Pubbl. Mar, 15 Ott 2019
Il diritto all´oblio alla luce della recentissima pronuncia della Corte di Giustizia UE
Modifica paginaSe il servizio internet è globale non è, tuttavia, lo stesso per quanto riguarda l´esercizio del diritto all´oblio che incontra limiti territoriali. Questa in sintesi la recentissima decisione della Corte di Giustizia UE (sentenza 24 settembre 2019)
Sommario: 1. Premessa. 2. Il diritto all'oblio secondo la dottrina e la giurisprudenza europea ed italiana; 3. Alcuni recenti provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali; 4. Attuale normativa e strumenti di tutela del diritto all’oblio. 5. Recentissima sentenza della Corte di Giustizia UE del 24 settembre 2019.
1. Premessa
La rivoluzione digitale viene comunemente definita come “il passaggio dalla tecnologia meccanica ed elettronica analogica a quella elettronica digitale che, iniziato nei paesi industrializzati del mondo durante i tardi anni Cinquanta con l'adozione e la proliferazione di computer e memorie digitali, è proseguito fino ai giorni nostri in varie fasi storiche, all'interno della cosiddetta terza e quarta rivoluzione”. [1]
In particolare, con la rivoluzione informatica si è assistito alla proliferazione e moltiplicazione dei canali di accesso all’informazione, così da porre nuovi interrogativi nel contemperamento dei fondamentali valori sottesi.
Il progresso tecnologico, invero, consente agli utenti del servizio internet, attraverso l’uso dei motori di ricerca, di reperire in modo diretto e veloce informazioni concernenti anche articoli più datati e, quindi, contenuti negli archivi, con la semplice digitazione di una o più “parole chiave”.
Più da vicino, l’importanza del tema è da rinvenirsi nella sussistenza di uno stretto rapporto, da un lato, tra il diritto all’oblio e l’esercizio del diritto di cronaca, posto al servizio dell’interesse pubblico all’informazione, declinato, secondo parte della dottrina, in un vero e proprio diritto alla storia, e dall’altro, tra il diritto all’oblio ed il diritto alla riservatezza e, quindi, il diritto della persona acchè talune vicende della propria vita, non più suscettibili di soddisfare un apprezzabile interesse della collettività a conoscerle, non siano più divulgate.
Su tali premesse si procede, senza, naturalmente, trascurare il quadro normativo di riferimento, ad un breve excursus dei contributi offerti dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana ed europea sino alla recentissima sentenza della Corte di Giustizia UE del 24 settembre 2019 in tema di diritto all’oblio, precisamente sui limiti territoriali dell’esercizio dello stesso, quale argomento di grande attualità intorno al quale si è aperto un intenso dibattito.
2. Il diritto all’oblio secondo la dottrina e la giurisprudenza europea ed italiana
Giova osservare, preliminarmente, che il diritto all’oblio è di creazione dottrinaria e giurisprudenziale e solo, relativamente di recente, previsto e disciplinato espressamente da specifica normativa.[2]
Secondo un’impostazione dottrinaria “se l’identità è sintesi dei tanti elementi di natura diversa che la compongono, essa non è certo una sintesi statica. Il tempo gioca un ruolo essenziale: la persona è ciò che è in un determinato momento storico e l’identità muta col tempo. Divengono essenziali la contestualizzazione e la storicizzazione. Eventi occorsi in una certa epoca possono non corrispondere più alla personalità di un soggetto in un diverso momento storico. Sul terreno di questo conflitto, fra la verità della storia e l’identità attuale, nasce il diritto all’oblio. Naturalmente, tale diritto deve essere oggetto di bilanciamento con altri diritti, quali il diritto all’informazione”.[3]
Secondo altra impostazione, il concetto di diritto all’oblio richiama immediatamente tutte quelle notizie passate che, se divulgate in assenza di un interesse generale che le avvalori, altererebbero l‘immagine sociale della persona coinvolta.[4]
Sotto altro aspetto, non si è mancato di osservare che “il diritto all’oblio può essere considerato in qualche misura speculare rispetto al diritto alla riservatezza, dal momento che il problema del diritto all’oblio si pone relativamente a situazioni che, per loro natura, nel momento in cui si sono verificate non rientravano nell’ambito della tutela della riservatezza”. [5]
Il discrimen, così ragionando, tra il concetto di diritto alla riservatezza ed il concetto di diritto all’oblio, se pur legati da un rapporto di strumentalità è, quindi, rappresentato dal fattore tempo atteso che l’esercizio del diritto all’oblio è teso non già a cancellare il passato quanto a proteggere il presente impedendo che una notizia già pubblicizzata e, quindi, uscita dalla sfera privata del soggetto venga nuovamente, senza una legittima ragione, posta all’attenzione degli utenti a distanza di un certo lasso temporale.
