Per quanto attiene ai primi, si è già detto il relazione al citato art. 2, comma 6, T.U. concorsi pubblici. Invece, con riferimento ai secondi al silenzio della Legge supplisce, come spesso accade, l’interpretazione dei giudici.

Sul punto, il Supremo consesso amministrativo, richiamando un suo precedente[8], ha sostenuto che “in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà”.

Nel caso in esame, i principi così tracciati non sono stati seguiti.

5. L’illegittimità del bando di concorso

Il Consiglio di Stato, con la decisione in esame, ha statuito che “i criteri del bando impugnati non risultano in parte qua proporzionali rispetto all’oggetto della specifica procedura selettiva ed al posto da ricoprire tramite la stessa, risolvendosi pertanto in una immotivata ed eccessiva gravosità rispetto all’interesse pubblico perseguito”.

E infatti, nonostante il ruolo da coprire attraverso il concorso controverso fosse quello di Funzionario architetto (quindi non dirigenziale), il MiBACT ha illegittimamente richiesto ai partecipanti un titolo ulteriore rispetto al diploma di laurea, poiché da un lato, questa scelta non è stata in alcun modo motivata; dall’altro, essa determina una violazione per “eccesso di potere” della normativa vigente sotto i profili della manifesta irragionevolezza e dell’evidente sproporzionalità.

Sotto questo specifico punto, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come, per un profilo analogo a quello a cui ambiscono gli appellanti (oggetto del medesimo concorso, seppur relativo ad un distinto “segmento”), il Ministero non abbia individuato alcun requisito ulteriore oltre al diploma di laurea; scelta, questa, figlia anche da precedenti accordi sindacali.

Né tantomeno l’aggravamento dei criteri di ammissione al concorso può essere giustificato - come aveva, invece, tentato di fare la P.A. appellata - dal fatto che la procedura de qua sia stata indetta in parziale deroga ai vincoli di assunzione di cui alla L. n. 208/2015: detti criteri “devono invece essere predisposti in vista dei requisiti culturali e di professionalità richiesti dal ruolo da ricoprire, indipendentemente dal contesto economico finanziario che caratterizza l’epoca di indizione del concorso”.

6. Conclusioni

In definitiva, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello, riformando la sentenza del T.A.R. Lazio.

La decisione ha cristallizzato un orientamento giurisprudenziale di fatto già univoco, che poggia su solide basi dottrinali per quanto concerne il fondamentale istituto della discrezionalità amministrativa, ma che trova concretizzazione nella quotidianità delle aule dei tribunali amministrativi.

Ed infatti, ogniqualvolta è chiamato ad esprimersi circa la legittimità delle procedure concorsuali, il Giudice Amministrativo è chiamato a dare attuazione a principi di rango costituzionale volti a tutelare da un lato l’imparzialità ed il buon andamento della P.A.; dall’altro le legittime aspettative che i partecipanti (o aspiranti tali) hanno rispetto ad un impiego nelle amministrazioni statali.

Da ciò emerge palese la centralità e l’attualità delle questioni trattate dal Consiglio di Stato.


Note e riferimenti bibliografici

[1] P. Virga, “Il provvedimento amministrativo”, Milano, 1979.

[2] M.S. Giannini, “Diritto amministrativo”, vol. II, Milano, 1993, p. 49.

[3] Cons. Stato, sez. IV, 30/09/20016, n. 4040.

[4] Cons. Stato, sez. IV, 22/08/2018, n. 5005.

[5] “Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale (…)” art. 3, commi 1 e 2, L. n. 241/1990.

[6] T.A.R. Lazio - Roma, sez. III, 24/09/2019, n. 11257.

[7] Cons. Stato, sez. V, 18/10/2012, n. 5351; ibidem, sez. VI, 03/05/2010, n. 2494.

[8] Cons. Stato, sez. V, 28/02/2012, n. 2098.