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Pubbl. Gio, 19 Dic 2019

Procedimento amministrativo, accordi e contratti nella P.A. Norme e principi mutuati dal diritto civile

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Paolo Caponera


Analisi dei punti di contatto tra il diritto civile ed amministrativo, attraverso lo studio dei loro istituti cardine: valgono le medesime regole o debbono valutarsi le opportune eccezioni?


Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento amministrativo. Alcuni principi applicabili. – 3. Efficacia del provvedimento. – 4. Gli accordi integrativi e sostitutivi della Pubblica Amministrazione. – 5. La nullità ed annullabilità del provvedimento amministrativo. – 6. La revoca ed il recesso. – 7. La responsabilità extracontrattuale, precontrattuale, contrattuale della P.A. – 8. Il risarcimento in materia di lesione da interessi legittimi. – 9. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O. – 10. Conclusioni.

1. Premessa

Il diritto amministrativo ha numerosi punti di contatto con il diritto civile, ad esempio nella Legge n. 241/1990 nella versione riformata nel 2015.

Il diritto amministrativo interessa la Pubblica Amministrazione in generale, che svolge il ruolo di “immedesimazione organica” nei confronti di tutti coloro che lavorano nella stessa. Tale ruolo non può essere separato per l’operare di fatto di un inevitabile interessamento alla “vita”, alle norme “personali” dei lavoratori, pubblici dipendenti, che non possono dunque non essere disciplinate da norme privatistiche. Ecco, quindi, una prima ragione di connubio tra diritto amministrativo e diritto privato, o civile. La materia giuslavoristica è regolata dalla simbiosi tra i due tipi di diritto, come anche un’altra materia: quella degli appalti pubblici.

L’approfondimento che propongo in queste pagine investe in particolare: alcune riflessioni sul procedimento e provvedimento amministrativo e sui principi ivi operanti; l’efficacia del provvedimento; gli accordi integrativi e sostitutivi che possono essere stipulati dalla P.A.; la materia della nullità, annullabilità del provvedimento amministrativo, confrontata con quella dei contratti; il recesso e la revoca; la responsabilità extracontrattuale, precontrattuale, contrattuale, della P.A. confrontata con quelle rispettivamente previste dal codice civile, in materia anche di inadempimento delle obbligazioni; il risarcimento in materia di lesione da interessi legittimi; le materie di competenza del G.A. e del G.O.

2. Il procedimento amministrativo. Alcuni principi applicabili

Il procedimento amministrativo rappresenta uno degli esempi in cui si può notare come la sfera amministrativa non rimane isolata in sé, ma riceve un’attenzione alla vita dei cittadini, di tutti noi, a cui ho accennato in premessa, in una logica quindi anche privatistica, soprattutto nei principi che comportano per il privato di entrare in contatto con il procedimento amministrativo, in termini di partecipazione attiva in esso e di semplificazione.

Giova spiegare brevemente cosa si intenda per procedimento amministrativo.

Il procedimento amministrativo è definito come una fattispecie a formazione progressiva[1] in quanto costituito da un serie logico-consequenziale di atti, iniziali ed intermedi, che scaturiscono in un atto finale, che prende il nome di provvedimento amministrativo, che può essere di rigetto o di accoglimento dell’istanza presentata. Gli atti iniziali ed intermedi fanno riferimento a quelle che vengono definite le fasi del procedimento amministrativo, che nell’ordine sono: la fase dell’iniziativa; della istruttoria; decisoria e quella cd. integrativa dell’efficacia.

In tale ambito rientrano, alla luce dell’evoluzione normativa che ha interessato la Legge n. 241/1990: il principio di partecipazione dell’istante, inteso come cittadino, interessato, o stakeholder in generale (portatore di interesse; quest’ultimo diretto, attuale e concreto; non di mero fatto; oppure diffuso o collettivo a seconda se opera o meno all’interno di una realtà organizzata) che ad esempio presenta istanza di accesso agli atti, partecipando, dunque, con l’amministrazione interessata al procedimento. Il principio della partecipazione si sostanzia soprattutto nell’ultima fase cd. integrativa dell’efficacia, secondo cui è data la possibilità all’interessato di fornire all’amministrazione ulteriori ed eventuali elementi e/o documenti, integrativi anche della precedente fase istruttoria.

Opera, poi, il principio di semplificazione che viene abbinato, logicamente, con quello di non aggravamento del procedimento; di integrazione del contraddittorio e del giusto procedimento, unitamente a quello di sinteticità degli atti e di sufficienza e congruità della motivazione; il principio di trasparenza; il principio di efficacia, efficienza, economicità degli atti amministrativi; di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione, eccetera.

Vi è poi un principio che merita un approfondimento, molte volte poco ricordato: quello della dequotazione dei vizi formali, sintomatico della autoritarietà, autotutela decisoria della P.A.

La c.d. dequotazione dei vizi formali del procedimento è il recepimento, in via legislativa, dei principi della prova di resistenza, della conservazione degli atti e dei valori giuridici, della strumentalità delle forme e del raggiungimento dello scopo. Vi rientrano le ipotesi nelle quali la violazione di norme procedimentali non influisce sulla determinazione dell’atto finale, non producendo effetti negativi sulla correttezza sostanziale della sequenza procedimentale. Infatti, come stabilito dal Consiglio di Stato[2]“in applicazione del principio di dequotazione dei vizi formali del procedimento amministrativo non incidenti sul contenuto sostanziale del provvedimento (art. 21 septies L. n. 241/1990) si deve escludere che la violazione di una regola procedimentale, quale l'avviso di inizio del procedimento (art. 7 della L. n. 241/1990), possa assurgere a vizio di annullamento dell'atto di autorizzazione paesistica, qualora le esibizioni documentali ed il contraddittorio instaurato nei due gradi di giudizio releghino tale censura su un piano strettamente formale, essendo inidonea ad incidere sull'esito del giudizio che trae fondamento, circa l'illegittimità dell'atto, nel dato obiettivo del difetto di un elemento essenziale (quale è la motivazione) nell'autorizzazione”.