Il concetto di privacy, infatti, si è progressivamente evoluto così da configurarsi come “il potere dell’interessato di determinare se un dato personale possa essere raccolto da un terzo (controllo della raccolta dei dati); di determinare se il dato possa essere trasmesso ad altri (controllo sulla diffusione del dato); di determinare le forme dell’impiego del dato (controllo sull’elaborazione del dato); di accedere ai propri dati, e di ottenerne la rettifica quando siano inesatti (controllo sulla correttezza del dato); di ottenere la rimozione dei propri dati (diritto alla cancellazione o all’oblio)”. [6]
Esiste, quindi, il diritto di un individuo ad essere, per così dire, dimenticato, precisamente a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca; non si tratta, tuttavia, di un diritto ad "essere dimenticato” tout court atteso il suo bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto che non sia racchiuso in quello spazio temporale necessario ad informare la collettività cosicché il trascorrere del tempo lo affievolisca fino ad azzerarlo.
Pertanto, solo nei casi in cui l’elemento temporale, cioè il trascorrere del tempo, incida sull’interesse pubblico in senso negativo, il fatto cessa di essere oggetto di cronaca per riacquisire natura di fatto privato.
Puntuale la definizione offerta in dottrina sul concetto di decontestualizzazione che “consiste nella enucleazione dell’immagine di un individuo dal contesto nel quale essa si trovava originariamente e collocazione in uno stato diverso, con l’effetto di creare un contrasto esteriormente percepibile”.[7]
Ma è proprio tale aspetto a rimodulare, più di recente, il diritto all’oblio sulla espressa preoccupazione secondo cui “la notizia apparsa sul web non dura, al pari delle notizie sulla carta stampata, come la rosa di Ronsard, l’espace d’un matin, ma piuttosto assume forma durevole e incancellabile; chiunque la può leggere e rileggere, ovunque si trova nel mondo, e può ‘utilizzarla’ come fonte di informazione. Ma la notizia non è un dato astratto alla mercé di tutti, perché riguarda la persona e la sua immagine in un dato momento storico; i dati personali, vale la pena ricordarlo, costituiscono una parte della espressione della personalità dell’individuo” .[8]
Su tale nuova esigenza, vale a dire, la possibile lesione di diritti fondamentali dell’individuo per la permanenza delle informazioni in rete e della relativa immediata accessibilità, ciò che rileva, quindi, non è tanto l’affermazione di un diritto alla cancellazione dei dati, quanto, piuttosto, la contestualizzazione degli stessi, con il collegamento a fatti che completano il quadro di riferimento.
Questa la prospettiva di analisi del diritto all’oblio da parte della giurisprudenza italiana almeno a partire dalla pronuncia dal 2012, secondo cui “il titolare dell'organo di informazione che avvalendosi di un motore di ricerca memorizza la medesima anche nella rete internet è tenuto ad osservare i criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza e non eccedenza dell'informazione, avuto riguardo alla finalità che ne consente il lecito trattamento, nonchè a garantire la contestualizzazione e l'aggiornamento della notizia già di cronaca oggetto di informazione e di trattamento, a tutela del diritto del soggetto cui i dati pertengono alla propria identità personale o morale nella sua proiezione sociale, nonchè a salvaguardia del diritto del cittadino utente di ricevere una completa e corretta informazione, non essendo al riguardo sufficiente la mera generica possibilità di rinvenire all'interno del "mare di internet" ulteriori notizie concernenti il caso di specie, ma richiedendosi, atteso il ravvisato persistente interesse pubblico alla conoscenza della notizia in argomento, la predisposizione di sistema idoneo a segnalare (nel corpo o a margine) la sussistenza di un seguito e di uno sviluppo della notizia, e quale esso sia stato (nel caso, dei termini della intervenuta relativa definizione in via giudiziaria), consentendone il rapido ed agevole accesso da parte degli utenti ai fini del relativo adeguato approfondimento”.[9]
Di poco successiva altra pronuncia della Suprema Corte che, ritornando sul tema, ha avuto modo di precisare come il diritto del soggetto a pretendere che proprie passate vicende personali siano pubblicamente dimenticate, trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità; diversamente risolvendosi il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza, mancando la concreta proporzionalità tra la causa di giustificazione (il diritto di cronaca) e la lesione del diritto antagonista. [10]
Più di recente, la Suprema Corte, nuovamente chiamata a pronunciarsi sul tema, ha precisato che la persistente pubblicazione e diffusione su di un giornale online di una risalente notizia di cronaca esorbita, per la sua oggettiva e prevalente componente divulgativa, dal mero ambito del lecito trattamento di archiviazione o memorizzazione online di dati giornalistici per scopi storici o redazionali, configurandosi come violazione del diritto alla riservatezza quando, in considerazione del tempo trascorso, sia da considerarsi venuto meno l'interesse pubblico alla notizia stessa.[11]
