Il caso Cappato/DJ Fabo: aspettando le motivazioni della Consulta, un riepilogo della vicenda.
Modifica paginaNell´attesa di conoscere quale sia stato, nello specifico, il percorso logico e argomentativo seguito dalla Corte costituzionale, appare utile riassumere per sommi capi i tratti salienti del caso Cappato, provando ad anticipare alcuni spunti di riflessione.
Sommario: 1. Premessa. 2. Il caso DJ Cappato/DJ Fabo. 3. La questione di legittimità sollevata dalla Corte d’Assise di Milano. 4. L’ordinanza 207/18. 4.1. La c.d. incostituzionalità differita. 5. La decisione della Consulta: provando ad anticipare le motivazioni di una sentenza scomoda ma inevitabile.
1. Premessa
Come già ampiamente noto, data la vasta copertura mediatica dell’evento, lo scorso 25 settembre l’Ufficio Stampa della Corte costituzionale ha rilasciato un comunicato in merito all’attesissima pronuncia della Consulta sul caso Cappato, l’attivista radicale accusato del reato di cui all’art. 580 c.p. per aver agevolato il suicidio di Fabiano Antoniani, noto ai più con il nome d’arte di “DJ Fabo”.
Nel testo del comunicato, si legge che “…che in attesa del deposito della sentenza, la Corte ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”[1].
Pur non rappresentando certo un fulmine a ciel sereno, per i motivi che vedremo, la decisione non ha mancato di sollevare voci di approvazione così come un vespaio di polemiche, tanto sul piano politico che all’interno della società civile.
Senza poter – né volere – entrare nel dibattito in questione, appare utile invece riallacciare i fili della vicenda così da meglio approcciarsi alle motivazioni della sentenza, di prossima pubblicazione, provando ad anticiparne a grandi linee i contenuti.
Ciò sul presupposto che agli operatori del diritto è consentito utilizzare solo gli strumenti che l’attuale ordinamento giuridico offre, nella sua massima ampiezza, ma senza poter travalicare i limiti e la tecnica propria della logica giuridica: è al Parlamento, come ricorda la stessa Corte, che spetta il gravoso compito di recepire le istanze, vere o presunte, provenienti dal corpo sociale.
2. Il caso Cappato/DJ Fabo
Sono di dominio pubblico le drammatiche vicissitudini che hanno portato DJ Fabo a decidere di porre fine alla propria vita.
Cieco e tetraplegico in conseguenza di un terribile incidente stradale, il celebre musicista si è reso protagonista di una serie di accorati appelli, alcuni dei quali rivolti direttamente al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, affinché fosse introdotta in Italia una disciplina sul suicidio assistito.
Rimaste inascoltate le sue recriminazioni[2], causa l’incapacità del Parlamento di superare le profonde spaccature che la tematica aveva prodotto al suo interno, DJ Fabo si rivolgeva quindi all’associazione Luca Coscioni, già protagonista nel 2013 della vicenda Welby. In seno all’associazione, si offriva di aiutarlo Marco Cappato, attivista radicale da sempre impegnato nelle battaglie di sensibilizzazione sul fine vita.
Proprio Cappato accompagnava DJ Fabo in Svizzera, paese che da tempo conosce la pratica del suicidio medicalmente assistito, lecita in base ad una precisa disposizione del Codice penale[3]: è in una clinica svizzera, dunque, che il 27 febbraio 2017, dopo una visita medica e psicologica, Fabiano Antognoni cessa di vivere, mordendo egli stesso un pulsante per autosomministrarsi un farmaco letale.
Ritornato in Italia, Marco Cappato decideva di autodenunciarsi per aiuto al suicidio, venendo così iscritto nel Registro degli indagati dalla Procura di Milano che, tuttavia, chiederà pochi mesi dopo l’archiviazione.
La richiesta della Procura, respinta dal GIP e tradotta in imputazione coatta[4], sfociava poi, per iniziativa dello stesso Cappato, in un giudizio immediato tenuto dinanzi alla Corte d’Assise di Milano.
