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Pubbl. Lun, 1 Giu 2015

Mobbing e demansionamento: uno sguardo alla recentissima sentenza Cass. n. 10037/2015

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Giuseppe La Corte


Partendo da una recentissima pronuncia della Suprema Corte, si esamina l’istituto del mobbing e il conseguente risarcimento del danno non patrimoniale.


Con il termine mobbing, dall’etimologia anglofona to mob “assalire”, “molestare”, si indicano una serie di comportamenti molesti, sia fisici che verbali, realizzati contro una persona, specie nell’ambito lavorativo, tale da impedirgli un regolare e tranquillo svolgimento delle proprie funzioni lavorative. Esempio tipico e diffuso di mobbing consiste nel demansionamento.

Il demansionamento e/o dequalificazione professionale si manifesta quando il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle contrattuali. In particolare sono considerate inferiori e quindi non rispettose dell’articolo 2103 c.c. quelle nuove mansioni che rallentano o bloccano del tutto la professionalità del dipendente. La professionalità del lavoratore deve essere intesa come la combinazione tra il bagaglio di conoscenze già acquisite dalla persona operando in quel determinato settore e quanto questa può ancora apprendere in relazione al contesto che quotidianamente la circonda. Di conseguenza, ogni decisione del datore di lavoro che blocca o rallenta significativamente questo processo evolutivo va considerata demansionamento.

Il caso in commento riguarda un Comune condannato a risarcire il danno alla salute e professionale arrecato ad una lavoratrice, causato dal comportamento mobbizzante quali la sottrazione delle mansioni, la conseguente emarginazione, lo spostamento senza plausibili ragioni da un ufficio all’altro e l’umiliazione di essere subordinati a quello che prima era un proprio sottoposto. Come è stato più volte sostenuto dalla giurisprudenza (ex multis Cass. SS.UU. 6572/2006), il demansionamento non può individuarsi nella mera revoca di un incarico, seppure prestigioso e remunerativo, né, del pari, nell’assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, purché equivalenti a quelle svolte in precedenza.
Tali ipotesi, infatti, rientrerebbero nello ius variandi dal datore di lavoro e sarebbero pienamente legittime ai sensi dell’art. 41 Cost. e dell’art. 2094 cod. civ..

L’estromissione del lavoratore dal proprio ambiente di lavoro non può in alcun modo rientrare tra i poteri che il nostro ordinamento riconosce al datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti. Nel caso de quo, la ricorrente era stata estromessa dalle mansioni, per provvedimento di un superiore gerarchico, senza che il datore di lavoro (Il Comune, ndr) si fosse attivato per impedirne la realizzazione.
Il Comune non può essere esonerato dal danno arrecato alla lavoratrice, giacché la circostanza che la condotta di mobbing provenga da altro dipendente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro su cui incombono gli obblighi di cui all’art. 2049 c.c., ove questo sia rimasto colpevolmente inerte alla rimozione del fatto lesivo. Il datore di lavoro, infatti, una volta a conoscenza della situazione ha l’obbligo di intervenire immediatamente per far cessare la situazione e tutelare la propria lavoratrice.

In merito alla tematica in esame, è importante sottolineare, anche, se il ricorrente vittima di mobbing possa chiedere eventuali danni alla salute e/o esistenziali. Dando ormai atto della copiosa giurisprudenza sulla suindicata tematica, oramai si riconosce la possibilità che l’art. 2059 c.c. possa ricomprendere ogni danno di natura non patrimoniale alla persona nonché ogni lesione ad un interesse costituzionalmente garantito ad onta del fatto che, precedentemente al 2003 (ex plurimis Corte Cost. 203/2013), il 2059 c.c. fosse invocabile solo per i danni derivanti da illecito penale. Inoltre, la sentenza della Cassazione, nota come di S. Martino (il riferimento è alla sentenza della SS.UU. 26972/2008), ha stabilito che il danno non patrimoniale è una categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie etichettate, sicché le poste di danno “morale”, “biologico”, “esistenziale” rilevano ad elementi descrittivi di un’unica categoria concettuale di danno non patrimoniale. 

Sulla questione del risarcire o meno i danni derivanti da qualificazione professionale e/o demansionamento la giurisprudenza di merito e legittimità ha assistito a non pochi contrasti. Le Corti, tuttavia, stando la differenze di vedute sul riparto probatorio, sostengono la risarcibilità dei suindicati danni a favore della vittima che li abbia patiti.

Un primo orientamento, di ordine minoritario, sosteneva che fosse l’Autorità giudicante, in virtù di come si fossero svolti i fatti e in via presuntiva, a riconoscere al lavoratore le poste di danno risarcibili in via equitativa senza che questi fosse tenuto a provare alcunché (Cass.11727/99, 10713/2010, 7667/2013).
Altra corrente giurisprudenziale, di ordine maggioritario, al contrario, demandava al lavoratore la “specifica allegazione” ex art. 2697 c.c. in seno al ricorso introduttivo dei pregiudizi subiti sul fare reddittuale e relazionale. Tali pregiudizi, inoltre, non dovevano desumersi in via presuntiva dalla potenzialità lesiva della condotta datoriale perché non potevano essere conseguenza automatica di quel comportamento illegittimo (Cass. 2561/99, 10361/04, 6797/2013).
Le SS.UU. della Suprema Corte, intervenute nel 2006, con la sent. 6572/2006, hanno aderito al secondo indirizzo. Alla stregua della suddetta pronuncia, il danno patito dal lavoratore per effetto del demansionamento non discende in via automatica dall’inadempimento datoriale, nel senso che è in re ipsa alla potenzialità lesiva della condotta del datore di lavoro, ma, al contrario, esso va provato dal lavoratore. Egli è tenuto, infatti, a dimostrare, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., l’esistenza di un nesso di causalità fra l’inadempimento e il danno e a precisare quali, fra le molteplici forme di danno da dequalificazione, ritenga di aver subito, fornendo, a tal proposito, ogni elemento utile per la ricostruzione della loro entità.

La sentenza accennata prospetta la responsabilità datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2103 c.c., mentre nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 c.c., rubricato “Tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore”.
In entrambi i casi, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall’articolo 1218 c.c., in stretta connessione con l’articolo 1223 dello stesso codice. Vi è da aggiungere, altresì, che l’ampia locuzione usata dall’articolo 2087 c.c., secondo la Suprema Corte, assicurerebbe il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. Pertanto alle vittime di mobbing non sarebbe impedito di chiedere il risarcimento dei danni subiti, purché le poste di danno siano effettivamente provate e allegate.

La Corte di Cassazione, alla luce delle considerazioni effettuate, ha rigettato il ricorso presentato dal Comune avvalorando quanto sollevato nei primi due gradi di giudizio.