Con particolare riferimento alla conservazione dei dati contenuti nei registri tenuti dalla Camera di Commercio e, più in generale, dai pubblici uffici, la Suprema Corte ha, da ultimo, osservato che in tema di trattamento dei dati personali, ai sensi dell'art. 8 della CEDU nonché degli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, l'interessato non ha diritto ad ottenere la cancellazione dei dati iscritti in un pubblico registro ed è legittima la loro conservazione. Ciò, tuttavia, precisa la Corte “esclusivamente allorquando essa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”. [12]
Ancora in tema di diritto all’oblio altra recente statuizione dalla Corte Suprema secondo cui, anche alla luce del recente Regolamento UE, sul rilievo che, ad eccezione dei casi in cui una persona rivesta un ruolo pubblico particolare ovvero di quelli in cui la notizia mantenga nel tempo un interesse pubblico, il trascorrere del tempo viene a mutare il rapporto tra i contrapposti diritti, "la pubblicazione di una informazione concernente una persona determinata, a distanza di tempo da fatti ed avvenimenti che la riguardano, non può che integrare la violazione del fondamentale diritto all'oblio". In particolare, osserva la Corte,“diritto fondamentale all'oblio può subire una compressione, a favore dell'ugualmente fondamentale diritto di cronaca, solo in presenza di specifici e determinati presupposti: 1) il contributo arrecato dalla diffusione dell'immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l'interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell'immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l'immagine; 3) l'elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l'informazione, che deve essere veritiera (poiché attinta da fonti affidabili, e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell'interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell'immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all'interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico”. [13]
Per completare il breve excursus sin qui svolto, è importante sottolineare che nel 2018 la Corte di Cassazione ha rimesso la valutazione del tema alle Sezioni Unite chiamate, quindi, ad offrire un indirizzo per una organica individuazione e visione di quel punto di equilibrio nell’importante e delicato rapporto tra il diritto l’oblio e del diritto di cronaca.[14]
Le Sezioni Unite, sulla questione di massima di particolare importanza, hanno espresso il seguente principio di diritto: "In tema di rapporti tra il diritto alla riservatezza (nella sua particolare connotazione del c.d. diritto all'oblio) e il diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato, il giudice di merito - ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a tale rievocazione, che è espressione della libertà di stampa e di informazione protetta e garantita dall'art. 21 Cost. - ha il compito di valutare l'interesse pubblico, concreto ed attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo nell'ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l'interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell'onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva".[15]
In ambito europeo, come già anticipato e sempre nel contemperamento delle esigenze sin qui rappresentate, la Corte di Giustizia UE e la Corte EDU sono state più volte chiamate a pronunciarsi in materia.
Di particolare interesse un’importante pronuncia della Corte di Giustizia del 2014 che, in riferimento ad una vicenda concernente il trattamento di dati personali da parte di un motore di ricerca (Google Spain), ha così statuito: “1) L’articolo 2, lettere b) e d), della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve essere interpretato nel senso che, da un lato, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come «trattamento di dati personali», ai sensi del citato articolo; qualora tali informazioni contengano dati personali, e che, dall’altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il «responsabile» del trattamento summenzionato, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), di cui sopra. 2) L’articolo 4, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 95/46 deve essere interpretato nel senso che un trattamento di dati personali viene effettuato nel contesto delle attività di uno stabilimento del responsabile di tale trattamento nel territorio di uno Stato membro, ai sensi della disposizione suddetta, qualora il gestore di un motore di ricerca apra in uno Stato membro una succursale o una filiale destinata alla promozione e alla vendita degli spazi pubblicitari proposti da tale motore di ricerca e l’attività della quale si dirige agli abitanti di detto Stato membro. 3) Gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita. 4) Gli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 devono essere interpretati nel senso che, nel valutare i presupposti di applicazione di tali disposizioni, si deve verificare in particolare se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato. Dato che l’interessato può, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli articoli 7 e 8 della Carta di Nizza, chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi”. [16]
La suddetta sentenza ha segnato, com’è noto, l’inizio del legittimo ed espresso riconoscimento del c.d. diritto alla deindicizzazione dei dati, vale a dire rendere irreperibili le informazioni relative al soggetto che ne invochi la tutela, impedendo al motore di ricerca di fornire risultati in virtù di ricerca con una o più parole chiave.