Il principio della conservazione degli atti e dei valori giuridici, che nel diritto amministrativo è presente nel concetto della richiamata dequotazione, trova fondamento nel diritto civile che ha ispirato al riguardo la medesima dequotazione. Infatti nel diritto civile abbiamo diversi esempi in cui il principio di conservazione[3] viene ad operare, in primis riguardo all’interpretazione del contratto: l’art. 1367 c.c. stabilisce che “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”. Inoltre, anche nelle disposizioni sulla legge in generale al c.c. (cioè nelle preleggi) l’art. 12 - sull’interpretazione della legge - individua criteri di conservazione interpretativa (la connessione tra le parole, l’analogia, i principi generali dell’ordinamento). Peraltro, l’art. 1362, comma 1, c.c. aggiunge che “nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.

L’art. 1419, comma 2, c.c. con riguardo alla nullità parziale stabilisce un principio di conservazione del contratto nella misura in cui “la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.

E ancora l’art. 1424 c.c. in materia di conversione del contratto nullo stabilisce che “il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma…”.

Il principio conservativo opera nel diritto civile anche relativamente alla convalida del contratto annullabile (art. 1444 c.c.), in materia di ratifica e di reductio ad aequitatem ex art. 1450 c.c. e 1467, comma 3, c.c. e di rettifica.

In particolare, l’art. 1444, comma 2, c.c. precisa che “il contratto è pure convalidato se il contraente al quale spettava l’azione di annullamento vi ha dato volontariamente esecuzione conoscendo il motivo di annullabilità”.

L’art. 1450 c.c. stabilisce che “il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”.

Infine, l’art. 1467, comma 3, c.c. sottolinea che “la parte contro la quale è domandata la risoluzione (del contratto per eccessiva onerosità) può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.

Inoltre, nel diritto amministrativo, il principio di conservazione oltre ad essere presente nella dequotazione dei vizi formali del procedimento e nei collegati e richiamati principi e norme del Codice civile, trova concretezza in precisi atti di conservazione[4]: nella consolidazione per inoppugnabilità; nella acquiescenza; nella conversione; nella conferma.

Le riforme intercorse innovative del dettato della Legge n. 241/1990 hanno posto l’obbligatorietà anche del principio di avvio e di conclusione del procedimento amministrativo, con l’obbligo per l’amministrazione procedente di comunicare a tutti gli interessati del procedimento il termine iniziale e finale dello stesso.

L’obbligo di comunicazione infatti ha la funzione innanzitutto di garantire la consapevolezza per le parti dell’esistenza di un procedimento in corso e dunque la facoltà per le stesse, laddove necessario, di potere esercitare il diritto di difesa dei propri interessi.

Si possono annoverare, al riguardo, diverse pronuncie della giurisprudenza.

Ex multis, il Consiglio di Stato[5] ha statuito che “per potersi censurare l'omessa comunicazione di avvio del procedimento, il soggetto che si ritenga non essere stato avvisato personalmente deve comunque provare che ove avesse potuto tempestivamente partecipare al procedimento avrebbe potuto presentare osservazioni ed opposizioni connotate dalla ragionevole possibilità di avere una incidenza causale nel provvedimento terminale”.

Vi sono, tuttavia, alcuni atti non soggetti all’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento. Al riguardo, secondo il Consiglio di Stato[6] la norma che esclude gli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione dall'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento ha carattere di stretta interpretazione e l'eventuale volontà espressa dall'ente deputato all'emanazione di tali atti, di voler estendere la comunicazione del contenuto degli atti di sua competenza ad altri enti o associazioni, deve intendersi non già come autolimitazione procedurale nell'emanazione dell'atto, ma come mero mezzo strumentale volontario volto ad acquisire apporti collaborativi da parte degli enti esponenziali del territorio”.

In altra pronuncia, il Consiglio di Stato[7] ha poi precisato con chiarezza che “si deve ritenere che il soggetto nei cui confronti il provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo sia destinato a produrre effetti diretti non solo debba essere destinatario della comunicazione di avvio del procedimento, ma abbia diritto di prendere visione degli atti, e ciò in quanto l'istituto della comunicazione non è configurato quale mero strumento di instaurazione del contraddittorio, ma quale strumento attraverso il quale è garantita una fattiva collaborazione del privato, il quale deve essere messo in condizione di esporre le proprie ragioni a tutela dei propri interessi nei casi in cui l'Amministrazione imponga limitazioni ai suoi diritti”.

Peraltro, per il principio "tempus regit actum" ogni procedimento amministrativo deve essere concluso nel rispetto della normativa vigente all'epoca della sua conclusione”[8].

3. Efficacia del provvedimento         

Il provvedimento amministrativo, atto finale del procedimento, quando è perfetto, ovvero completo di tutti gli elementi essenziali, è efficace, perciò è eseguibile ed è esecutivo.

Dunque, la validità riguarda il procedimento, mentre l’efficacia riguarda il provvedimento.

Ai sensi dell’art. 21 ter della Legge n. 241/1990 il provvedimento amministrativo gode del carattere dell’esecutorietà, ovvero della capacità del provvedimento di imporsi unilateralmente in modo coattivo, perché espressione del potere di autotutela della P.A.; autotutela sia esecutiva che decisoria; il potere cioè della P.A. di riesaminare, rideterminare, annullare o modificare i propri atti senza l’intervento del giudice.

Inoltre, l’art. 21 quater della stessa Legge n. 241/1990 stabilisce che i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento medesimo” e che “l’efficacia, ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo, può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze”.

