Pubbl. Mar, 16 Giu 2015
ll labile discrimen tra intraneus ed extraneus nel reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Modifica paginaQuando un soggetto che si mette a disposizione di una cosca mafiosa può essere ritenuto intraneus all’associazione stessa? La disponibilità verso la cosca mafiosa. Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 53675/14 depositata il 23 dicembre 2014, n. 53675 Presidente Esposito – Relatore Rago F.
Massima della sentenza
In tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Ne consegue che va considerato intraneus e non semplice concorrente esterno il soggetto che, consapevolmente, accetti i voti dell'associazione mafiosa, e che, una volta eletto a cariche pubbliche, diventi il punto di riferimento della cosca mettendosi a disposizione, in modo stabile e continuativo, di tutti gli affiliati, e degli interessi della consorteria alla quale rende il conto del proprio operato, dovendo considerarsi tale comportamento prova sia dell'affectio societatis sia di un efficiente contributo causale al rafforzamento del proposito criminoso e all'accrescimento delle potenzialità operative e della complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale dell'associazione criminale.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Le precedenti pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite. - 3. Le incertezze dopo la sentenza “Mannino”.. – 4. Gli elementi distintivi tra connivenza non punibile, concorso e partecipazione. –5. Lo scioglimento del vincolo associativo. – 6. Conclusioni.
1. Premessa.
Il concorso “esterno” nei reati associativi (ed in particolare in quello di associazione di tipo mafioso) costituisce ormai un istituto di diritto – come si suol dire – “vivente”. L ’attributo riservato agli istituti sul cui fondamento normativo legale (in varia guisa incerto) finisce col far aggio una giurisprudenza consolidata e, almeno relativamente, univoca. In effetti, la “vitalità” del concorso “esterno”, certo sostenuta da esigenze politico-criminali consistenti, è alimentata da un polmone – quello delle disposizioni sul concorso eventuale nel reato ex artt. 110 ss. c.p. – che, se pure è capace di soffiare come un mantice (e forse proprio per questo), rappresenta – come è stato osservato – il capitolo più oscuro della dogmatica penale. La vicenda applicativa del concorso “esterno” continua perciò a svolgersi tra i sussulti di dubbi mai definitivamente sopiti e il serpeggiare di polemiche mai del tutto soffocate ed, anzi, sempre pronte a riaccendersi con vigore[1].
La recente sentenza della quinta sezione penale della Suprema Corte, pronunciata nel caso Dell’Utri[2], giunta quasi al termine di un lungo percorso motivazionale, dopo aver premesso che “sul tema della configurabilità, in linea di principio, del concorso esterno in associazione per delinquere semplice e poi, a partire dal 1982, di stampo mafioso non sono stati sollevati dubbi dogmatici neppure dalle difese”, e dopo aver escluso che vi fosse “il motivo per sollevare specifiche perplessità”, avverte tuttavia l’esigenza di ripercorrere con puntualità le tappe significative di questa raggiunta e tranquillante certezza, e di ribadirne i punti salienti e gli aspetti di maggior rilievo. Non poca né piccola cosa per una questione che nessuno aveva sollevato e che alla Corte stessa appariva, in linea di principio, del tutto pacifica[3].
Chi analizza la giurisprudenza sviluppatasi a proposito del concorso “esterno” dopo le prime Sezioni Unite sul tema[4], si imbatte, con frequente regolarità, nella reiterazione delle ragioni che suffragano e, in realtà, impongono il riconoscimento del concorso “esterno” nel reato associativo (e cioè, più semplicemente, del concorso eventuale ex artt. 110 ss. c.p.), quasi che l’istituto dovess essere sempre sottoposto ad un nuovo scrutinio, per ribadirne la “legittima” esistenza e la capacità “operativa”. A confermare l’impressione di una patente sempre soggetta a revisione, soccorre peraltro una circostanza davvero singolare. Il concorso “esterno” ha varcato le soglie delle Sezioni Unite della Suprema Corte con una frequenza sconosciuta financo ai più tormentati istituti del nostro diritto penale. Si avvicendano così la sentenza Demitry nel 1994, la prima sentenza Mannino[5] nel 1995, la sentenza Carnevale[6] nel 2002, la seconda sentenza Mannino[7] nel 2005.
Com’è risaputo, il problema del concorso “esterno” si pone nel momento in cui si profila la necessità di definire la rilevanza penale delle condotte “collaterali” rispetto all’attività di un sodalizio criminoso. Nel caso della mafia e delle organizzazioni similari si tratta di quella “zona grigia” – come viene di solito indicata – in cui si muovono professionisti, politici, funzionari pubblici, imprenditori privati e loro agenti, prestanome e serventi vari che, pur non partecipando all’associazione criminosa nelle forme richieste per integrare la fattispecie di reato, rendono tuttavia prestazioni e servigi utili all’attività del sodalizio o al perseguimento dei suoi scopi. Nella dimensione segnata dalle circostanze storiche e dalla fenomenologia dei gruppi criminali organizzati, il problema del collateralismo esterno risulta tuttavia praticamente coevo alla nascita stessa delle fattispecie associative.
Ciò premesso, con la sentenza in epigrafe, in particolare, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso avverso l’ordinanza con la quale il Tribunale di Reggio Calabria confermava l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti dell’indagato del reato di associazione mafiosa ex art. 416 – bis c.p.