Invero, in applicazione della normativa in tema di protezione dei dati personali ed ancor prima del recente GDPR, la Corte così statuendo ha riconosciuto detta protezione non solo nei confronti del responsabile dei dati online, ma anche nei riguardi del gestore del motore di ricerca attesa l’attività di quest’ultimo di raccolta automatizzata e di conservazione e diffusione dei dati in virtù di semplice ricerca.
In una più recente pronuncia, la Corte EDU ha ritenuto ricorrente la prevalenza dell'interesse del pubblico all'informazione su quello del singolo all'oblio sulla base di specifici e tassativi criteri, la cui sussistenza deve essere sempre riscontrata, ai fini di riconoscere siffatta prevalenza. Invero, la Corte ha precisato che, in primo luogo, deve sussistere il contributo dell'articolo ad un “dibattito di interesse pubblico” e ciò in relazione al “grado di notorietà del soggetto” nonchè avere riguardo alle “modalità impiegate per ottenere l'informazione” ed al “contenuto della pubblicazione”, che devono, non soltanto riferirsi a notizie vere, accertate come tali sulla base di “fonti affidabili e verosimili”, ma devono essere altresì non eccedenti rispetto allo scopo informativo”, sottolineando, inoltre, nei casi in cui prevalga, appunto, il diritto all’informazione e, quindi, non ricorra alcuna violazione dell’art. 8 della CEDU, il valore degli archivi online quale “importante fonte per l’educazione e la ricerca storica, soprattutto perché prontamente accessibili al pubblico e generalmente gratuiti” .[17]
3. Alcuni recenti provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali
Sul tema molto significativi anche i provvedimenti del Garante Privacy.
Con un provvedimento del 2016, Il Garante della Privacy ha affermato che per reati particolarmente gravi prevale l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie, e pertanto in casi simili è inammissibile l’istanza di rimozione delle URL indicizzate da Google.[18]
Nel 2017, la rilevanza dell’elemento tempo, quale importante elemento di valutazione del diritto all’oblio è stata sottolineata dal Garante per la protezione dei dati personali che ha, al tempo stesso, riaffermato come l’esercizio del suddetto diritto possa, tuttavia, incontrare rilevanti limiti.[19]
Con particolare riguardo al caso in cui sia intervenuta, dopo la condanna, la riabilitazione del soggetto, il Garante della Privacy, ritenendo sussistere il legittimo esercizio del diritto all’oblio da parte del soggetto stesso, ha ordinato a Google la rimozione di alcuni Url che rimandavano ad informazioni giudiziarie non più rappresentative ed attuali. [20]
Particolarmente interessante, per l’aspetto che maggiormente interessa la presente nota, è altro provvedimento del Garante che, al fine di assicurare la tutela alle ragioni dell’istante, con provvedimento del 2018 ha ordinato a Google di deindicizzare gli URL riguardanti un cittadino italiano da tutti i risultati della ricerca sia nelle versioni europee del motore sia in quelle extraeuropee.[21]
Ebbene, proprio tale ultima decisione passata in rassegna anticipa, in qualche modo, uno degli aspetti relativi all’esercizio del diritto all’oblio su cui si è espressa la Corte europea con la recentissima sentenza oggetto della presente nota, vale a dire sulla estensione territoriale della tutela prevista per il diritto all’oblio.
4. Attuale normativa e strumenti di tutela del diritto all’oblio
Il diritto all’oblio, come si evince dal contenuto delle decisioni comunitarie e nazionali innanzi passate in rassegna, si colloca in un complesso quadro normativo che involge sia la normativa nazionale che quella europea.
Imprescindibile punto di partenza, come osservato dalle Sezioni Unite nella citata e recente sentenza, sono le disposizioni costituzionali di cui agli artt. 2, 3 e 21 Cost. , che hanno ad oggetto i diritti inviolabili, la tutela della persona, il principio di uguaglianza e il diritto di cronaca inteso, secondo la formula costituzionale, come "diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero".