Si evidenzia, al riguardo, che, anche in tema di efficacia, il diritto amministrativo attinge alle regole del diritto civile, in tema di requisiti ed elementi del contratto e di effetti del contratto; ciò che però manca nel diritto civile è l’autotutela, nel significato tipico del potere-dovere della P.A., anche se è lasciata alle parti autonomia negoziale. Questo parallelismo non è foriero, in quanto, in generale, è bene sottolineare che l’ispirarsi del diritto amministrativo a quello privato-civile, nei maggiori istituti e principi, è stato avviato, voluto e poi rafforzato dal Legislatore con la realizzazione di tutte le varie fasi del processo di privatizzazione del pubblico impiego che investe anche il confronto del contenuto del provvedimento amministrativo con quello del contratto privatistico.

Si possono annoverare poi alcune statuizioni del Consiglio di Stato con riguardo al rapporto tra il principio di esecutorietà del provvedimento amministrativo con quello dell’obbligo di concludere il procedimento amministrativo ed in tema di sospensione “controllata” dell’atto amministrativo.

Infatti il Consiglio di Stato ha stabilito che al dovere di concludere il procedimento amministrativo, previsto dall'art. 2, co. 1, della legge n. 241/1990, si accompagna l'art. 21-quater della legge medesima, il quale dispone che "i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente (")", sicché l'applicazione congiunta delle due disposizioni configura, a concreta conferma del noto principio di "esecutorietà", un potere-dovere dell'amministrazione di portare ad effettiva attuazione i propri provvedimenti emessi al termine del procedimento”[9].

Inoltre, l’Organo della G.A. di secondo grado ha evidenziato che “è riconosciuto alla P.A. un generale potere (desumibile dall'art. 7, comma 2, l. 7 agosto 1990, n. 241, e ora espressamente disciplinato dall'art. 21-quater della medesima legge) di natura cautelare e durata temporanea, consistente nella sospensione degli effetti dell'atto amministrativo precedentemente adottato e tuttavia sussiste la necessità della prefissione di un termine che salvaguardi l'esigenza di certezza della posizione giuridica della parte, restando così scongiurato il rischio di un illegittima sospensione sine die”[10].

4.Gli accordi integrativi e sostitutivi della Pubblica Amministrazione

L’art. 11 della Legge n. 241/1990 stabilisce che una P.A. può concludere accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, o in sostituzione di questo. Ci sono, però, due principi che la norma richiama: quello di non arrecare nessun pregiudizio ai diritti dei terzi e di perseguire un pubblico interesse.

Come si può notare il parallelismo con il diritto civile già si ha con il richiamo alla tutela dei terzi, ad esempio in buona fede nelle obbligazioni e nei contratti, alla cui materia lo stesso articolo 11 prevede un espresso rinvio; rinvio appunto ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili[11], dunque la diligenza nell’adempimento (art. 1176 c.c.) e l’esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 c.c.); così come la forma scritta a pena di nullità che devono avere gli accordi (implicito il richiamo all’art. 1350 c.c. sulla forma del contratto).

Altro collegamento previsto con il diritto civile è poi quello del recesso che può essere esercitato nella misura in cui la P.A. ha facoltà di recedere unilateralmente dall’accordo nell’ipotesi limitata – è qui la differenza invece con la casistica prevista dal c.c. – relativa a sopravvenuti motivi di pubblico interesse.

Si sottolinea che la tesi privatistica, che viene ad operare nella definizione della natura giuridica degli accordi in parola, li connota come contratti sostanzialmente di diritto comune ma ad oggetto pubblico, con la facoltà di ricorrere all’istituto della rescissione contrattuale, oppure a quello della risoluzione per inadempimento.

Ulteriore precisazione ed integrazione all’art. 11 della Legge n. 241/1990 si ha con il dettato dell’art. 15 della medesima Legge n. 241/1990 che prevede la possibilità tra Pubbliche Amministrazioni di stipulare accordi precisamente per svolgere in collaborazione attività di interesse comune; si osservi bene, non semplicemente per perseguire, come precisa l’art. 11, un pubblico interesse, ma attività di interesse comune; il collegamento è, di fatto, alla presenza di più interessi pubblici coinvolti, che rinvia alle norme sull’indizione dei vari tipi di conferenza dei servizi, disciplinati nell’art. 14 e negli artt. dal 14 bis al 14 quater della stessa Legge n. 241/1990.

Del resto, si rappresenta che anche l’art. 1, comma 1 bis, Legge n. 241/1990 precisa che “la P.A., nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”.[12]

5. La nullità ed annullabilità del provvedimento amministrativo

L’art. 21 septies della Legge n. 241/1990 stabilisce che “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.

Sul punto, il Consiglio di Stato, in un’interessante pronuncia[13], viene a precisare che “nel diritto amministrativo la nullità costituisce una forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi (oggi meglio definiti dal legislatore dopo l'entrata in vigore dell'art. 21 septies della L n. 241/90) in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l'annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale è quella della nullità. La sanzione della nullità del provvedimento è stata fino a poco tempo fa prevista solo con riferimento ad ipotesi peculiari, quali ad esempio l'assunzione nel pubblico impiego senza il filtro preventivo della procedura concorsuale, mentre oggi l'art. 21 septies L. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge. La cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso. Poiché, nel caso di specie, il provvedimento di revoca dei contributi è stato emesso dall'Amministrazione competente ad adottarlo deve essere senza alcun dubbio escluso che il provvedimento possa essere considerato nullo, non essendo stato adottato da un'Amministrazione totalmente priva del potere di emanarlo”.