Nella specie, il Tribunale qualificava la disponibilità dell’agente verso la cosca mafiosa quale condotta partecipativa al sodalizio criminale. Nella vicenda, l’indagato risultava essere stato eletto sindaco con l’appoggio dell’associazione mafiosa nei confronti dei cui membri avrebbe assicurato, anche dopo la scadenza del mandato elettorale, la propria disponibilità in termini di sostegno logistico ed operativo.
In termini di difesa l’indagato contestava, tra l’altro, la propria appartenenza al sodalizio criminoso. Adduceva che il Tribunale non aveva indicato gli elementi in ragione dei quali potessero ritenersi sussistenti i gravi indizi di colpevolezza circa l’adesione stabile, permanente e volontaria per ogni fine illecito dell’associazione. Inoltre, osservava che il termine del mandato elettorale, con conseguente perdita della funzione pubblica, implicava la rottura della relazione criminale.
I Giudici della Suprema Corte, nella sentenza in esame, si sono espressi nuovamente sul reato di associazione di tipo mafioso ex art. 416 – bis c.p., chiarendo come la disponibilità nei confronti della cosca non integri necessariamente il concorso esterno o una condotta partecipativa. E per addivenire a tale conclusione, ha dovuto necessariamente porre invidenza gli elementi distintivi del contributo fornito dall’intraneus da quelli del concorrente esterno.
Ponendosi sostanzialmente in linea di continuità con la risalente giurisprudenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, i giudici di legittimità investiti della questione, hanno tentato di risolvere i dubbi interpretativi emersi in merito.
2. Le precedenti pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.
Per una migliore comprensione delle dinamiche sottese al caso di specie, appare dirimente ripercorrere il travagliato percorso della singolare e controversa figura criminosa del “concorso esterno” in associazione mafiosa.
Il concorso “esterno” ha varcato le soglie delle Sezioni Unite della Suprema Corte con una frequenza sconosciuta financo ai più tormentati istituti del nostro, pur tormentatissimo, diritto penale[8]. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite infatti è intervenuta più volte per definire i criteri distintivi della figura del partecipe da quella del concorrente esterno.
Nel 1994, con la sentenza Demitry[9], la più risalente nel tempo, la Suprema Corte ha definito la partecipazione quale stabile permanenza del vincolo associativo tra gli autori. Secondo tale orientamento, esso rispecchia un grado di compenetrazione del soggetto con l’organismo criminale, nell’ambito del quale l’agente assume determinati e continui compiti, anche per settori di competenza.
Viceversa, la condotta del concorrente esterno è stabile di qualsivoglia stabilità nel tempo. In effetti contribuisce atipicamente alla realizzazione della condotta posta in essere dai partecipi nonché alla continuità del vincolo associativo. Seguendo tale impostazione, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, l’extraneus concorre a titolo di dolo generico in un reato a dolo specifico, quale quello previsto dall’art. 416 – bis c.p..
In altre parole, mentre il partecipe vuole far parte dell’associazione e contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa, il concorrente esterno vuole sì la propria condotta ema non quella di far parte del sodalizio ed il compimento delle relative finalità.
In definitiva la sentenza Demitry, dopo aver riservato al concorso “esterno” l’ambito delle condotte intervenute sia per “colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto […] nel momento in cui la “fisiologia” dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per esser superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un estraneo”, basa la rilevanza concorsuale sulla circostanza “che quell’ unico contributo serva per consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi”.
Con la sentenza Carnevale, pronunciata nel 2002, si conferma e si ribadisce “il principio secondo il quale in tema di associazione di tipo mafioso è configurabile il concorso “esterno”, con la precisazione che assume la qualità di concorrente “esterno” […] la persona che, priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura organizzativa dell’associazione, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purché questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale,
del programma criminoso della medesima”. Sembra dunque chiaro, ancora una volta, che il concorrente “esterno” è tale in funzione di una condotta causalmente efficiente, anche se ora la descrizione dell’evento si modifica significativamente: non si tratta più (solo) di una situazione “patologica” del sodalizio criminoso, che il concorrente eventuale viene chiamato a rimuovere per assicurare il “mantenimento in vita” dell’associazione, ma piuttosto (anche) della sua conservazione, “conservazione” o del suo “rafforzamento” in vista della realizzazione, anche parziale, del programma criminoso.
La sentenza Carnevale, secondo autorevole dottrina, sembra mostrare tuttavia consistenti incertezze nel definire i termini della causalità rilevante, che, nello sviluppo argomentativo della motivazione, sembra addirittura ripiegare sul versante della mera idoneità. Scrivono infatti le Sezioni Unite: “se, nel reato associativo il risultato della condotta tipica è la conservazione o il rafforzamento del sodalizio illecito (comunque voglia chiamarsi tale risultato: rafforzamento “dell’entità associativa nel suo complesso” “mega-evento associativo” o ancora “dinamica organizzativo - funzionale dell’ente criminale”), qualora
l’eventuale concorrente, nello specifico caso, possa ritenersi con sicurezza estraneo all’organizzazione […], lo stesso risultato deve esigersi dalla sua condotta: con ciò si vuol dire che il contributo richiesto al concorrente esterno deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell’associazione”. Né ha peso la circostanza che l’attività prestata sia continuativa od occasionale, purché – ribadisce la sentenza” “possa ritenersi idonea a conseguire il risultato sopra menzionato”. “L’accertamento del nesso
causale nel concorso esterno – si osserva infine – non comporta di per sé difficoltà maggiori di quanto può comportare la individuazione […] di una condotta idonea ed univoca agli effetti del tentativo o la ricostruzione dei presupposti delle singole responsabilità colpose individuali nel quadro dell’esercizio di attività complessa…”.