La disciplina si rinviene anche nella seguente legislazione ordinaria: legge 8 febbraio 1948, n. 47, sulla stampa; le norme del codice penale sulla diffamazione e quelle sulla tutela della riservatezza, originariamente contenute nella legge 31 dicembre 1996, n. 675, e oggi trasfuse nel codice in materia di dati personali di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196; nonché nel codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica e nel testo unico dei doveri del giornalista approvato in data 27 gennaio 2016.
Tale normativa, si pone in coordinamento con quella sovranazionale.
Così: l’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui ogni persona "ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza"; l'art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, laddove nel ribadire la formula del citato art. 8, sostituisce al termine "corrispondenza" quello più moderno di "comunicazioni", mentre l'art. 8 della medesima Carta prevede il diritto di ogni persona "alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano" e dispone che tali dati siano trattati "secondo il principio di lealtà", sotto il controllo di un'autorità indipendente.
Inoltre, l'art. 16 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, nella versione consolidata risultante dal Trattato di Lisbona, che prevede il diritto di ogni persona "alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano".
Infine, più di recente, il "General Data Protection Regulation", abbreviato in GDPR, in Italia nuovo “Regolamento Europeo per la Protezione dei Dati Personali" entrato in vigore il 24 maggio 2016, ma diventato direttamente applicabile a tutti gli Stati membri a decorrere dal 25 maggio 2018, sulla "protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonchè alla libera circolazione di tali dati", atto che ha abrogato la precedente direttiva 95/46/CE e che ha reso necessaria l'emanazione del d.lgs. n. 101 del 2018 cit..
Tale Regolamento ha introdotto, invero, oltre ad una serie di innovazioni molto importanti per il consenso al trattamento dei dati personali e per i limiti al trattamento automatizzato dei dati stessi, il diritto all’oblio su internet.
Precisamente, l’esercizio del diritto all’oblio è previsto e disciplinato dall’art. 17 del GDPR che così recita: “L’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se sussiste uno dei motivi seguenti: i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati; l’interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento; l’interessato si oppone al trattamento e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento; i dati personali sono stati trattati illecitamente; i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo legale previsto dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento; i dati personali sono stati raccolti relativamente all’offerta di servizi della società dell’informazione”.
4. Recentissima sentenza della Corte di Giustizia UE del 24 settembre 2019
La sentenza in rassegna ha riacceso il dibattito, per vero mai sopito, intorno al tema del diritto all’oblio, rappresentando per molti una battuta d’arresto nel suo percorso evolutivo anche alla luce dei contributi offerti dalla dottrina e giurisprudenza comunitaria e nazionale.
Questo il dispositivo della decisione in esame: “L'articolo 12, lettera b), e l'articolo 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, e l'articolo 17, paragrafo 1, del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46 (regolamento generale sulla protezione dei dati), devono essere interpretati nel senso che il gestore di un motore di ricerca, quando accoglie una domanda di deindicizzazione in applicazione delle suddette disposizioni, è tenuto ad effettuare tale deindicizzazione non in tutte le versioni del suo motore di ricerca, ma nelle versioni di tale motore corrispondenti a tutti gli Stati membri,e ciò, se necessario, in combinazione con misure che, tenendo nel contempo conto delle prescrizioni di legge, permettono effettivamente di impedire agli utenti di Internet, che effettuano una ricerca sulla base del nome dell'interessato a partire da uno degli Stati membri, di avere accesso, attraverso l'elenco dei risultati visualizzato in seguito a tale ricerca, ai link oggetto di tale domanda, o quantomeno di scoraggiare seriamente tali utenti”.[22]
Ebbene, con tale decisione è stato, evidentemente, circoscritto territorialmente l’ambito in cui il motore di ricerca deve, naturalmente sulla ricorrenza delle circostanze previste dalla normativa vigente, procedere alla deindicizzazione così che non è tenuto ad effettuarla in tutte le sue versioni quanto, piuttosto, solo in quelle versioni corrispondenti a tutti gli Stati membri.
La questione è sorta nell'ambito di una controversia tra Google e la Commission nationale de l'informatique et des libertés relativamente a una sanzione, da quest'ultima irrogata nei confronti di Google per il suo rifiuto ad accogliere una domanda di deindicizzazione e ad applicarla su tutte le estensioni del nome di dominio del suo motore di ricerca.