3. La questione di legittimità sollevata dalla Corte d’Assise di Milano
Il processo tenutosi presso la Corte meneghina vedeva ancora una volta la Procura attestata sulla non colpevolezza dell’imputato, per il quale veniva chiesta l’assoluzione con formula piena “perché il fatto non sussiste”: nel ragionamento dei PM, infatti, “Marco Cappato non ha avuto alcun ruolo nella fase esecutiva del suicidio assistito di Fabiano Antoniani e non ha nemmeno rafforzato la sua volontà di morire”[5].
In subordine, l’accusa chiedeva di sollevare questione di legittimità dell’art. 580 c.p.: condividendo i dubbi di incostituzionalità della predetta fattispecie, la Corte d’Assise di Milano rimetteva appunto la vicenda all’attenzione della Consulta, ravvisando profili di contrasto con la Legge Fondamentale in riferimento agli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2, 27 co. 3[6], nonché con l’art. 117 co. 1 in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU[7].
Più nello specifico, i giudici milanesi evidenziavano da un lato che, potendosi oramai rinvenire nella giurisprudenza europea un vero e proprio diritto a morire, la collaborazione che si limiti ad agevolare l’esercizio di una facoltà consentita dalla legge non avrebbe ragione di essere criminalizzato, mancando in radice l’offesa al bene giuridico tutelato, ovvero la libertà di autodeterminazione del malato: nel caso in esame, infatti, Marco Cappato non avrebbe fatto altro che accompagnare DJ Fabo in Svizzera, aiutando quest’ultimo a realizzare un proposito già interamente maturato da sé, in piena e libertà e in assenza di condizionamenti esterni.
Sotto alto profilo, i fondamentali principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena dovevano ritenersi violati dall’art. 580 c.p., che parifica a livello sanzionatorio la condotta di chi istiga il proposito suicidario e quella di chi semplicemente ne facilita l’esecuzione, comportamenti all’evidenza molto diversi tra loro per natura e gravità.
4. L’ordinanza 207/18
Con l’ordinanza n. 207 del 16 novembre 2018[8], la Corte costituzionale mostrava di non aderire interamente alle tesi prospettate dal giudice a quo, ritenendo l’incriminazione dell’aiuto al suicidio essenziale per proteggere da ingerenze esterne il soggetto che si trovi in una situazione di particolare debolezza, tale da minarne fortemente la capacità di autodeterminazione.
La c.d. “cintura protettiva” invocata dalla Corte non veniva considerata in contrasto con le disposizioni costituzionali ed europee invocate poiché diretta a proteggere il diritto alla vita ed alla libera formazione delle scelte individuali, fortemente a rischio in caso di “…persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto”[9].
Tuttavia, la Consulta non mancava di rimarcare l’esistenza, a determinate condizioni, di profili di incostituzionalità dell’art. 580 c.p.: e lo faceva prendendo coscienza delle terribili sofferenze fisiche o psicologiche in cui versano i pazienti affetti da patologie non reversibili, dinanzi alle quali la medicina può soltanto rimandare l’evento morte, spesso senza offrire una qualità di vita reputata dignitosa dal paziente stesso.
A fronte di questa ordalia, ben può il soggetto beneficiario del trattamento rifiutare, in modo libero e consapevole, l’artificiale mantenimento in vita, secondo una interpretazione già da tempio invalsa sulla base all’art. 32 co. 2 Cost. e ora definitivamente consolidata in seguito all’approvazione della legge 219/17, che ha finito per legalizzare la c.d. eutanasia passiva[10].
Tale pratica, che costituisce oramai un vero e proprio obbligo per il personale di cura, va però nettamente distinta tanto dall’eutanasia c.d attiva, ovvero la possibilità di adoperare trattamenti atti a determinare la morte[11], quanto dal vero e proprio suicidio assistito, procedimento in cui il medico si limita a fornire il farmaco letale che poi la persona utilizza autonomamente.