In altra simile pronuncia[14], lo stesso Consiglio di Stato ribadisce che “in materia di nullità del provvedimento amministrativo, poiché l'art. 21 septies della L. n. 241/1990 le ha previste solo in mancanza degli elementi essenziali, in presenza di vizio da difetto assoluto di attribuzione, nel caso in cui l'adozione si sia effettuata in violazione o elusione del giudicato ed in tutti i casi espressamente previsti dalla legge (le c.d. nullità testuali), si deve affermare che le cause di nullità siano da intendersi quale numero chiuso”.

E ancora[15], “la tipica sanzione prevista per l'invalidità del provvedimento amministrativo è l'annullabilità, di applicazione giudiziale in presenza dei tre tradizionali vizi (violazione di legge, incompetenza e eccesso di potere), ora codificati sia dall'art. 21-octies, comma 1, della l. n. 241/1990, sia dall'art. 29 del Codice del processo amministrativo (n. 104/2010); la categoria della nullità assume, invece, un rilievo residuale, limitato alle ipotesi di nullità testuale (espressamente comminata da una norma di legge) e ad altri casi di gravi difetti del provvedimento, tassativamente indicati dall'art. 21-septies della legge n. 241/1990. Le cause di nullità del provvedimento amministrativo devono, quindi, oggi intendersi quale numero chiuso”. 

Particolare è poi l’analisi delle ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo limitatamente al difetto assoluto di attribuzione con riguardo ai casi di carenza di potere in astratto ed in concreto. Il Consiglio di Stato[16] viene a rappresentare una distinzione di non poco conto, secondo cui “se è vero che un provvedimento di proroga del termine fissato nella dichiarazione di pubblica utilità può validamente essere adottato solo prima della scadenza del termine medesimo, tuttavia non può dirsi che la proroga tardivamente adottata sia nulla. Ed invero, la nullità del provvedimento amministrativo per "difetto assoluto di attribuzione", prevista dall'art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, va circoscritta ai soli casi di incompetenza assoluta o di c.d. carenza di potere in astratto, ossia al caso in cui manchi del tutto una norma che attribuisca all'Amministrazione il potere in fatto esercitato, e non anche ai casi di c.d. carenza di potere in concreto, ossia di potere (pur astrattamente sussistente) esercitato in assenza dei presupposti di legge”.

Frequente è il richiamo anche in materia di vizi del provvedimento amministrativo alle relative norme del codice civile, come precisato dal Consiglio di Stato[17] che stabilisce come “ oltre alla nullità testuale ed a quella derivante da difetto di attribuzione, l'art. 21-septies l. n. 241/1990 ha previsto la nullità dell'atto amministrativo nel caso in cui questo sia carente di un elemento essenziale; si tratta, sulla falsariga di quanto previsto dall'art. 1418 c.c. per il contratto, in combinato con l'art. 1325 c.c., della c.d. nullità strutturale, ravvisabile nel caso in cui l'atto amministrativo sia privo di uno degli elementi necessari perché lo stesso possa essere giuridicamente qualificato come tale”.

            Vi sono casi poi in cui l’annullabilità di cui si tratta è esclusa. Come stabilito da una pronuncia della Cassazione civile[18] “a norma dell'art. 21-octies della legge 7 agosto 1990 n. 241, l'annullabilità di un provvedimento amministrativo per violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento, prescritto dall'art. 7 della medesima legge, è esclusa: a) quanto ai provvedimenti di natura vincolata, al pari che per la violazione delle altre norme del procedimento, nel caso di evidenza della inidoneità dell'intervento dei soggetti ai quali è riconosciuto un interesse ad interferire sul loro contenuto; b) quanto ai provvedimenti di natura non vincolata, subordinatamente alla prova da parte dell'Amministrazione che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso anche in caso di intervento di detti interessati”.

            Quanto, poi, alla facoltà di sanare atti affetti da annullabilità, non prevista, com’è noto, nelle ipotesi di nullità, il Consiglio di Stato[19] ha precisato che “la giurisprudenza, già in epoca antecedente alla novella apportata dall'art. 14 della legge n. 15 del 2005, ha costantemente riconosciuto all'Amministrazione la facoltà di sanare i propri atti affetti da vizi di legittimità - sulla base del principio di economia dei mezzi giuridici - con una manifestazione di volontà intesa ad eliminare il vizio da cui l'atto è inficiato”.

6. La revoca ed il recesso

             Nell’operato della P.A. la revoca, in generale, rientra tra i cd. atti di ritiro, insieme all’annullamento, al mero ritiro, alla decadenza. La revoca copre l’area dei vizi di merito dell’atto ed è di solito considerata espressione di autotutela, perciò caratterizzata da discrezionalità[20].

            La revoca tuttavia si distingue dall’annullamento d’ufficio, in quanto non ha effetti retroattivi, opera cioè ex nunc, a differenza dell’annullamento che invece ha efficacia retroattiva (ex tunc).

           L’art. 21 quinquies della Legge n. 241/1990, riformata all’indomani del 2005, prevede tre ipotesi di revoca che può porre in atto la P.A.: 1) nel caso di sopravvenuti motivi; 2) mutamento della situazione di fatto; 3) nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

           Si pone in evidenza che la revoca, nel diritto amministrativo, trova ampio margine ad esempio in materia di appalti. La revoca trova applicazione nella fase pubblicistica delle procedure ad evenienza pubblica; il recesso invece nella successiva fase privatistica relativa al contratto successivo all’aggiudicazione. Infatti, la P.A. successivamente alla stipulazione del contratto di appalto, ove dovesse rinvenire sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del contratto, non può utilizzare lo strumento della revoca dell’aggiudicazione, bensì quello del recesso del contratto[21].

              Al riguardo, troviamo un’analogia con quanto previsto per i contratti di diritto comune dagli articoli 1372 e 1373 del c.c. rispettivamente in materia di efficacia del contratto e di recesso unilaterale.