Priva di simili incertezze, ed anzi decisamente orientata a fornire un’elaborazione concettuale completa ed esaustiva dell’applicazione del principio causale nell’identificazione del concorrente “esterno”, appare invece la seconda sentenza Mannino delle Sezioni Unite, pronunciata nel 2005, che fornisce, per così dire, la “traduzione” concettuale della sentenza Franzese, di pochi anni precedente, in materia di concorso eventuale in associazione mafiosa. Per risultare rilevanti quale contributo concorsuale “esterno”, i comportamenti (nel caso di specie rappresentati – com’è noto – da un supposto patto politico mafioso articolatosi nel tempo) devono assumere, rispetto alla “conservazione” e al “rafforzamento” dell’associazione mafiosa una “efficacia causale” riscontrata “all’esito della verifica probatoria ex post”. Si deve cioè poter sostenere che la condotta abbia “inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali”. L’accertamento deve svilupparsi “sulla base di massime di esperienza di empirica plausibilità”.
In questo modo la sentenza delle Sezioni Unite tratteggia un disegno nel quale è agevole scorgere in filigrana i pilastri di fondo che reggono la sentenza Franzese: la causalità, concepita in termini effettuali, si uniforma al canone della condicio sine qua non per cui l’evento non si sarebbe verificato in assenza di quella determinata condotta, ma per poter fornire la spiegazione del nesso di dipendenza eziologica occorre applicare il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, che, ove manchino, debbono essere sostituite da massime di esperienza “di empirica plausibilità”.
Tuttavia, è difficile riconoscere alle “massime di esperienza” il ruolo che le Sezioni Unite vorrebbero riservare loro. In linea di principio, infatti, le massime di esperienza, com’è stato osservato, si dividono in due grandi categorie: nell’una esse rappresentano la volgarizzazione di leggi scientifiche o la loro formulazione in versione popolare; nell’altra esse costituiscono invece generalizzazioni, semplici opinioni o, addirittura, pregiudizi diffusi. Esigendo che le massime di esperienza siano dotate di “empirica plausibilità” la sentenza delle Sezioni Unite non intende certamente riferirsi a questo secondo gruppo, ma piuttosto al primo. Ed allora, si tratterebbe di stabilire quali siano le leggi scientifiche riferibili al fenomeno mafioso suscettibili di essere volgarizzate o formulate in versione popolare[10].
Ma questa, che pure non sembra difficoltà di poco momento, non costituisce il punto decisivo della questione. Esso si colloca piuttosto alla prima tappa del percorso causale che si intende intraprendere nel dar corpo e rilevanza al concorso “esterno”: la descrizione dell’evento, che costituisce – com’è noto – la premessa ineludibile di ogni giudizio causale. “Per stabilire se ad un’azione compete la qualifica di condizione dell’evento – scriveva Federico Stella – si deve prima “descrivere” con esattezza il risultato naturalistico cui ci si riferisce”, scegliendo tra le diverse alternative che in astratto sono suscettibili di prospettarsi[11].
Si pone allora la domanda: “mantenimento in vita” e “rafforzamento” del sodalizio criminoso possono definirsi quali risultati naturalistici di una o più condotte? Secondo le Sezioni Unite Carnevale la risposta parrebbe positiva: “nel reato associativo il risultato della condotta tipica è la conservazione o il rafforzamento del sodalizio illecito”. Ma quand’anche si riconoscesse che tali “eventi” sono il “risultato” della “condotta tipica”, si potrebbe anche dire che si tratta di un risultato non solo naturalistico, ma, soprattutto, a sua volta tipico come la condotta che l’avrebbe provocato? Certamente no, visto che nessuna fattispecie associativa menziona tali supposti eventi tra i requisiti tipici richiesti ai fini della propria integrazione: il partecipe inaffidabile, il direttore inefficiente, l’organizzatore sconclusionato possono anche risultare nocivi per la sopravvivenza o per la solidità dell’associazione, senza che questo comporti alcuna conseguenza nell’identificazione delle rispettive condotte come condotte tipiche.
D’altro canto, la causalità non è un concetto passe-partout capace di aprire qualsiasi porta. La dipendenza di un evento normativamente previsto da una condotta che l’abbia prodotto delinea un requisito di fattispecie (e spesso l’unico requisito capace di identificare la condotta) strettamente vincolato all’ambito della fattispecie stessa. Rispetto ad essa l’evento tipico deve subire il processo di “descrizione” che implica “il riferimento a “caratteristiche spazio-temporali” tali da consentire l’identificazione dell’evento di cui si tratta”; la “funzione logica” della descrizione è dunque quella “di consentire l’individuazione del significato di una determinata proposizione, attraverso la identificazione del ‘materiale esistenziale’ cui la proposizione stessa si riferisce”[12].
