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Pubbl. Mer, 10 Giu 2015

Ineleggibilità, decadenza e sospensione dalle cariche elettive: l’analisi a due anni dall’entrata in vigore della Legge "Severino" e collegati

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Maria Pina Di Blasio


Sono molti i problemi dal punto di vista politico e giuridico che questa legge ha causato, sollevando dubbi di costituzionalità da più parti e facendo storcere il naso a gran parte della dottrina.


Sommario: 1. Premessa. – 2. La c.d. “Legge Severino”. – 3. La natura giuridica delle misure previste dal decreto n. 235. – 4. La questione di costituzionalità del decreto n. 235. – 5. La sospensione dalla carica per condanne non definitive e la discrezionalità del Prefetto. – 6. Conclusioni.

 

1.   Premessa. –  La L. 6 novembre 2012, n. 190 ha, come è noto, introdotto una serie di disposizioni dirette a contrastare con maggiore efficacia il fenomeno corruttivo all’interno della Pubblica Amministrazione. Ai sensi dell’art. 1, comma 1, tale disciplina è stata introdotta «in attuazione dell'articolo 6 della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell'ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della legge 3 agosto 2009, n. 116, e degli articoli 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e ratificata ai sensi della legge 28 giugno 2012, n.110», al fine di individuare «l’Autorità nazionale anticorruzione e gli altri organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione».

Nel quadro di questa complessa e articolata disciplina, è stata inoltre prevista una delega legislativa al Governo per introdurre «un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali» (art. 1, c. 63). Tale delega è stata successivamente attuata con il d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 [1].

Di seguito, dopo avere brevemente analizzato la disciplina contenuta nella Legge Severino, si darà conto del dibattito sorto dopo le prime applicazioni della legge e attualmente in corso, vertente attorno all’annosa questione, che non è solo metodologica, della natura giuridica delle misure previste dal decreto n. 235 (ineleggibilità, decadenza e sospensione dalle cariche elettive in ipotesi di determinate condanne penali).

Ciò appare dirimente, non solo sotto un profilo dogmatico ma anche e soprattutto pratico, dal momento che dalla esatta qualificazione di tale natura discendono conseguenze di non poco momento, in ordine all’applicazione ratione temporis della disciplina  e all’esatta  individuazione del suo spettro applicativo.

Si tratta di problematiche, queste, che sollevano, allo stato attuale della giurisprudenza, più di un dubbio sulla loro compatibilità col dettato costituzionale.

 

2.   La c.d. “Legge Severino”. – Cio posto, è possibile ora analizzare, seppur brevemente, il contenuto del decreto n. 235.

Il d.lgs. n. 235/2012 esordisce con la disciplina della incandidabilità rispetto al contesto nazionale ed europeo (Capi I e II), per poi proseguire occupandosi dei livelli sub-statali (Capi III e IV) ed infine prevedere alcune disposizioni comuni ai due ambiti (Capo V).

L’elemento di maggior novità introdotto consiste proprio nell’estensione dell’incandidabilità anche alla carica di parlamentare nazionale ed europeo. L’art. 1 delinea infatti tre categorie di ipotesi di reato rispetto alle quali la sentenza penale di condanna definitiva [2] implica il verificarsi della condizione di incandidabilità a tali cariche [3].

Il D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (noto come “Legge Severino”, in G.U. 4 gennaio 2013, n. 3), invero,  nel quadro di una più complessiva attività di contrasto ai sempre più diffusi fenomeni corruttivi nell’apparato della pubblica amministrazione [4] e in un'ottica di complessiva sistematizzazione e coordinamento di tutte le disposizioni previgenti [5], regolamenta esaustivamente la materia, enumerando le cause ostative ad assumere cariche elettive regionali [6].

Tuttavia, nonostante le nobili finalità che costituiscono la ratio della novella e che hanno ispirato il Legislatore del 2012, il D. Lgs. n. 235  è stato oggetto di numerosi dibattiti applicativi ed esegetici, che hanno finito per investire la stessa legittimità costituzionale del nuovo impianto normativo [7].

Come detto, il D. Lgs. 235/2012, è stato emanato in attuazione della delega conferita al Governo dall’art. 1, commi 63 e 64, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. legge anticorruzione), con la precipua finalità di far fronte al problema del fenomeno corruttivo nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, disciplinando le ipotesi di esclusione dall’accesso alle cariche elettive in caso di condanna per taluni reati (o la decadenza, ove la sentenza di condanna sopravvenga all’avvenuta elezione).