              Numerose sono le sentenze della giurisprudenza amministrativa sul tema in questione, che ne delineano connotati precisi e dettagliati anche in riferimento al tipo di responsabilità in cui può incorrere la pubblica amministrazione procedente.

              Il Consiglio di Stato[22] ci ricorda che “con l'entrata in vigore dell'art. 21-quinques della l. n. 241/90 il legislatore ha accolto una nozione ampia di revoca, prevedendo tre presupposti alternativi, che legittimano l'adozione di un provvedimento di revoca: a) per sopravvenuti motivi di pubblico interesse; b) per mutamento della situazione di fatto; c) per nuova valutazione dell'interesse pubblico originario (c.d. jus poenitendi)”.

              Il Supremo Organo della G.A.[23] ha poi stabilito che “deve essere considerato legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa, ciò in quanto l'art. 21 quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241 ammette un ripensamento da parte della amministrazione a seguito di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario”.

              E con riguardo al tipo di responsabilità che ne può derivare, il Consiglio di Stato, in altra pronuncia[24], ha statuito che “salva la portata normativa dell'art. 21-quinquies l. n. 241/1990, per i principi generali da essa affermati, in caso di revoca legittima degli atti della procedura di gara d'appalto può sussistere una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nel caso di affidamenti suscitati nella impresa dagli atti della procedura ad evidenza pubblica poi rimossi, potendo aver confidato l'impresa nella possibilità di diventare affidataria e, ancor più, in caso di aggiudicazione intervenuta e revocata, nella disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso”.

In altra pronuncia[25], si è precisato che “nel caso di revoca di provvedimento amministrativo, possono ricorrere situazioni diverse cui si riconnettono differenti discipline e conseguenze. Occorre, infatti, distinguere tra: - obbligo dell’amministrazione all'indennizzo, ex art. 21- quinquies l. n. 241/1990, per il caso di revoca del provvedimento amministrativo; - risarcimento del danno conseguente a constatata illegittimità del provvedimento di revoca, laddove venga accertata l'esistenza degli ulteriori presupposti di configurazione del danno risarcibile; - risarcimento del danno derivante da accertata responsabilità contrattuale, laddove la revoca del provvedimento giunga a determinare la caducazione del contratto già stipulato; - risarcimento del danno derivante da responsabilità extracontrattuale (in particolare, precontrattuale) della Pubblica amministrazione (ex art. 1337 c.c.)”.

Con riguardo al provvedimento di revoca “sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine alla domanda di indennizzo per revoca del bando di gara e dell'atto di aggiudicazione (ai sensi dell'art. 21 quinquies, comma 1, ultima parte, l. n. 241/1990); il giudice amministrativo è investito della riparazione patrimoniale del pregiudizio cagionato dall'esercizio del potere amministrativo sia attraverso un provvedimento legittimo di revoca, sia attraverso la lesione di una situazione soggettiva degradata con provvedimento poi caducato con effetti ex tunc”[26].

7. La responsabilità extracontrattuale, precontrattuale, contrattuale della P.A.

Con riguardo alla responsabilità extracontrattuale della P.A. la disposizione principale di riferimento è l’art. 28 Cost. secondo cui “i funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili ed amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.

In virtù del rapporto di immedesimazione organica che lega i funzionari e i dipendenti pubblici all’amministrazione, gli atti posti in essere dai primi, nell’esercizio delle loro funzioni, sono da considerare atti propri dell’ente pubblico. Ne consegue che la P.A. è direttamente responsabile ex art. 2043 c.c. nei confronti dei terzi che, per effetto dei suddetti atti, abbiano subito un danno ingiusto, i quali possono agire, in base alla regola della solidarietà passiva (art. 28 Cost.), indifferentemente nei confronti della P.A. ovvero del dipendente[27].

Gli elementi della responsabilità extracontrattuale della P.A. sono quindi quelli comuni ad ogni tipo di responsabilità civile[28]: l’esistenza di un danno ingiusto; il nesso di causalità che lega il danno ingiusto al fatto illecito della P.A. Il rinvio è all’art. 2043 c.c. che tutela il principio del risarcimento del fatto illecito, cioè quello del neminem laedere.

Altro tipo di responsabilità che può coinvolgere la P.A. è quella precontrattuale, configurabile nei casi in cui l’ente pubblico, nella fase delle trattative contrattuali o nelle relazioni con i terzi, abbia tenuto un comportamento contrastante con i principi di correttezza e di buona fede. Si applica l’art. 1337 c.c. in materia di trattative e responsabilità precontrattuale.

Dunque, il comportamento della P.A. può ingenerare nei terzi, a volte, un ragionevole affidamento[29] poi andato deluso in ordine alla conclusione del contratto, nei casi di ingiustificata rottura delle trattative e nelle ipotesi di mancata comunicazione di cause di invalidità del contratto.

Il riferimento è dunque all’applicazione dell’art. 1338 c.c. (conoscenza delle cause di invalidità del contratto) nelle ipotesi in cui i funzionari o dipendenti della P.A., violando le regole della correttezza, abbiano sottaciuto all’altra parte (al terzo) le cause di invalidità del contratto (la cd. culpa in contrahendo).

Un caso tipico in cui opera la responsabilità precontrattuale della P.A. è quello in materia di appalti pubblici, quando, nell’ambito dell’attività conseguente all’aggiudicazione, la P.A. adotta comportamenti chiaramente indirizzati alla stipula di un contratto e poi cambia idea, decidendo che l’opera, il servizio, o la fornitura non serve più ed annulla l’intera procedura.

Con riguardo, poi, al terzo tipo di responsabilità, quella contrattuale, in cui può incorrere la P.A., è da sottolineare che l’attività contrattuale della P.A. si ha in due fasi soprattutto, se si pensa, ad esempio, alla materia dell’evidenza pubblica negli appalti[30]: 1) la fase anteriore alla stipulazione del contratto, dominata più dal diritto pubblico e dalla disciplina contabile; 2) la fase successiva alla stipulazione del contratto, relativa all’esecuzione del contratto, dominata dal diritto privato.