Nel caso del concorso di persone tutto ciò non è possibile, per la semplice ragione che manca un evento tipico suscettibile di divenire oggetto di “descrizione” nel senso poc’anzi richiamato. Anche se la comparsa in ambito penalistico della teoria della conditio sine qua non si è avviata proprio sul terreno della partecipazione criminosa, è fuori di dubbio che la causalità non è un concetto utilizzabile per stabilire limiti e rilevanza della condotta di concorso. Tanto meno se la sua utilizzazione si prospetta per definire il concorso “esterno”. “Mantenimento in vita” e “rafforzamento” del sodalizio criminoso, sono concetti metaforici privi di un contenuto determinato, evocativi di una realtà complessa a comporre la quale intervengono valutazioni, stime, apprezzamenti insuscettibili di tradursi in una descrizione storicamente definita hic et nunc. . O si dovrà per l’appunto riconoscere che difetta la prova dell’efficienza causale nel contributo rispetto ad eventi che, per essere espressi in una dimensione valutativa, non offrono alcuno spazio al procedimento di eliminazione mentale secondo la tecnica della prognosi postuma, né consentono alcuna forma di controprova.
3. Le incertezze dopo la sentenza “Mannino”.
La giurisprudenza successiva alle Sezioni Unite Mannino del 2005, che non sembra essere stata coerente con l’orientamento con queste affermato.
Degna di nota, al riguardo, è la sentenza” Prinzivalli”[13], con la quale sono emersi nuovamente profili di dubbia interpretazione circa il raggiungimento della prova del contributo causale dell’extraneus all’associazione. Nel caso di specie, la Suprema Corte si è espressa circa la condotta del giudice compiacente nell’ambito di un processo nel quale risultavano imputati noti esponenti di Cosa Nostra. La giurisprudenza di merito aveva escluso il concorso esterno del giudice per non essere stato provato il condizionamento degli altri magistrati del collegio a favore della cosca.
La Corte di Cassazione, invece, allontanandosi dai criteri scolpiti dalla sentenza Mannino, ha affermato che è sufficiente, ai fini della configurazione della fattispecie di reato, la concreta e reale precostituzione di un giudice non imparziale, ma prevenuto in favore degli imputati appartenenti all’associazione mafiosa cui è stato promesso un voto assolutorio ed una gestione compiacente del dibattimento.
Secondo il ragionamento delle Corte del 2006, tale promessa rafforza ed esalta il vincolo associativo, poiché il sodalizio riesce ad acquisire il contributo del membro di un’istituzione giudiziaria, che ha la funzione di giudicare l’associazione illecita[14]. In altre parole, dalla disponibilità del magistrato compiacente, la cosca ottiene un indubbio risultato favorevole nell’immediato, costituito quantomeno da un rinvigorimento dell’organizzazione criminale. In questi termini si verifica l’efficacia reale del contributo causale.
Tale orientamento ha aperto la strada verso la rinuncia ad un reale accertamento ex post del suddetto contributo.
Con la sentenza “Tirsi Prato”[15] ci si è spinti oltre. La Corte di Cassazione ha apertamente ed esplicitamente smentito le Sezioni Unite del 2005. Ha ritenuto sussistente il concorso anche in presenza di un mero accordo tra gli associati e l’extraneus, rilevando come non sia necessario che il concorrente eventualmente non rispetti l’impegno preso. Ha riconosciuto la sola promessa a favore del sodalizio, quale elemento sufficiente ai fini dell’integrazione del concorso, in quanto costituisce una legittimazione dell’associazione criminosa.
Tale impostazione determina un’inevitabile anticipazione della soglia di punibilità che certamente la sentenza Mannino mirava ad escludere.
Con l’ulteriore sentenza “Patriarca”[16], i giudici di legittimità sono giunti a sostenereche la sentenza Mannino, in realtà, non preveda la necessità che il contributo del concorrente esterno raggiunga il risultato perseguito. Stando a questa opzione ermeneutica, sarebbe sufficiente la sola idoneità della condotta posta in essere dall’agente.
E’ evidente, dunque, come la giurisprudenza delle Sezioni Unite sia stata recepita in maniera non del tutto omogenea contribuendo ad una anarchica incertezza del diritto in un tema così delicato quale quello attinente ai reati di matrice mafiosa.
In ogni caso, si deve segnalare lo sforzo, negli anni successivi, della Corte di Cassazione di ricondurre il proprio orientamento prevalente nei rigorosi binari sanciti con la sentenza Mannino.
A tal proposito appare utile segnalare le due sentenze della Suprema Corte sul caso dell’Utri. Nella prima[17] la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Palermo[18] nei confronti del senatore Marcello Dell’Utri, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Segnatamente, le scure della censura hanno investito le argomentazioni addotte a dimostrazione sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo del concorso[19], per l’impossibilità di provare compiutamente l’elemento psicologico del dolo richiesto in capo all’extraneus. Nello specifico, gli ermellini hanno osservato come i giudici palermitani non abbiano sufficientemente motivato la propria decisione, anche alla luce del mutamento dei rapporti tra il concorrente esterno e la cosca rispetto al periodo antecedente l’anno 1977.
In sede di rinvio la Corte di Appello di Palermo[20] ha confermato il giudizio di colpevolezza. In tal caso la sentenza del giudice d’appello ha superato il vaglio della Corte di Cassazione[21], la quale si è espressa in coerenza con i principi della sentenza Mannino. In primo luogo, ha ritenuto definitivamente superato l’orientamento per il quale il contributo del concorrente esterno avviene in un periodo di fibrillazione nella vita del sodalizio. Al contrario, il concorso si ha ogniqualvolta l’extraneus fornisce il proprio aiuto al rafforzamento o consolidamento dell’organizzazione, indipendentemente dallo stato di salute in cui lo stesso versa. Sotto profilo dell’elemento soggettivo, la Corte ha osservato che il dolo del concorrente esterno deve investire, nei momenti della rappresentazione e della volizione, tutti i requisiti essenziali della figura criminosa tipica, sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto. Vi deve la volizione, sinergicamente, con le condotte altrui, nella produzione dell’evento lesivo del medesimo reato.