Segnatamente viene in rilevo  l’art. 10, il quale espressamente prevede che: “Non possono essere candidati alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e non possono comunque ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all’art. 114 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, presidente e componente degli organi delle comunità montane” coloro che hanno riportato condanna definitiva per taluni reati, tassativamente indicati dalla norma (quali il delitto di associazione mafiosa o finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti; i delitti di produzione o traffico di sostanze droganti; taluni delitti in materia di fabbricazione, vendita o detenzione di armi; i delitti contro la P.A., ex artt. 314 – 346-bis c.p.; i delitti commessi con abuso o violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio; i delitti non colposi puniti con una pena superiore ad una specifica soglia edittale) ovvero per i soggetti attinti da misura di prevenzione.

Ove la condanna sopravvenga all’elezione, la norma sancisce la nullità della nomina, obbligando l’organo che ha provveduto alla convalida dell’elezione a dichiarare la decadenza [8].

L’art. 10, invero, va letto in combinato disposto col successivo art. 11, il quale, a sua volta, si occupa dei casi in cui la condanna in sede penale non sia definitiva. Per tale evenienza, la norma dispone la sospensione di diritto dei soggetti colpiti dalla sentenza di condanna per un periodo massimo di diciotto mesi, decorsi i quali la sospensione cessa di diritto di produrre i suoi effetti. Resta fermo che la sospensione cessa quando, anche prima del decorso del suindicato termine, sopraggiunga una sentenza, anche se non passata in giudicato, di non luogo a procedere, di proscioglimento o di assoluzione. Di contro, la sospensione si cristallizza e diviene definitiva, mutandosi nel più grave istituto della decadenza, a far data dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna [9].

Infine, l’art. 15 della Legge Severino chiarisce che l’incandidabilità produce i suoi effetti indipendentemente dalla concomitanza della limitazione del diritto di elettorato attivo e passivo derivante dall’applicazione di eventuali altre, omologhe, pene accessorie previste da ulteriori e diverse previsioni normative [10].

 

3.   La natura giuridica delle misure previste dal decreto n. 235. – La norma, per la sua formulazione letterale, non sembra, almeno prima facie, presentare alcuna difficoltà interpretativa. Tuttavia, all’indomani dell’entrata in vigore,  non sono mancati problemi in merito all’applicazione della stessa.

In particolare, si è formato un massiccio contenzioso, che investe principalmente due profili: l’applicabilità della legge Severino anche in caso di condanne pronunciate prima dell’entrata in vigore del decreto, e l’incidenza da riconoscersi alle vicende penalistiche di estinzione del reato-base per il quale è stata emanata la pronuncia di condanna sulla decadenza e/o sospensione dalla carica[11].

È di chiara evidenza che, sulla base di quanto sopra esposto, la soluzione di tali quesiti dipende dalla esatta individuazione della natura giuridica delle misure introdotte dal D. Lgs. n. 235, la cui qualificazione – in termini penali o amministrativi – oltre che a condurre a conclusioni diverse in ordine ai profili applicativi, svolge un ruolo fondamentale anche nella valutazione della legittimità costituzionale del nuovo assetto normativo.

In sede di prime applicazioni del decreto, come detto, si sono registrati numerose impugnazioni di provvedimenti di decadenza e/o sospensione dalle cariche elettive, investendo, in gran parte, i provvedimenti con i quali vengono esclusi dalle liste di candidati, ovvero veniva dichiarata la sospensione o la decadenza da cariche già conseguite di soggetti colpiti da una sentenza di condanna pronunciata prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 235/2012.

Ci si è chiesti se le sentenze di condanna per uno dei reati enunciati dall’art. 10, pronunciate prima dell’entrata in vigore della Legge Severino, valgono a integrare le nuove ipotesi di incandidabilità? O viceversa il D. Lgs. n. 235 deve applicarsi solo pro futuro, e quindi per le sole statuizioni di condanna adottate dopo l’entrata in vigore del decreto stesso?

Se questi sono i termini del problema, è evidente che la sua soluzione passa inevitabilmente attraverso l’individuazione della esatta natura della prescrizione di incandidabilità (come di sospensione e di decadenza) di cui al decreto n. 235: ove si trattasse di vera e propria sanzione penale, infatti, la norma non potrebbe operare che per il futuro, in ossequio al principio dell’irretroattività della legge penale, di cui all’art. 25 Cost. (oltre che a livello di formazione primaria, dall’art. 2 c.p.).