Dunque, ricadendo nelle ipotesi di inadempimento delle obbligazioni assunte dalla P.A., trovano applicazione le regole comuni in tema di responsabilità contrattuale e anche la cognizione delle relative controversie è normalmente devoluta al Giudice Ordinario nella qualità di giudice competente per la tutela dei diritto soggettivi.

I vari tipi di responsabilità esposti non possono poi non comportare alcune considerazioni relative al risarcimento del danno a carico della P.A. Al riguardo, se ne possono avere due tipi: quello per equivalente; quello in forma specifica. Con il primo il danneggiato ottiene una somma di denaro corrispondente al valore del bene perduto o leso (cd. tantundem), mentre con il secondo il danneggiato viene rimesso nella medesima situazione in cui si trovava prima della commissione dell’illecito.

Ai fini della quantificazione del danno da attività illegittima della P.A., vengono in rilievo le norme dettate dal codice civile con riferimento alla disciplina dell’inadempimento delle obbligazioni. Ad esempio l’art. 1223 c.c. secondo cui il danneggiato ha diritto al risarcimento non solo del danno emergente, ma anche del lucro cessante. Ciò accade, ad esempio, nel caso di gara illegittima[31], in cui il mancato aggiudicatario, o chi è stato escluso illegittimamente, ha diritto sia al risarcimento delle perdite derivanti dalle spese di partecipazione, sia al risarcimento dell’utilità economica che non è stata conseguita a causa dell’illegittimità che ha determinato la mancata aggiudicazione. Peraltro, come statuito dalla decisione del Consiglio di Stato del 21 maggio 2009, n. 3144 “i costi di partecipazione alla gara vanno, in via prioritaria e preferenziale, ristorati in forma specifica mediante rinnovo delle operazioni di gara. Solo ove tale rinnovo non sia possibile, vengono ristorati per equivalente”.

8. Il risarcimento in materia di lesione da interessi legittimi

Gli interessi legittimi sono e rappresentano l’altra e correlata situazione giuridica attiva rispetto a quella dei diritti soggettivi. Questi ultimi investono la sola sfera soggettiva ed individuale del titolare, con efficacia erga omnes, com’è ad esempio, per antonomasia, il diritto di proprietà, rivendicabile nei confronti dei terzi.

Qualora l’ambito individuale del diritto soggettivo entra in contatto con la Pubblica Amministrazione (P.A.) verso cui l’interessato, o il titolare, del diritto soggettivo esercita una facultas agendi, il diritto soggettivo si espande e si trasforma in interesse legittimo.

Dunque, l’interesse legittimo è una figura molto più ampia del diritto soggettivo.

Non è un caso che, a volte, sia il diritto soggettivo a trasformarsi, a mutare, a degradare in interesse legittimo, in un ambito molto più ampio: l’esempio del diritto di proprietà che per ragioni di pubblica utilità subisce l’espropriazione e si trasforma in interesse legittimo, in questo caso di tipo “oppositivo” nella misura in cui il titolare legittimato all’esercizio dello stesso assume un atteggiamento di “opporsi” all’eventualità di subire un “restringimento” al suo diritto di proprietà che sta per degradare; distinto da altre e diverse ipotesi in cui, invece, l’interesse legittimo esercitato è di tipo “pretensivo” ovvero proteso ad ottenere un “ampliamento”, come nei casi in cui l’interessato ottiene un’autorizzazione o una concessione amministrativa.

Viceversa non accade spesso, o quantomeno di rado, che l’interesse legittimo si restringa in diritto soggettivo.

Questione annosa e problematica è stata quella di riconoscere una equiparazione per l’interesse legittimo leso ad ottenere, su uno stesso piano di tutela con il diritto soggettivo, il riconoscimento del risarcimento del danno. La giurisprudenza si è impegnata ad individuare e ad enucleare un criterio che potesse realizzare tale equiparazione. Si è arrivati così alla nota sentenza della Cass. n. 500/1999 che ha individuato nel criterio, o nel principio, del “bene della vita” il parametro, per così dire, tautologico al significato da attribuire all’interesse legittimo leso o violato.

Qui si può notare, ancora una volta, la correlazione del diritto soggettivo regolato  principalmente da norme di diritto civile con l’interesse legittimo disciplinato, nella sua ampiezza, dal diritto amministrativo.

9. Il riparto di giurisdizione tra G.A. e G.O.

La numerosa casistica e le molte questioni attinenti la sfera pubblica, o della pubblica amministrazione, non investono soltanto aspetti di diritto sostanziale ma anche processualistico. L’entrata del diritto civile nell’ambito del diritto amministrativo è avvenuta ed avviene a tutt’oggi non solo per disciplinare i principali istituti, in parte riassunti sino a qui, ma anche per avvicinare - ed allo stesso tempo armonizzare e contestualmente distinguere - sfere di competenza diversificate per materia tra i due diversi tipi di giurisdizione: quella amministrativa e quella ordinario-civile. I confini tra le due ancora oggi, per alcune materie, non sono così marcati e distinti; permangono delle zone grigie in cui è ancora dibattuta sia in giurisprudenza che in dottrina l’attribuzione certa o all’una o all’altra giurisdizione.

Ciò che rileva è comunque un minimo comune denominatore tra i tue tipi di giurisdizione: quello di contagiarsi a vicenda, di collaborare l’una con l’altra e di trarre ispirazione l’una dall’altra. Questo processo è già iniziato da molto tempo e ha visto soprattutto il diritto processuale amministrativo rifarsi ed ispirarsi a quello processuale civile. Se riflettiamo bene tutte le varie fasi della privatizzazione del pubblico impiego, aggiornate sino ad oggi, hanno seguito questo percorso, così come quello della fase privatistica all’interno della procedura ad evidenza pubblica, o la parte contrattuale degli appalti pubblici ispirarsi alle regole della contrattualistica di diritto civile. Gli esempi sono davvero molti.