La differenza, osservava correttamente la Corte, non è foriera di conseguenze soltanto sul piano penale, dato che sovente la mera sospensione dei trattamenti salva vita, pure accompagnata da cure palliative, può comportare per il malato un lungo periodo si sofferenze che, invece, possono essergli evitate con il ricorso alle suddette procedure, definite di morte assistita.
Era stato per questo motivo, considerando che una mera interruzione delle cure avrebbe portato ad un “processo di lenta agonia”, che Fabiano Antoniani aveva scelto di rivolgersi ad una struttura svizzera per giungere ad una morte rapida e indolore.
Proprio partendo da tale assunto, dunque, il Giudice delle Leggi esponeva i propri dubbi sulla tenuta costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui rappresenta un “… ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”[12].
Se infatti – prosegue la Corte – permane la necessità di tutelare soggetti particolarmente vulnerabili, nel momento in cui la legge ritiene gli stessi “…in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione”[13].
Da qui l’asserita discrasia tra un divieto assoluto di aiuto al suicidio ed il diritto ad una morte dignitosa, anche per mano altrui, che il malato, ancora pienamente capace, può esercitare all’esito di un processo decisionale libero da interferenze esterne.
Restava da capire come soddisfare l’esigenza di ricalibrare il bilanciamento tra beni costituzionali di assoluto rilievo.
4.1. La c.d. incostituzionalità differita
Dopo aver delimitato nei suddetti termini la questione di costituzionalità, infatti, la Consulta ha dovuto fare i conti con le conseguenze di una eventuale pronuncia demolitiva, resa in assenza di una legge capace di tutelare al meglio il paziente, disciplinando con puntualità il meccanismo prodromico alla scelta di porre fine alla propria vita nonché i poteri e i doveri delle diverse figure che nel suddetto procedimento svolgono un ruolo.
La necessità di non invadere le prerogative di altri organi costituzionali, sempre più spesso avvertita dalla Corte, le imponeva dunque di sollecitare l’intervento del Parlamento sul punto, individuando nella legge 219/17 la sedes materiae più adeguata per approntare una normativa capace di specificare, tra le altre cose, modalità e tempi di verifica della volontà del soggetto, figure legittimate ad intervenire, possibilità di obiezioni di coscienza[14].
Si veniva così a delineare una sorta di vademecum per la redazione di una giustificazione procedurale[15], capace di affiancarsi alla fattispecie di cui all’art. 580 c.p., elidendone gli ampi margini di punibilità.
Per dare il tempo al complesso iter parlamentare di mettersi in moto, però, la Corte preferiva non adottare la strada della tradizionale sentenza di inammissibilità, corredata dal monito al legislatore, cosa che avrebbe portato inevitabilmente alla condanna dell’imputato Cappato: al contrario, valorizzando al massimo i propri ampi poteri di “gestione del processo costituzionale” – anche sul modello di altre Supreme Corti straniere – operava un rinvio di circa un anno, disponendo la discussione per l’udienza del 24 settembre 2019, durante la quale avrebbe potuto essere valutata “…l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela”[16].
Da ciò derivava la sospensione del giudizio a quo, in una soluzione, ribattezzata della incostituzionalità differita[17], che aveva il pregio di lasciare impregiudicata la posizione dell’imputato (e di altri indagati o imputati per vicende analoghe) ed al tempo stesso le chances di un intervento legislativo sul punto.
Intervento che però, come sappiamo, non è mai arrivato.
5. La decisione della Consulta: provando ad anticipare le motivazioni di una sentenza scomoda ma inevitabile
Dalla lettura del comunicato diffuso dall’Ufficio Stampa è possibile presumere che nella motivazione della sentenza la Corte non si allontanerà dall’impianto tratteggiato nell’ordinanza 207/18, di cui verranno semmai precisati alcuni aspetti salienti.
Il focus della questione di legittimità può rinvenirsi negli artt. 2, 13 e 32 Cost., che impongono il rispetto della dignità umana non soltanto in un’accezione lata - ascrivibile al comune sentire e, proprio, per questo sovente incerta nella sua concreta ricognizione - quanto piuttosto con riferimento alla consapevolezza ed alla concezione che di sé ha il malato, il cui diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere compresso o negato per aprioristiche esigenze di tutela della vita “senza se e senza ma”.