Come è noto, infatti, in teoria generale del diritto penale, le norme incriminatrici e più in generale tutte quelle che dispongono l’irrogazione di una pena, soggiacciono al principio di legalità e a tutti i suoi corollari, primo fra tutti il principio di irretroattività, in virtù del quale, per poter garantire il diritto all’autodeterminazione e all’assunzione di scelte libere e consapevoli da parte dei consociati, una norma penale non può che disporre per il futuro. Il contenuto nell’art. 25 Cost., dunque, è rivolto essenzialmente al legislatore oltre che al giudice. Il primo non può punire fatti che al momento della loro commissione non costituivano reato, o che, pur costituendo reato, erano puniti meno severamente; il secondo non può applicare al reo norme penali sfavorevoli, sia sotto il profilo dell’incriminazione che sul crinale del trattamento sanzionatorio [12].

Infine, va rammentato che il principio di irretroattività della sanzione sorregge anche le norme che comminano sanzioni amministrative: l’art. 1 della L. 689/1981, rubricato “Principio di legalità”, prevede che nessuno possa essere assoggettato a sanzioni amministrative, se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.

Delineato sinteticamente il quadro generale in cui si inserisce la legge 235  del 2012, va detto che la giurisprudenza costantemente e unanimemente non nega  che l’incandidabilità,  la sospensione e la decadenza contemplate  dalla Legge Severino abbiano natura penale: si ritiene che quella che il legislatore ha disciplinato nel 2012 non sia una sanzione ad una condotta penalmente rilevante, bensì un presupposto di operatività conclamante l’inidoneità del condannato a svolgere mansioni pubbliche. L’incandidabilità, dunque, non è un aspetto del trattamento sanzionatorio connesso alla commissione del reato, né un suo elemento costitutivo: pertanto deve escludersi in radice che abbia “natura, neppure in senso ampio, sanzionatoria”.

Secondo la giurisprudenza, dunque, va negata la natura sanzionatoria (e non solo penale) della misura in esame in quanto la sentenza di condanna per i reati indicati dalla legge non è finalizzata a rafforzare il sistema sanzionatorio di taluni reati, non rappresentando un effetto penale o una sanzione accessoria, quanto piuttosto produce un effetto di natura amministrativa.

Una tale soluzione è supportata dalla stessa ratio che giustifica l’emanazione del decreto 235, finalizzata, come è noto, ad "allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia" [13].

Pertanto, l’incandidabilità, la decadenza o la sospensione non si inseriscono in una fattispecie complessivamente penalistica né costituiscono un pena accessoria, ma, al contrario, la condanna in sede penale costituisce un mero presupposto, in presenza del quale l’ordinamento riformula un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire  determinate cariche elettive.

La mancanza di condanne per taluni reati, dunque, lungi dal rilevare sul piano strettamente penale (con la conseguente soggezione ai relativi principi che presidiano la materia), assurge a elemento costitutivo di una fattispecie non penale, atto ad attribuire la capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica.

Si tratta, secondo la giurisprudenza, di una opzione legislativa assolutamente ragionevole, diretta conseguenza della particolare gravità di determinati reati, atti a minare in concreto i valori di imparzialità, buon andamento dell’azione amministrativa e il prestigio delle cariche elettive con eguale incidenza, indipendentemente dalla circostanza del fatto che il  reato sia stato posto in essere anteriormente alla data di entrata in vigore della Legge Severino.

Una conferma di tale ricostruzione, peraltro, è rinvenibile nel dettato stesso della legge. Infatti, l’art. 16 del D. Lgs. n. 235 espressamente afferma che “Per incadidabilità di cui ai Capi I e II, e per quelle di cui ai Capi III e IV non già rinvenibili nella disciplina previgente, la disposizione del comma 1 dell’articolo 15 si applica alle sentenze previste dall’art. 444 del codice di procedura penale pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore del presente testo unico”.  Si è infatti evidenziato che “In materia elettorale, pur se è vero che l’art. 16 comma 1 D. L.vo 31 dicembre 2012 n. 235 esclude la candidabilità per le sole sentenze di patteggiamento pronunciate successivamente alla data di entrata in vigore del detto decreto e pertanto ammette che possa essere candidato in una elezione chi ha patteggiato una condanna penale prima dell’entrata in vigore della normativa sui requisiti morali per l’accesso alle cariche amministrative e politiche, è altresì vero che nel silenzio della legge in merito alle sentenze penali di condanna non patteggiate deve ritenersi che l’effetto afflittivo della non candidabilità sia riferibile anche a tali sentenze di condanna antecedenti all’entrata in vigore delle dette disposizioni trattandosi di legge extrapenale che può anche avere effetto retroattivo senza che ciò collida con i principi generali e con le norme costituzionali [14].