In particolare, la giurisprudenza ha individuato il criterio di confine, attraverso cui stabilire quando si è in presenza della lesione di un diritto soggettivo ovvero di un interesse legittimo, nella contrapposizione tra carenza di potere e cattivo esercizio del potere: secondo tale criterio, quando si contesta l’esistenza del potere in capo alla Pubblica Amministrazione si ha questione di diritto soggettivo e, dunque, giurisdizione del Giudice Ordinario (G.O.), mentre tutte le volte che si lamenta il cattivo uso del potere dell'Amministrazione si fa valere un interesse legittimo e, pertanto, la giurisdizione sarà del Giudice Amministrativo (G.A.).

Questo criterio ordinario di riparto, basato sulla natura della posizione soggettiva, viene meno, però, laddove il legislatore disponga un riparto per materia, attraverso l'attribuzione della giurisdizione esclusiva ad un'autorità giurisdizionale in ordine a determinate materie. Lo stesso art. 103 Cost., invero, attribuisce al Giudice Amministrativo la cognizione anche di diritti soggettivi in particolari materie indicate dalla legge, rendendo pertanto irrilevante in tali casi la questione sulla situazione soggettiva che si presume lesa.

Alcune materie comunque ad oggi sono attribuite, senza più dubbi come in passato, o alla giurisdizione del G.A. oppure a quella del G.O. Ad esempio, in materia di pubblico impiego rientrano nella giurisdizione del G.A. le controversie attinenti ad atti che si collocano dalla pubblicazione del bando di concorso all’approvazione della graduatoria finale. Ai sensi dell’art. 63 del T.U. sul pubblico impiego, sono invece attribuite alla giurisdizione del G.O. le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, incluse le assunzioni al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali, la responsabilità dirigenziale e le indennità di fine rapporto.

L’art. 24 della Cost. prevede espressamente che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi” anche nei confronti di atti emanati dalla P.A. lesivi della sfera giuridica del privato.

L’art. 113 Cost. poi dopo aver affermato nel comma 1 che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa”, specifica al comma 2 che “la legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”.

La giurisdizione amministrativa si articola in:

giurisdizione generale di legittimità. Vi rientrano le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma;

giurisdizione esclusiva. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’art. 133 c.p.a., il giudice amministrativo conosce, anche ai fini risarcitori, delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi. Possono essere annoverate le controversie concernenti fattispecie regolate dalla L. n. 241/1990; riguardanti concessioni di beni, servizi pubblici, urbanistica ed edilizia; relative ai contratti delle Pubbliche Amministrazioni; afferenti ad Autorità Indipendenti ed in tema di espropriazione e poteri ablatori.

giurisdizione estesa al merito. Il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie indicate dalla legge e dall’art. 134 c.p.a. Nell’esercizio di tale giurisdizione il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione. Il principio di effettività è realizzato attraverso la concentrazione, davanti al giudice amministrativo, di ogni forma di tutela degli interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi.

Il Codice del processo amministrativo, dopo aver sancito il principio generale secondo cui “la giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo” (art. 1), ha attribuito al giudice amministrativo:

- ampi poteri istruttori. In base all’art. 63 c.p.a., il giudice può chiedere chiarimenti o documenti, ammettere la prova testimoniale in forma scritta, ordinare l’esecuzione di una verificazione ovvero, se indispensabile, disporre una consulenza tecnica, disporre anche l’assunzione degli altri mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, esclusi l’interrogatorio formale e il giuramento;

- ampi poteri decisori, essendo ammessa, quantomeno implicitamente, la possibilità di emanare sentenze dichiarative e di accertamento, oltre che di condanna all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio (art. 34, co. 1, lett. c, c.p.a.).

L’art. 7, comma 4, c.p.a. inoltre comprende le controversie anche “relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma”, risolvendo la controversa questione della c.d. pregiudiziale amministrativa, sempreché venga rispettato il termine di decadenza di 120 giorni previsto dall’art. 30 c.p.a., il quale, tra l’altro, prevede il risarcimento del danno in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.

Infatti, gli artt. 30, comma 1, e 34, lett. c), c.p.a. consentono al giudice amministrativo, nei limiti della domanda, di emanare sentenze di condanna “all’adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e disporre misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c.”.

Il confronto tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria, oltre ad essere diversa come competenza per materia, ha tuttavia un importante elemento in comune: l’istituto della disapplicazione e sostanzialmente, tranne che per alcune eccezioni, il rispetto della discrezionalità della P.A. emanante provvedimenti insidacabili ex iudice nel merito.

Al giudice amministrativo, infatti, come principio di carattere generale, non è consentito invadere arbitrariamente il campo dell’attività riservata alla pubblica amministrazione attraverso l’esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge, con conseguente trapasso da una giurisdizione di legittimità a quella di merito. Ciò può accadere, ad esempio, quando il giudice amministrativo (al di fuori dei casi eccezionali di giurisdizione estesa al merito) compia atti di valutazione dell’opportunità dell’atto impugnato, sostituendo propri criteri di valutazione a quelli discrezionali della pubblica amministrazione, o adotti decisioni finali interamente sostitutive delle determinazioni spettanti all’amministrazione medesima (Cass. S.U. 15 marzo 1999, n. 137).

Per quanto attiene al giudice ordinario, si ritiene, maggiormente in dottrina ed in giurisprudenza, che lo stesso sia legittimato, ex lege, ad una conoscenza incidentale di un atto amministrativo che si pone quale antecedente logico di una decisione che deve prendere il giudice ordinario.