Pertanto, l’extraneus, pur sprovvisto di affectio societatis deve essere consapevole dei metodi e dei fini dell’associazione, a prescindere dalla condivisione o avversione o indifferenze che egli possa nutrire verso la stessa. Egli deve essere compiutamente consapevole dell’efficacia causale che il suo contributo apporta per la conservazione e il rafforzamento del sodalizio.
La Corte ha dunque escluso il dolo specifico e si è smarcata dalle ricostruzioni ermeneutiche che volevano attribuire all’extraneus un atteggiamento psicologico sostanzialmente sovrapponibile a quello richiesto in capo all’intraneus.
4. Gli elementi distintivi tra connivenza non punibile, concorso e partecipazione.
Nel caso de quo, la Suprema Corte ha analizzato il comportamento materiale e l’atteggiamento psicologico che un soggetto può assumere verso la cosca mafiosa. In sostanza ha distinto le varie posizioni dell’agente può assumere: di mera connivenza, di concorrente o di partecipe.
Invero, si è ritenuto, per conforme dottrina, non rilevante penalmente la condotta che risulti inidonea ad apportare un contributo causale alla realizzazione del reato associativo. Il comportamento passivo, ancorché consapevole, costituisce mera connivenza quando non alimenta e né rafforza, neppure moralmente, il disegno criminoso altrui. In altri termini, non è punibile il soggetto che meramente assiste alla realizzazione del fatto illecito anche se ha la possibilità, ma non il dovere giuridico, di impedirlo.
Pertanto, la sola compiacenza verso il sodalizio o la frequentazione di soggetti affiliati, seppur riprovevole, non integra nessuna fattispecie criminosa quando non è suscettibile di produrre un oggettivo apporto alla costituzione, al consolidamento, al prestigio e alle singole attività dell’associazione. La disponibilità a fornire un contributo a favore della cosca non è perseguibile in assenza dell’effettivo apporto e, quindi, dell’attivazione del soggetto nel senso indicatogli dal sodalizio. Essa non costituisce elemento sintomatico del concorso della partecipazione all’associazione. Tuttavia, è indubbio che possa essere oggetto di valutazione di prova in fase processuale in particolare dei riscontri ex art. 192, comma 3, del codice di procedura penale.
Da quanto si ora detto, appare chiara l’importanza di dover necessariamente definire, in modo chiaro e univoco, l’esatto confine tra la semplice connivenza e le condotte penalmente rilevanti: il concorso e la partecipazione all’associazione mafiosa.
Entrambe, è bene ricordarlo, esigono l’effettiva rilevanza causale del contributo a sostegno dell’associazione in ragione dei principi generali dell’ordinamento.
Il concorso, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, richiede che l’agente non sia inserito nella struttura organizzativa del sodalizio. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo egli è privo dell’affectio societatis e cioè della volontà di far parte dell’associazione. Ciò nonostante, l’agente deve essere consapevole dei metodi e dei fini della medesima nonché dell’efficacia causale della propria attività di sostegno.
Orbene, l’applicazione dell’art. 110 c.p. necessita dell’unità del disegno criminoso che inevitabilmente accomuna l’extraneus all’intraneus nell’intenzione di commettere lo stesso reato. Il dolo del concorrente si differenzia da quello del partecipe perché manca l’intenzione di affiliarsi.
Ne deriva che il soggetto inserito stabilmente nella struttura criminale con la piena coscienza e la volontà di essere parte integrante dell’associazione mafiosa non può essere qualificato quale concorrente esterno ad essa.
La partecipazione all’associazione non richiede formali rituali di affiliazione. Di talché, anche in loro assenza, la disponibilità nei confronti della cosca può certamente integrare il reato di cui all’art. 416 – bis c.p. a titolo di partecipazione, purché sia provata un’adesione stabile, permanente e volontaria dell’agente.
La Corte di Cassazione nella sentenza in esame, ha definito un “equivoco di fondo” l’apparente contrasto giurisprudenziale emerso circa l’interpretazione e la prova degli elementi caratterizzanti tale adesione.
La giurisprudenza di legittimità secondo cui «la prestazione di contributi in favore di una organizzazione mafiosa […] non è comunque risolutiva […] dell’intervenuta conclusione di un patto di appartenenza»[22] non smentisce l’orientamento per il quale «è partecipe ad associazione mafiosa chi […] si sia limitato a prestare la propria adesione con l’impegno di messa a disposizione giacché anche in tal modo il soggetto viene consapevolmente ad accrescere la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’organizzazione delinquenziale»[23].
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione si è soffermata sul concetto di affectio societatis. Esso consiste nella consapevolezza e la volontà di ciascun associato di far parte del sodalizio mafioso e di partecipare, con contributo causale dinamico e funzionale, alla realizzazione del programma criminale comune. L’accordo può ritenersi contratto solo ove risulti idoneo a ledere il bene giuridico protetto dalla norma penale. Tale idoneità, tuttavia, non è da sola sufficiente. Vi deve pur sempre essere una prova dell’avvenuta realizzazione dell’accordo e, quindi, un accertamento ex post. In ragione di tali principi, seguendo il ragionamento della Corte, la messa a disposizione, di per sé idonea, può ancheintegrare il reato di cui all’art. 416 bis c.p. purchè venga innanzitutto provata l’affectio societatis.