D’altro canto, anche l’art. 3 Cost. viene in rilievo allorquando si compari la situazione di individui affetti da patologie incurabili, ma ancora capaci di togliersi la vita da sé, con quella di chi subisce una condizione del tutto invalidante e dunque si trova a dipendere interamente da altri anche per la “scelta finale”, con evidente disparità di trattamento.
Senza dimenticare l’ulteriore sperequazione tra coloro i quali, all’esito di un’eventuale interruzione del trattamento, possano giungere ad una morte comunque rapida, e chi invece debba passare attraverso un vero e proprio calvario.
Di fronte a queste palesi compromissioni di prerogative fondamentali - da taluni ribattezzate, con formula tristemente evocativa, diritti infelici[18] - è chiaro che l’attuale assetto ordinamentale si dimostra manchevole nell’incriminare condotte che proprio a tali prerogative intendono dare conforto.
Del resto, è altrettanto certo come non possa mai venire trascurata la sacrosanta esigenza di assicurare tutela alle persone in posizione di estrema vulnerabilità, la cui volontà potrebbe senza dubbio essere agevolmente “traghettata” nel senso di porre fine alle proprie sofferenze, ad opera di soggetti senza scrupoli e per i motivi più disparati.
Di fronte a questa apparente antinomia, la soluzione non può essere individuata in un rigido divieto di condotte ausiliatrici, delineato nell’attuale fattispecie ex art. 580 c.p., come neppure nella legge 219/17 che si limita a facoltizzare l’intervento del solo personale medico ed esclusivamente per l’interruzione di una terapia salva-vita in uso.
L’intervento della Consulta, tuttavia, non potendo essere nomopoietico, deve tradursi in un’opera di ricognizione e sintesi della normativa vigente: e quella giustificazione procedurale, già evocata nella precedente ordinanza 207/18, non può che consistere in un processo standardizzato, messo in atto da personale medico all’interno di una “struttura pubblica del SSN”, nel rispetto delle garanzie relative al consenso informato già da tempo elaborate ed affinate dalla giurisprudenza, e poi trasposte nella legge sulle D.A.T.[19].
Il riferimento al contesto medico-sanitario pubblico, sul quale poggia anche la legge 219/17, appare una scelta obbligata per la Corte, quale unica garanzia di obiettività a tutela della scelta – tragica, ma libera e realmente informata – del malato.
Sembra dunque che tutto faccia presagire, nel solco di una sentenza interpretativa, la “nascita” di una vera e propria causa di giustificazione atipica, per quanto riconducibile all’art. 51 c.p. laddove viene evocato l’adempimento di un dovere da parte del medico, correlato ad un diritto soggettivo a morire con dignità esercitato dal paziente, diritto a sua volta evincibile dagli artt. 2 e 32 Cost. .
Comunque, mettendo da parte i dubbi sulla natura della “causa di non punibilità” in questione, è lecito domandarsi se e quanto la stessa possa abbracciare anche la condotta del soggetto non sanitario, che agevoli il proposito suicidario altrui.
In altre parole, la deroga al divieto di cui all’art. 580 c.p., accordata a determinate condizioni ed a soggetti qualificati, apparirebbe non giustificata in relazione al quisque de populo, che fuoriesce dal delicato sistema di bilanciamento degli interessi contrapposti predisposto dalla Consulta.
La soluzione di questo dilemma, che peraltro riguarda nello specifico l’imputato Marco Cappato, potrebbe essere affidata dalla Corte ai giudici rimettenti, tramite l’utilizzo degli ordinari canoni ermeneutici del diritto penale[20], oppure potrebbe formare oggetto di una più articolata disamina nello sforzo di perimetrare l’area di non punibilità.