Il sindacato incidentale concerne l’accertamento amministrativo legittimo, ovverosia non inficiato da uno dei vizi di cui all’articolo 21 octies della legge 241/90; trattasi dell’articolo che cristallizza la categoria della annullabilità.

Nello specifico il giudice ordinario deve accertare che l’atto non sia stato emanato da un organo incompetente, che l’atto non violi una disposizione di legge, ed infine che non sussista il vizio dell’eccesso di potere, fatto salvo il divieto, in quest’ultimo caso, per il giudice ordinario di sindacare le scelte, il merito e l’opportunità della P.A.

La giurisprudenza ha statuito che il giudice ordinario accerta la mera illegittimità di un atto amministrativo produttivo di effetti giuridici disapplicandolo se illegittimo.

L’istituto della disapplicazione, così come delineato, fa emergere diverse considerazioni. Innanzitutto, l’accertamento e la pronuncia del giudice ordinario sull’atto amministrativo al fine della sua disapplicazione è effettuata soltanto incidenter e non in via principale, rivelando il provvedimento solo indirettamente per la controversia e comportando perciò la disapplicazione ed inefficacia dello stesso esclusivamente nei limiti del caso concreto.

Con il potere di disapplicazione, infatti, il giudice non annulla l’atto facendone cessare gli effetti per sempre ed erga omnes, bensì si limita a non considerarlo esistente limitatamente per il suo giudizio, rimanendo il provvedimento amministrativo pienamente efficace per l’ordinamento giuridico e per tutti gli altri rapporti su cui è destinato ad incidere.

Sotto questo aspetto, è stato anche osservato che può distinguersi la pronuncia incidentale “costitutiva” dell’inefficacia dell’atto amministrativo in sede di disapplicazione da quella “meramente dichiarativa” che il giudice ordinario adotta per quegli atti privati che, in quanto anch’essi accertati illegittimi, perdono efficacia non soltanto per il caso concreto e limitatamente al giudizio.

Alla luce di queste considerazioni poi, si giunge anche ad affermare che la disapplicazione è un istituto di natura meramente processuale in quanto non determina conseguenze sul piano sostanziale.

10. Conclusioni 

Gli approfondimenti sinora considerati portano a ritenere, secondo il mio avviso, che il diritto amministrativo in generale ed in particolare quello del pubblico impiego, nel quale lavoro, non possano “vivere” senza l’ausilio del diritto civile. Un’immagine verosimile che può ben essere spesa: per operare bene e svolgere in modo proficuo il proprio lavoro nella pubblica amministrazione, confutando in parte anche una certa opinione comune di considerare la P.A. come una realtà troppo comoda è quella di non cadere in un “accomodarsi”, ma di operare “comodamente” grazie all’allineamento delle procedure ed ai correlati contenuti che si può realizzare mediante l’attingere della P.A. ai principi ed alle norme del diritto civile. E’ in questa realtà che ognuno di noi, pubblico dipendente, a mio avviso, può trovare un quid in più.

Note e riferimenti bibliografici

 (*) Collaboratore Tecnico Ente di Ricerca - Istituto Nazionale di Statistica.

[1] M. Scanniello, Il procedimento amministrativo, EPC Editore, 2017, p. 31.

[2] Consiglio di Stato, Sez. VI, 17/01/2008, n. 94.

[3] A. Catricalà, L’esame di diritto civile, Maggioli Editore, 2015, p. 123 e ss.

[4] P. Virga, Diritto Amministrativo, Atti e Ricorsi 2, Giuffrè editore, 2001, p. 147 e ss.

[5] Consiglio di Stato, Sez. VI, 02/03/2010, n. 1196.

[6] Consiglio di Stato, Sez. V, 04/03/2010, n. 1262.

[7] Consiglio di Stato, Sez. V, 16/06/2009, n. 3861.

[8] Consiglio di Stato, Sez. V, 03/07/2012, n. 3886.

[9] Consiglio di Stato, Sez. IV, 18/04/2012, n. 2301.

[10] Consiglio di Stato, Sez. VI, 11/02/2011, n. 905.

[11] M. Scanniello, Il procedimento amministrativo, EPC Editore, 2017, p. 226 e ss.; F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 1356 e ss.

[12] F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 939 e ss.

[13] Consiglio di Stato, Sez. VI, 28/02/2006, n. 891.

[14] Consiglio di Stato, Sez. VI, 13/06/2007, n. 3173.

[15] Consiglio di Stato, Sez. V, 02/11/2011, n. 5843.

[16] Consiglio di Stato, Sez. IV, 28/01/2011, n. 676.

[17] Consiglio di Stato, Sez. V, 16/02/2012, n. 792.

[18] Cass. Civ., Sez. Unite, 25/06/2009, n. 14878.

[19] Consiglio di Stato, Sez. IV, 09/07/2010, n. 4460.

[20] M. Scanniello, Il procedimento amministrativo, EPC Editore, 2017, p. 366 e ss.

[21] M. Scanniello, Il procedimento amministrativo, EPC Editore, 2017, p. 379.

[22] Consiglio di Stato, Sez. V, 06/10/2010, n. 7334.

[23] Consiglio di Stato, Sez. V, 08/09/2011, n. 5050.

[24] Consiglio di Stato, Sez. VI, 15/03/2012, n. 1441.

[25] Consiglio di Stato, Sez. IV, 07/02/2012, n. 662.

[26] Consiglio di Stato, Sez. VI, 17/03/2010, n. 1554.

[27] F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 212.

[28] F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 231.

[29] F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 233.

[30] F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 234.

[31] F. Caringella, S. Mazzamuto, G. Morbidelli, Manuale di diritto amministrativo, Dike Giuridica Editrice, 2010, p. 213.