La disponibilità nei confronti della cosca, per essere punibile a titolo di partecipazione, deve dunque rivolgersi incondizionatamente al sodalizio ed essere di natura ed ampiezza tale da dimostrare la realizzazione permanente e volontaria ad ogni fine illecito da questo perseguito.
Al contrario, quando sia provato che la disponibilità è rivolta a singoli ovvero per il soddisfacimento d’interessi particolari, l’agente non può essere qualificato quale intraneus. La promessa o la prestazione di un apporto a specifiche attività, quand’anche indirettamente funzionali alla vita associativa, escludono in radice la partecipazione. Tale condotta può essere punibile a titolo di concorso quando esplica un’effettiva rilevanza causale per il rafforzamento e la conservazione delle capacità operative dell’organizzazione criminale.
Si tenga in ogni caso presente che, gli scopi associativi non si realizzano solo attraverso il compimento dei reati – fine. Essi possono essere raggiunti anche con l’attività di quella che è stata definita dalla giurisprudenza la “borghesia mafiosa”[24]. Si tratta del contributo di personaggi insospettabili, non necessariamente legati all’associazione con rituali formule, la cui alta professionalità e le specifiche competenze avvantaggiano il sodalizio, in qualche modo, favorendolo nella protezione dei membri, nell’ampliamento delle conoscenze e dell’influenza anche nella società civile. Se l’attività svolta dalla c.d. borghesia mafiosa risulta stabile, continua nel tempo, e provato il contributo nella sua efficacia causale, essa assume, senza alcun dubbio, le caratteristiche della partecipazione.
In sostanza, la Corte afferma che il soggetto a disposizione della cosca mafiosa può essere ritenuto sia intraneus che extraneus. «L’appartenenza all’una a all’altra categoria dipende solo ed esclusivamente dalla concreta situazione di fatto che spetta al giudice del merito individuare» alla luce dei criteri distintivi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità. Solo i riscontri fattuali possono qualificare la disponibilità dell’agente.
Nel caso di specie, si è accertato, in primo luogo, che l’indagato era a disposizione di tutti gli affiliati della cosca. Ne deriva che egli senz’altro consapevole dell’esistenza di un’associazione criminale verso la quale forniva il proprio supporto in termini di aiuto per la soluzione di questioni burocratiche attinenti l’ente in cui era stato eletto.
Peraltro, la disponibilità nei confronti di tutti i membri dell’associazione mafiosa esclude che il contributo fosse diretto al soddisfacimento di singoli interessi quand’anche indirettamente funzionali all’attività dell’organizzazione.
In secondo luogo, si è affermato che l’indagato era stato eletto con i voti della cosca e con essa intratteneva rapporti e frequentazioni così importanti da partecipare a consessi durante i quali il sodalizio affrontava tematiche di interesse operativo per la realizzazione del proprio disegno criminoso. Si è dimostrata, dunque, la consapevolezza ma anche la volontà di contribuire al raggiungimento dei fini dell’associazione. Allo stesso tempo una frequentazione così assidua da determinare il coinvolgimento in ristretti consessi organizzativi è stata indice di quella stabile e permanente compenetrazione necessaria a distinguere la condotta dell’intraneus.
In terzo luogo, il giudice di merito ha affermato che l’agente aveva assicurato un vantaggio ingiusto per la cosca. Si è dunque verificata la reale effettività del nesso causale tra la condotta dell’imputato e l’accrescimento delle potenzialità e delle capacità operative dell’associazione con inevitabile suo consolidamento.
Da tali elementi si è fatta discende ex post la sussistenza dell’affectio societatis non inteso come status di appartenenza, ma come ruolo dinamico e funzionale agli interessi della consorteria.
Invero, nel caso di specie, il movente inizialmente autonomo dell’agente è venuto a sovrapporsi con quello della cosca, sicché il soggetto da extraneus ha assunto gradualmente la posizione di intraneus. In altre parole, nel caso de quo, si è assistito ad un progressivo inserimento dell’agente nel sodalizio, a riprova di come la messa a disposizione debba essere valutata concretamente e fattualmente, analizzando le modalità con cui sessa viene posta in essere e gli effetti che ne discendono.
5. Lo scioglimento del vincolo associativo.
Sebbene non costituisse uno specifico oggetto di indagine, con la sentenza in epigrafe la Corte ha affrontato, seppur marginalmente, il tema dello scioglimento del vincolo associativo.
La Suprema Corte è stata chiamata, tra l’altro, a pronunciarsi in merito alla richiesta si scarcerazione del ricorrente ,che a sua difesa, aveva obiettato adducendo l’impossibilità di ricoprire un ruolo nell’associazione mafiosa, data la dichiarazione di incandidabilità resa nei suoi confronti.
Orbene, gli ermellini hanno ribadito come l’incandidabilià dell’uomo politico che abbia prestato la propria disponibilità a favore della cosca possa essere in alcun modo considerata causa automatica di scioglimento del vincolo associativo e di conseguenza, continua ad applicare la presunzione di cui all’art. 275, comma 3, c.p.p.
Invero, la norma prevede che nel caso di gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all’art. 416 – bis c.p., si applichi la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti l’insussistenza di esigenze cautelari.