Sotto un profilo strettamente applicativo ne discende che, il fatto che le sentenze in questione siano state eventualmente pronunciate prima dell’entrata in vigore del decreto n. 235, non osta alla piena operatività di quest’ultimo, con la conseguente ed automatica esclusione dei candidati dalle liste o, se già incaricati, l’automatica decadenza dalla carica. La natura non sanzionatoria delle cause ostative, infatti, comporta l’applicazione del principio tempus regit actum, in ossequio all’art. 11 delle preleggi sull’efficacia della legge nel tempo: pertanto, "l’esercizio del potere amministrativo – di cui la cancellazione o la decadenza – deve tener conto delle norme in vigore nel momento del suo espletamento" [15].

In definitiva, l’esclusione dalla lista di candidati o la sopravvenuta nullità della candidatura in applicazione di una sentenza irrevocabile di condanna pubblicata prima dell’entrata in vigore del decreto, non configura un caso di applicazione retroattiva di una legge penale, in contrasto con l’art. 25 Cost., in quanto si tratta di una fattispecie per sua natura non assoggettata al principio di irretroattività.  Le misure in questione, infatti, si sostanziano in un mero accertamento della mancanza – originaria o sopravvenuta che sia – di tutti i presupposti legittimanti l’accesso alle cariche elettive e all’esercizio delle relative funzioni.

Una tale soluzione, peraltro, sembra essere l’unica idonea a garantire la piena conformità delle norme al dettato costituzionale: la qualificazione della natura delle misure comminate dalla Legge Severino, e la conseguente applicazione della relativa disciplina solo pro futuro, comporterebbe un’inevitabile violazione dell’art. 3 Cost., in ragione di un’evidente disparità di trattamento, con un diverso giudizio di indegnità morale del candidato a seconda della diversa collocazione temporale del momento consumativo di un identico fatto di reato. E una tale soluzione ermeneutica sarebbe inaccettabile.

Tale ricostruzione, tuttavia, non è del tutto pacifica nè in dottrina né in giurisprudenza. Invero è avversata da quanti rinvengono un argomento decisivo a favore della natura penale della misura ex art. 15, comma 2, del D. Lgs. 235/2012 il quale, nel prevedere l’autonomia degli effetti dell’incandidabilità rispetto all’interdizione temporale dai pubblici uffici, evidenzia una parificazione quoad effectum delle due misure [16].

 

4.   La questione di costituzionalità del decreto n. 235. - L’interpretazione autorevolissima fornita dalla giurisprudenza non è valsa a fugare i dubbi di costituzionalità della disciplina in esame, tant’è che il T.A.R. di Napoli, con pronuncia della Sezione I, 30 ottobre 2014, n. 1801, ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 D. Lgs. 135/2012.

In particolare, i giudici amministrativi campani hanno dubitato della compatibilità con la Costituzione della disposizione in questione con gli artt. 2, 4, comma 2, 51, comma 1 e 97, comma 2 Cost., ritenendo che la modalità applicativa della predetta disposizione leda il principio di irretroattività delle norme. I giudici partenopei, pur aderendo in linea di principio alla tesi della giurisprudenza maggioritaria in ordine alla esclusione della violazione del principio  di irretroattività ad opera della Legge Severino (in quanto la condanna penale costituisce un mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di indegnità morale a ricoprire determinate cariche elettive), osservano che tali conclusioni non possono trovare applicazione nell’ipotesi in cui ad essere contestata non sia la misura della decadenza (presupponente una sentenza irrevocabile), bensì l’istituto della sospensione, avente come presupposto una sentenza di condanna non ancora cristallizzatasi.

In altri termini, se il presupposto delle valutazioni sopra riportate è rappresentato dalla indegnità morale, quale criterio idoneo a inibire l’accesso a una carica pubblica o decretarne la sua decadenza, tale condizione non può certo individuarsi nell’ipotesi in cui la sentenza di condanna non sia dotata del carattere dell’irrevocabilità.

Ciò espone inevitabilmente il decreto a dubbi di illegittimità costituzionale sotto due diversi profili.

Per un verso, l’incostituzionalità della norma sarebbe palese ove si aderisse a quell’orientamento minoritario che attribuisce all’istituto della sospensione natura di sanzione penale. Per altro verso vi è l’orientamento maggioritario, che individua la ratio legis dell’intervento normativo nella sola esigenza di preservare l’Amministrazione Pubblica dalla presenza al suo interno di operatori moralmente indegni, e tale giudizio di inidoneità pare essere automaticamente applicato. Ciò inevitabilmente crea una distanza da quel punto di equilibrio, che deve necessariamente sussistere, tra l’allontanamento del moralmente indegno e il rispetto del diritto, costituzionalmente previsto e garantito, di elettorato attivo e passivo.