Quel che è certo è che il dispositivo della pronuncia in esame non poteva che consistere nella parziale demolizione del divieto di aiuto al suicidio p. e p. all’art. 580 c.p.: troppo evidente l’iniquità nell’accostare fattispecie del tutto diverse tra loro, l’istigazione e l’aiuto; troppo tranchant la disposizione nel negare qualsiasi valenza alla volontà consapevole del malato, che opti per una fine dignitosa. Specie all’indomani di una legge come la 219/17 che, pur rappresentando soltanto un primo passo, è sintomo evidente di una rinnovata concezione del rapporto tra Stato e individuo con riferimento ai diritti personalissimi di quest’ultimo.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Il comunicato, dall’emblematico titolo “In attesa del Parlamento la Consulta si pronuncia sul fine vita”, può essere rinvenuto sul sito internet istituzionale della Corte, all’indirizzo www.cortecostituzionale.it .
[2] Soltanto con la legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), infatti, l’Italia si è dotata di una prima disciplina che regolamenta, tra le altre cose, alcuni aspetti della delicata tematica relativa al rifiuto o alla interruzione delle cure salva-vita.
[3] Art. 115 Codice penale svizzero
Chiunque per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio o gli presta aiuto è punito, se il suicidio è stato consumato o tentato, con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.
[4] G.I.P. Milano, ord. 10 luglio 2017, Giud. Gargiulo, Imp. Cappato.
[5] Così il PM Tiziana Siciliano all’udienza del 17/01/18.
[6] Corte d'Assise di Milano, ord. 14 febbraio 2018, Pres. Mannucci Pacini, Giud. Simi De Burgis, Imp. Cappato.
[7] In tema di c.d. diritto a morire, il leading case nella giurisprudenza EDU è senza dubbio rappresentato da Pretty v. Regno Unito del 2002, citato anche dalla stessa Consulta.
[8] Per un esaustivo commento sull’ordinanza, si vd. per tutti L. EUSEBI, Regole di fine vita e poteri dello stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it .
[9] Ord. 207/18, par. 6.
[10] Ord. 207/18, par. 8
[11] Giacché in questo caso l’intervento è la causa diretta del decesso del paziente, mentre nell’interruzione il sanitario altro non fa che rimuovere l’impedimento al normale decorso della patologia, che determina il decesso.
[12] Ord. 207/18, par. 9
[13] Ibidem.
[14] Ord. 207/18, par. 10.
[15] Sul tema, naturalmente, il riferimento è a M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano 2004,; si vd. anche A. SESSA, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato. Profili dommatici e di politica criminale, Napoli 2018.
[16] Ord. 207/18, par. 11.
[17] Ex multis, cfr. M. BIGNAMI, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in www.questionegiustizia.it . Come osservato da molti Autori, del resto, tale tecnica si inserisce nel modus operandi che la Corte ha di recente adottato nel dialogare con altre Autorità, anche sovranazionali, ad es. nella nota vicenda Taricco.
[18] Si rimanda alle ancora attuali riflessioni di M. DONINI, La necessità di diritti infelici. il diritto di morire come limite all’intervento penale, reperibile su www.penalecontemporaneo.it .
[19] Si legge nel Comunicato dell’Ufficio Stampa che “…in attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente”.
[20] Suggerisce di affrontare il problema della non punibilità di Marco Cappato in sede di tipicità, ad esempio, R. BARTOLI, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, in www.penalecontemporaneo.it. Spiega l’Autore come, dovendosi prendere atto della liceità del suicidio in sé considerato, “…il concorso di persone rispetto ad un fatto lecito che non esprime disvalore deve essere interpretato in modo tale da attribuire rilevanza a quelle condotte che in qualche modo concorrono davvero al decorso causale che sta nelle mani dell’aspirante suicida e quindi alla vera e propria esecuzione materiale del suicidio”: pertanto, “…non ha senso interpretare l’agevolazione al suicidio che è atto lecito in termini lati come avviene allorquando si concorre in una fattispecie che invece esprime indubbio disvalore”, arrivando così ad escludere la tipicità del concorso “non decisivo”, quale appunto il semplice accompagnamento del soggetto presso una struttura dove altri eseguiranno la procedura che porta al decesso.