A tal riguardo la Corte ha censurato la richiesta del ricorrente ponendo l’accento sulla distinzione tra associazione mafiosa ed il ruolo assunto all’interno dell’organizzazione.
La condotta di partecipazione prevista delle fattispecie delittuosa dell’associazione mafiosa ex art. 416 –bis c.p. è a forma libera. Quindi, il comportamento del partecipe può articolarsi in diverse forme e con diverse metodologie, purché il contributo rafforzi e consolidi l’organizzazione criminosa.
La lesione degli interessi tutelati dalla norma penale si verifica qualunque sia il ruolo assunto dal partecipe e quindi anche a prescindere da esso. A maggior ragione, quando il ruolo assunto viene a mancare per una causa indipendente dalla volontà dell’associato tale carenza non esclude il vincolo. Invero, esso sussiste indipendentemente dal ruolo svolto all’interno dell’associazione. Peraltro, l’impossibilità di svolgere ruoli politici non esclude che l’affiliato possa assumere una funzione all’interno del sodalizio. A ben vedere, anche nel caso di specie, il ruolo assunto dal politico consisteva nel contributo da esso fornito nel supporto della cosca avvantaggiandola nel rapporto con la pubblica amministrazione. Esso derivava ma non coincideva con la funzione pubblica per la quale era stato eletto.
Non v’è dubbio alcuno che lo stesso contributo poteva essere fornito dall’affiliato con altre e diverse modalità, come, ad esempio, attingendo nella cerchia delle proprie conoscenze e nella rete relazionale consolidata nel tempo perché legata dallo stesso incarico elettivo.
Pertanto, la mancanza e l’impossibilità di ricoprire un incarico elettivo non costituisce di per sé causa ostativa né estintiva del rapporto ormai stabilmente instaurato con gli altri membri dell’associazione, sicché esso si protrae per un tempo indeterminato sino allo scioglimento della consorteria ovvero al recesso volontario dell’affiliato.
6. Conclusioni.
Giunti al termine di queste sommarie annotazioni, dovrebbe risultare chiaro, forse, che i problemi del concorso «esterno», che certamente non si pretendono esaurirsi in questa sede, riguardano i problemi comuni al concorso di persone nel reato, resi più vistosi ed acuti dalla peculiare fenomenologia che il concorso «esterno» presenta e che risulta singolarmente idonea ad esaltare, sino all’esasperazione, le difficoltà che le tematiche concorsuali comportano.
Da questo punto di vista, il concorso «esterno» funge da cartina di tornasole di una patologia o di un disagio che lo coinvolgono, ma che in esso non si esauriscono affatto.
La necessità di un nuovo modo di pensare il concorso di persone, di una revisione profonda delle categorie concettuali che senz’ordine e senza consistenza, hanno sinora fornito solo sconnesse stampelle dogmatiche, appare ineludibile; tanto più se si considera che una riforma legislativa del concorso di persone (e, quindi, del codice penale) è di là da venire, ed anzi, s’allontana dall’approdo come un vascello alla deriva.
Se con la labilità normativa che caratterizza l’istituto bisognerà verosimilmente convivere ancora a lungo, sarebbe tempo di ristrutturare un edificio che, piaccia o non piaccia, bisognerà continuare ad abitare[25].
Bisognerà, quindi, che il legislatore provveda in materia, prima che la situazione diventi insostenibile.
Peraltro, va segnalata, al riguardo, la sentenza della CEDU, resa in tema di tassatività della norma penale[26]. La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in particolare, si è pronunciata in questa delicata e fondamentale materia in occasione della causa Contrada c/ Italia.
Una lite questa dove, da una parte il ricorrente mette in risalto il principio di tassatività della norma penale, sostenendo che all'epoca dei fatti al lui ascritti (1979 -1988) lo specifico reato addebitato non era prevedibile essendo il frutto dell'evoluzione giurisprudenziale successiva, definitivamente consolidata nel 1994.
Sul fronte opposto il Governo sposta l'attenzione della Corte sul fatto che la giurisprudenza aveva in realtà, già prima dell'epoca di contestazione dei fatti, individuato e riconosciuto lo specifico reato (1968 – 1989).
La soluzione data al problema è che il ricorrente si può considerare responsabile solo se all'epoca dei fatti poteva conoscere legalmente le conseguenze dei suoi atti sul versante penale: abbiamo visto che tale conoscibilità è data se -e solo se- esiste prima una norma che disciplina la fattispecie incriminatrice.
Ora, se il reato di cui si discute è di creazione giurisprudenziale, si perviene a soluzione del quesito individuando il momento preciso in cui è ammessa esplicitamente l'esistenza di tale figura delittuosa: se i fatti contestati ricadono in quel lasso temporale allora la condotta sarà punibile, altrimenti no.
Nella vicenda Contrada, si è accertato in sede europea, che nella remota epoca dei fatti il reato addebitato (concorso esterno per associazione mafiosa) non era ancora ben delineato nelle sue forme essenziali: vi è stata pertanto una conclamata violazione dell'art. 7 della C.E.D.U.[27]
Quindi, nessuna condanna se all’epoca dei fatti il reato non era ben definito e riconosciuto.
Tornando allo specifico caso della sentenza qui esaminata, va detto che questa presneta punti di pregio nella misura in cui ha delineato, in modo netto, le caratteristiche distintive rispettivamente del concorrente e del partecipe, con particolare attenzione alle modalità di accertamento del vincolo associativo.