Peraltro, è stato rilevato che, anche a  voler  aderire alla tesi maggioritaria, che esclude la natura penale delle misure in esame, i dubbi di incostituzionalità permangono. Ed infatti, secondo il Tribunale campano, la capacità di una norma sanzionatoria di “guardare al passato”, anche se di natura penale, “urta con la pienezza e il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti tutte le volte in cui la Carta rimette alla disciplina legislativa il regime ordinario di esercizio di quel diritto”. Ne deriva che, ove la disciplina di alcuni diritti fondamentali sia riservata alla legge ordinaria, le norme disciplinanti il predetto diritto assumono anch’esso rango costituzionale. Da ciò discende che se il divieto di retroattività di cui all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale rappresenta estrinsecazione del principio dell’efficacia della legge nel tempo, la sua violazione si traduce in una lesione costituzionale [17].

Non resta dunque che attendere la risposta che sul punto fornirà il Giudice delle Leggi.

 

5.   La sospensione dalla carica per condanne non definitive e la discrezionalità del Prefetto. – Un ulteriore profilo di dubbi sotto il profilo ermeneutico che la normativa in esame pone, e che non è sfuggita alle cesure di attenta giurisprudenza e autorevole dottrina, attiene alla natura del potere riconosciuto in capo al Prefetto nell’applicazione della misura della sospensione dai pubblici uffici.

In particolare, il problema riguarda, a stretto giro, il comma 5 dell’art. 11, il quale dispone che, ove vengano adottati provvedimenti giudiziari che comportano la sospensione dalla carica, essi debbano essere comunicati dalla cancelleria del Tribunale o della segreteria del pubblico ministero al Prefetto, il quale, accertata la sussistenza di una causa di sospensione, provvede a notificare il relativo provvedimento agli organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la nomina [18].

Il dato normativo, per come formulato, apre scenari interpretativi sulla reale portata del potere del Prefetto nel rendere esecutiva la sanzione. Ci si è chiesti se quest’ultimo va riconosciuto un potere di sospensione di tipo vincolato, che si sostanzia nel mero accertamento della sussistenza dei presupposti che impongono l’adozione  del provvedimento di cui all’art. 11, o viceversa gode di un potere altamente discrezionale?

Il problema si è posto essenzialmente con riferimento al caso in cui in sede penale venga concessa la sospensione condizionale della pena, qualora sia contenuta entro specifici limiti di reclusione (art. 163 c.p.). A seguito della sospensione della pena, il legislatore attribuisce all’autonomia decisionale dell’imputato il potere di estinguere il reato, qualora questi, nei termini stabiliti, non ponga in essere altre condotte delittuose della stessa indole e adempia agli obblighi imposti (art. 167 c.p.).

Sul punto la legge Severino nulla dice. Ed allora va dunque verificato se la sospensione condizionale della pena possa incidere sull’applicazione dell’art. 11, abilitando il Prefetto a soprassedere alla sospensione, ovvero se l’istituto penalistico resta del tutto autonomo e distinto da quello consacrato dal D. Lgs. n. 235, con la conseguenza che l’ambito applicativo di quest’ultimo resta indifferente alla vicenda - strettamente penalistica - della sospensione di cui all’art. 163 e ss. c.p.

Sulla questione si contendono il campo sostanzialmente due diverse scuole di pensiero collegate a due diverse interpretazioni ermeneutiche.

La prima, ritiene che la sospensione condizionale della pena limiterebbe l’applicazione della sanzione della sospensione dai pubblici uffici, atteso che, se la condanna rappresenta il presupposto applicativo della sanzione amministrativa, la sospensione della prima comporta la naturale non applicazione della seconda. Da tanto ne deriva che, nel caso in cui la condanna intervenuta in sede giurisdizionale penale sia mitigata da una sospensione condizionale della pena, il Prefetto ha il potere di soprassedere alla notifica del provvedimento agli organi che hanno convalidato le elezioni o deliberato la nomina, non avendo riscontrato la sussistenza di una causa di sospensione.

Per altra diversa ricostruzione interpretativa, al contrario, l’istituto disciplinato dagli artt. 163 e ss. c.p. non interferisce minimamente con l’istituto in esame, atteso che quest’ultimo richiede, quale presupposto applicativo, la sola condanna penale non definitiva. In sostanza l’applicabilità della sanzione amministrativa in oggetto si fonda  sulla mera esistenza di una realtà fattuale conclamata in una sentenza, sebbene non defintiva, a nulla rilevando l’operatività di quegli istituti in grado di estinguere il reato o la pena, che rispondono alla diversa  finalità rieducativa della sanzione.

Né può sostenersi che l’intervenuta sospensione della condanna muterebbe i caratteri del presupposto per l’operatività della misura, costringendo ad un’inammissibile applicazione analogica dei motivi di incandidabilità. Infatti, come acutamente osservato in dottrina, “dal momento che il presupposto delle cause di incandidabilità è sempre rappresentato  da una sentenza definitiva, gli effetti della estinzione si estendono solo alle conseguenze penali (in concreto: la pena principale, le pene accessorie, alcuni degli effetti penali) della sentenza, senza arrivare a travolgere quest’ultima (nel suo contenuto di accertamento del fatto), che anzi – nel caso di specie – ne è il presupposto indispensabile (la sospensione condizionale implica la sentenza di condanna); né, tanto meno (sempre per le ragioni già richiamate) coinvolge il reato. Un simile effetto può, invero, essere traguardato solo da un diverso istituto, estraneo alle cause di estinzione del reato: quello della abolitio criminis. Infatti solo a seguito del mutare di tali presupposti (art. 2, comma 2, c.p.), è possibile per la parte richiedere la revoca della sentenza di condanna, con gli evidenti riflessi che ciò determinerebbe ai fini dell’applicazione dei motivi di incandidabilità [19].

Ed allora, se così è, il margine di discrezionalità attribuito al Prefetto risulta  fortemente ridimensionato, se non del tutto assente: infatti, se quest’ultimo deve limitarsi ad accertare la sussistenza di una causa di sospensione, e a verificare l’esistenza di una sentenza di condanna non definitiva, non residua alcun potere valutativo in ordine alla sussistenza di ulteriori elementi atti a mitigare l’indegnità morale del condannato a ricoprire un carica elettiva.

In questo senso, peraltro, sembra orientata anche la giurisprudenza: sul tema, tra le altre, assai significativa appare la decisione T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 08 ottobre 2013, n. 8696, secondo la quale "Ai sensi dell’art. 10 comma 1 lett. e) D. L.vo 31 dicembre 2012 n. 235, è legittima la dichiarazione di incandidabilità alle elezioni nei confronti di chi abbia riportato una condanna penale irrevocabile a pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo, tenendo presente che: a) la norma postula – proprio in applicazione dell’art. 51 Cost. – un’autonoma valutazione, sul piano dell’ordinamento elettorale amministrativo, del disvalore inerente alla condotta penale, a prescindere dalle commesse (anche successive) vicende rilevanti sul piano penalistico o di altri settori dell’ordinamento; b) ai fini del venir meno della causa di incandidabilità non rileva né il fatto che la condanna sia stata sottoposta a sospensione condizionale, né l’avvenuta concessione dell’indulto di cui alla L. 31 luglio 2006 n. 241, poiché l’incandidabilità non è  un aspetto del trattamento sanzionatorio penale del reato (che permane come fatto storico), ma si traduce nel difetto di un requisito soggettivo per l’elettorato passivo, con la conseguenza che è irrilevante la sopravvenuta estinzione del reato, ove non sia intervenuta la sentenza di riabilitazione, ai sensi degli artt. 178 e segg. cod. pen."

Va evidenziato, infine, come la questione in esame travalichi i confini della sola ipotesi della sospensione condizionale della pene, concretamente affrontata in giurisprudenza nelle prime applicazioni della legge Severino: la questione dell’incidenza delle vicende penali della condanna per il reato-base, infatti, investe tutte le cause di estinzione del reato, per le quali, anzi il problema si pone in termini ancora più stringenti ed immediati.

A differenza dell’istituto di cui agli artt. 163 c.p., che è costruita come una fattispecie di norma a formazione progressiva, contenente l’insieme della sospensione della pena e del decorso dei termini di legge senza che il reo commetta nuovi reati della stessa indole, le altre ipotesi di estinzione del reato comportano istantaneamente, per il solo verificarsi dell’evento previsto dalla legge, l’effetto estintivo del reato, con il conseguente problema di decidere della sorte del provvedimento di cui al decreto n. 325.

Il problema si pone, ad esempio, nei casi di amnstia propria (art. 151 c.p.), di prescrizione del reato (art. 157 c.p.), di oblazione (artt. 162 e 162-bis c.p.) e di perdono giudiziale (art. 169 c.p.). Naturalmente, nessun problema in caso di estinzione del reato per morte del reo, ex art. 150 c.p.

 

6.   Conclusioni. - Alla luce di tutto quanto detto e dei profili problematici sin qui passati in rassegna, emerge con tutta evidenza come le intenzioni del Legislatore del 2012 siano state smentite dalla realtà fattuale.