Come detto, ci si auspica che il Legislatore non confidi nel solo lavoro ermeneutico della giurisprudenza, che molto spesso, con voli pindarici, in materia, si è ritrovata a dover colmare il vuoto di disciplina, che rischiava e rischia tuttora di lasciare ampi margini di manovra alle organizzazioni criminali.
Nelle vesti di interpreti, gli ermellini hanno costantemente sollecitato i giudici di merito a motivare con la maggiore compiutezza e precisione possibile, tutti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 416 - bis c.p.
Così è accaduto nella sentenza in esame, attraverso l’annullamento con rinvio di una sentenza di condanna poi confermata. Così è avvenuto, come visto in precedenza, nelle risalenti pronunce, quali, una per tutte, quelle attinenti al caso Dell’Utri. Così sta accadendo nei ancora pendenti.
Si pensi al recente annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Torino delle sentenze di condanna degli imputati coinvolti nel processo c.d. Minotauro[28] per carenza di motivazione circa la sussistenza del metodo mafioso e del contesto organizzato in cui si sviluppa.
L’atteggiamento della Suprema Corte nel vaglio delle sentenze relative al reato di associazione di tipo mafioso è, e non potrebbe essere diversamente, senza dubbio di estremo rigore e di questo rigore la sentenza in epigrafe ne è una chiara manifestazione che contribuisce senz’altro a mitigare quelle incertezze giurisprudenziali registratesi dopo le ultime pronunce della Corte di cassazione a Sezioni Unite.
[1] T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno.
[2] Cass., Sez. V, 9 marzo 2012, P.M. in proc. Dell’Utri, in archivio penale.it,.
[3] T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno, cit.
[4] Cass., Sez. Un., 5 ottobre 1994, Demitry, in Mass. Uff., n. 199386
[5] Cass., Sez. Un., 27 settembre 1995, Mannino, in Mass. Uff., n. 202904.
[6] Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, Carnevale, in Mass. Uff., n. 224181.
[7] Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, Mannino, in Mass. Uff., n. 231671.
[8] T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno, in Archivio penale 2012 n. 2, cit.
[9] Cass. Pen., Sez. Un., 05 ottobre 1994, n. 16. (dep. 28/12/1994 ) Rv. 199386 Presidente: Zucconi Galli Fonseca F. Estensore: Battisti M. Imputato: Demitry. P.M. Aponte.
[10] T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno
[11] F. STELLA, La ‘descrizione’ dell’evento, Milano 1970, 4.
[12] F. STELLA, op. cit., 174.
[13] Cass. Pen., V, 15 maggio 2006, n. 16493.
[14] A. Montaruli, La disponibilità verso la cosca mafiosa tra concorso esterno e partecipazione all’associazione, in Diritto e Giurisprudenza commentata, Rivista n. 2, DIKE, 2015.
[15] Cass. Pen., Sez. V, 1 giugno 2007, n. 21648.
[16] Cass. Pen. Sez. IV, 13 giugno 2007.
[17] Cass. Pen., Sez. V, 9 marzo 2012, n. 15727
[18] Corte d’App. Palermo, Sez. II, 29 giugno 2010, n. 378.
[19] Si rammenta che i fatti ascritti all’imputato risalgono al periodo 1983-1992.
[20] Corte d’App. Palermo, Sez. III, 25 maggio 2013, n. 1352.
[21] Cass. Pen., Sez. I, 9 maggio 2014, n. 28225.
[22] Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2014, n. 16958.
[23] Cass., Pen., Sez. I, 16 giugno 1992, n. 6992.
[24] Cass. Pen., Sez. II, 20 aprile 2012, n. 18797.
[25] T. Padovani, Note sul c.d. concorso esterno, cit.
[26] Sentenza del 14 aprile 2015 - quarta sezione, ricorso n. 66655/13, 14.04. 2015 - sentenza Contrada.
[27] L’articolo7 della C.E.D.U., rubricato Nulla poena sine lege , così recita:
1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.
2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
Innanzitutto l'art. 7 si inquadra in un più generale sistema di protezione voluto dalla Convenzione in forza del quale non si permette deroga alcuna ai principi base della stessa, neppure in tempo di guerra o in qualsiasi altro caso, ad esempio in occasione di un possibile pericolo idoneo a minacciare concretamente la vita nazionale.
Questo significa che il criterio di fondo attiene alla protezione effettiva dei cittadini e non alla loro protezione astratta: in altri termini deve sussistere uno scudo contro eventuali azioni penali e condanne che possano condurre a sanzioni non giustificabili e, in ultima analisi, arbitrarie. L'art. 7 richiama quindi il principio di legalità dei delitti e delle pene. La funzione concreta di questo concetto ruota intorno all'esigenza di non permettere un' incolpazione nel caso manchi una specifica norma scritta al momento in cui viene commesso il fatto incriminato. La Corte quindi interviene per controllare se l'atto si può considerare veramente punibile all'epoca in cui è stato commesso.
[28] Si tratta di un processo che vede coinvolti esponenti della Ndrangheta. Tra gli imputati anche l'ex sindaco di Leinì Nevio Coral, al quale sono stati inflitti (con riduzione della pena) otto anni di carcere. E' terminato con 45 condanne e 25 assoluzioni, il processo d'appello dell'inchiesta Minotauro sulla presenza della 'ndrangheta nel Torinese. In primo grado le condanne erano state 36.