È indubbiamente apprezzabile l’intento del Legislatore di colpire con severità la contaminazione dell’apparato pubblico da fenomeni deprecabili, che hanno in sé un alto tasso di disvalore sotto il profilo della condotta e che potrebbero ictu oculi compromettere e ledere i principi di buon andamento, l’efficienza e l’imparzialità, a cui deve ispirarsi l’agere amministrativo in tutte le sue vesti, con la previsione di strumenti di immediato allontanamento dalla pubblica funzione di soggetti attinti da condanne penale.

E tuttavia, l’incerta formulazione del testo normativo, spesso carente  di indicazioni univoche, sia sul piano ontologico che su quello applicativo, finiscono con l’ingenerare troppe incertezze sull’effettiva portata della nuova disciplina, e quindi, sulla reale efficacia dei nuovi istituti, la cui nobile finalità potrebbe essere svilita da una incerta interpretazione.

A tale circostanza si aggiungono poi i dubbi di costituzionalità della Legge Severino che rischia di vanificarne l’effettiva portata innovativa. In un simile contesto, ancora una volta, come sempre più spesso accade, spetta alla giurisprudenza, anche costituzionale, il delicato compito di fornire in sede interpretativa le risposte, dogmatiche e operative, che il dato normativo del decreto n. 235/2012 non è in grado di soddisfare appieno.

 

 


Bibliografia

 

[1] A. Racca, Problematiche costituzionali del nuovo regime dell’”incandidabilità” per le cariche elettive (e di governo)  nell’ordinamento italiano, in Consultaonline.it.

[2] La Corte costituzionale, come è noto, nella sentenza 6 maggio 1996, n. 141, ha chiarito che «solo una sentenza irrevocabile, nella specie, può giustificare l'esclusione dei cittadini che intendono concorrere alle cariche elettive». 

[3] Ibidem

[4] La legge delega all’adozione del testo normativo in commento è “Legge Anticorruzione”, ovvero la Legge 6 novembre 2012, n. 190 recante «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione», meglio nota come «Legge anticorruzione», pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 13 novembre 2012, n. 265. Si tratta di una legge composta sostanzialmente da un articolo contenente 83 commi che prevede una serie di misure preventive e repressive contro la corruzione e l’illegalità nella pubblica amministrazione. Le disposizioni recate dai commi dell’articolo 1  pongono nuovi obblighi e adempimenti per le amministrazioni pubbliche, modifiche espresse a leggi vigenti, deleghe legislative e rinvii ad atti secondari da emanare. Le misure repressive che la legge vuole assicurare sono attuate grazie a modifiche del codice penale.

[5] A. Racca, Problematiche costituzionali del nuovo regime dell’”incandidabilità” per le cariche elettive (e di governo)  nell’ordinamento italiano, in Consultaonline.it (16 gennaio 2014); G. Zagrebelsky – V. Marcenò, Giustizia costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 105 ss.

[6] La previgente disciplina era contenuta nella Legge 19 marzo 1990, n. 55 (parzialmente modificata dalle leggi 18 gennaio 1992, n. 16 e 12 gennaio 1994, n. 30) abrogata dalla c.d. Legge Severino, che ne ha sostanzialmente recepito i contenuti.

[7] O. Toriello,  Il D. Lgs. Severino a due anni dalla sua entrata in vigore: luci e ombre della nuova disciplina in materia di incandidabilità, sospensione e decadenza dalle cariche elettive, in Diritto e giurisprudenza commentata, Rivista n. 2 – 2015Dike.

[8] In particolare, l’art. 10, al comma 4, prevede che: “Le sentenze definitive di condanna ed i provvedimenti di cui al comma 1, emesse nei confronti di presidenti di provincia, sindaci, presidenti di circoscrizione o consiglieri provinciali, comunali o circoscrizionali in carica, sono immediatamente comunicate, dal pubblico ministero presso cui il giudice indicato nell’art. 665 del codice di procedura penale, all’organo consiliare di rispettiva appartenenza, ai fini della dichiarazione di decadenza, ed al Prefetto territorialmente competente”.

[9] La stessa previsione è contenuta nell’art. 11 con riferimento all’applicazione di una misura di prevenzione.

[10] Il riferimento, in particolare, è al diverso istituto dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici o di una delle misure di prevenzione o di sicurezza di cui all’art. 2, lett. b) e c), del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali, di cui al D.P.R. 20 marzo 1967, n. 233.

[11] O. Toriello,  Il D. Lgs. Severino a due anni dalla sua entrata in vigore: luci e ombre della nuova disciplina in materia di incandidabilità, sospensione e decadenza dalle cariche elettive, cit.

[12] Peraltro, va aggiunto che il principio di irretroattività delle leggi penali, come consacrato dagli artt. 25 e 2 c.p., vanno coordinate con le conclusioni rassegnate dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo: la C.E.D.U., infatti, pur in sostanza ribadendo l’operatività del medesimo principio di irretroattività (art. 7 C.E.D.U.), rivendica piena autonomia nell’individuazione delle disposizioni penali e delle sanzioni dalle stesse comminate da ricondurre nell’ambito di applicazione del principio in esame. La portata applicativa dei principi convenzionali, infatti, estende il suo ambito di operatività al di là dei reati e delle pene come qualificati dal diritto interno, dovendo trovare applicazione per tutte le fattispecie “intrinsecamente penali” in base alla concezione autonomistica propria della C.E.D.U.: secondo i Giudici di Strasburgo, infatti, la nozione di “penalmente rilevante” ai fini del concreto rispetto della Convenzione derivano dall’interpretazione autonomamente fornita dalla stessa Corte, libera di valutare, appunto in via autonoma, se una misura costituisce una “pena” ai sensi della Convenzione. In particolare, la Corte di Strasburgo ha a più riprese ribadito la natura penale (e quindi irretroattiva) di talune sanzioni qualificate come “amministrative” dagli ordinamenti nazionali, sulla base di una nuova – ed appunto autonoma – valutazione della natura dell’illecito, della gravità della sanzione, come astrattamente individuata dal legislatore ed irrogata in concreto dal giudice, nonché degli scopi preventivi e repressivi dalla tessa perseguiti e dalle relative modalità di esecuzione.

 

[13] Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 2013, n. 695; Cons. Stato, Sez. V, 29 ottobre 2013, n. 5222.

[14] T.A.R. Molise, 1 febbraio 2013, n. 27.

[15] V. Marceno’, L’indegnità morale dei cittadini e il suo tempo, cit.. In giurisprudenza, ex multis, v. Cons. Stato, n. 695/2013.

[16] Dispone in particolare il comma 2 dell’art. 15 che: “L’incandidabilità disciplinata dal presente testo unico produce i suoi effetti indipendentemente dalla concomitanza con la limitazione del diritto di elettorato attivo e passivo derivante dall’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici o di una delle misure di prevenzione o di sicurezza di cui all’art. 2, lettera b) e c), del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali di cui al decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223”.

[17] T.A.R. di Napoli non ha aderito all’asserita incostituzionalità del decreto n. 235 in riferimento all’art. 76 Cost. – pure prospettata dai ricorrenti – in quanto la Legge Severino, introducendo gli istituti della sospensione e della decadenza, avrebbe travalicato i limiti imposti al legislatore delegato dalla legge delega: gli istituti in questione, infatti, costituiscono estrinsecazione di quel più generico concetto  di “misure inibitorie” richieste dal Parlamento nella legge delega. A parere del Tribunale Amministrativo, infatti, l’introduzione dello strumento interinale della sospensione non rappresenta uno straripamento della volontà legislativa così come espressa  nella delega, la stessa non rappresentando una misura  sanzionatoria che esula dal presupposto della sentenza condanna definitiva, ma più semplicemente uno strumento complementare all’unica vera misura sanzionatoria, qual è la decadenza. Ad analoghe conclusioni è pervenuta anche la terza Sezione il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 730 resa il 14 febbraio 2014. Nel rigettare la questione  di costituzionalità dell’istituto in esame per eccesso di delega, ha evidenziato che “La “sospensione” è per definizione, uno stato transitorio, necessariamente limitato nel tempo, e destinato a concludersi o con la definitiva cessazione dell’incarico (decadenza)  con la reintegrazione nelle funzioni. Sembra evidente dunque che la “sospensione” non possa  dipendere, per sua stessa natura, che da una condanna non definitiva

[18] Con riferimento all’ambito applicativo dell’istituto della sospensione, si segnala Cons. Stato, sez. V 06 ottobre 2014, n. 4992, il quale ha chiarito che la disciplina in esame è applicabile anche con riferimento alle nuove Province, atteso che l’art. 1 comma 69, l. 7 aprile 2014 n. 56 non ha inciso sulla natura elettorale degli organi provinciali, ma ne ha modificato solo l’elettorato, attribuendovi carattere di secondo grado. Pertanto, “è legittimo il provvedimento che non ammette all’elezione del Presidente e del Consiglio provinciale il Sindaco di un comune e un Consigliere comunale perché sospesi dalla carica a seguito di condanna penale con pronuncia di primo grado oggetto d’appello tuttora pendente”.

[19] B. Ponti,  La incandidabilità e gli effetti della estinzione del reato, nota a T.A.R. Lazio, Sez. II-bis, 08 ottobre 2013, n. 8696, in Giornale Dir. Amm., 2014, 4, 372.