Come si legge nella parte motiva della sentenza in esame, la Corte ha osservato che se pure con la previsione di cui all'articolo 17 del GDPR, si è proceduti al bilanciamento tra i contrapposti diritti, vale a dire, da un lato, il diritto alla tutela della vita privata dell'interessato e la protezione dei dati personali che lo riguardano e, dall'altro, l'interesse del pubblico dei diversi Stati membri ad avere accesso alle informazioni, lo stesso non può affermarsi per quanto riguarda la portata di una deindicizzazione al di fuori dell'Unione per la quale non si è proceduti a tale bilanciamento.
In particolare, la corte ha precisato che dal tenore letterale delle disposizioni dell'articolo 12, lettera b), e dell'articolo 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46 o dell'articolo 17 del regolamento 2016/679, non risulta affatto che il legislatore dell'Unione abbia scelto di attribuire ai diritti sanciti da tali disposizioni una portata che vada oltre il territorio degli Stati membri e che abbia inteso imporre a un operatore che, come Google, rientra nell'ambito di applicazione della direttiva o del regolamento suddetti, un obbligo di deindicizzazione riguardante anche le versioni nazionali del suo motore di ricerca che non corrispondono agli Stati membri.
A ciò ha aggiunto che, mentre il GDPR fornisce, agli articoli 56 e da 60 a 66, alle autorità di controllo degli Stati membri gli strumenti e i meccanismi che consentono loro di cooperare all’interno dell’Unione, lo stesso non è previsto per quanto riguarda la portata di una deindicizzazione al di fuori dell'Unione stessa.
Importante, però, sottolineare come nella parte finale della motivazione, la Corte precisi che, se pure il diritto dell’Unione non impone, allo stato attuale, che la richiesta di deindicizzazione accolta verta su tutte le versioni del motore di ricerca, è pur vero che tale possibilità non è preclusa in mancanza di un divieto espresso.
Pertanto, sul punto la Corte conclude nel senso di riconoscere ad un'autorità di controllo o un'autorità giudiziaria di uno Stato membro la competenza ad effettuare, conformemente agli standard nazionali di protezione dei diritti fondamentali, un bilanciamento tra, da un lato, il diritto della persona interessata alla tutela della sua vita privata e alla protezione dei suoi dati personali e, dall'altro, il diritto alla libertà d'informazione, al cui esito richiedere, se del caso, al gestore di tale motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione su tutte le versioni di suddetto motore.
Ebbene, nonostante gli sforzi argomentativi la decisione lascia probabilmente ancora degli interrogativi animando il dibattito sul tema di grande interesse.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Wikipedia, enciclopedia libera online, voce “rivoluzione digitale”.
[2] Cfr. F. Pizzati, Il caso del diritto all’oblio, Torino, 2013. L’Autore osserva che nel nostro ordinamento non si rinviene una previsione espressa che disciplini il diritto all’oblio, che ha, pertanto, matrice giurisprudenziale, dovendosi in maggior parte alle decisioni delle Corti e, soprattutto, dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
[3] G. Finocchiaro, Il diritto all’oblio nel quadro dei diritti della personalità, Milano, 2014; in tema, ex plurimis , E. Gabrielli , Il diritto all’oblio. Atti del Convegno di Studi del 17 maggio 1997, Napoli, 1999; T.A.Auletta, Diritto alla riservatezza e “droit à l’oubli”, in G. Alpa – M. Bessone – L. Boneschi – G. Caiazza , L’informazione e i diritti della persona, Napoli, 1983, 127 ss.; A. Masaracchia, Diritto alla riservatezza e “droit à l’oublii”, in Giurisprudenza costituzionale, 1997, 3018 ss.; G. Ferri, Diritto all’informazione e diritto all’oblio, in Rivista di diritto civile, 1990, 801 ss.; M. R. Morelli, voce “oblio”, in Enciclopedia del diritto, Milano.
[4] M. Mezzanotte, Il diritto all’oblio – contributo allo studio della privacy storica, Edizioni scientifiche italiane, 2009, p.122.
[5] M. Iaselli, Come esercitare il diritto all’oblio in internet, Roma, 2017, p. 4.
[6] G. Sartor, Privacy, reputazione e affidamento: dialettica e implicazioni per il trattamento dei dati personali, in Privacy digitale: Giuristi e informatici a confronto, Torino, 2005, pp. 81-97.
[7] Zeno-Zencovich, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Napoli, 1985, p. 120.
[8] T.E. Frosini, Il diritto all’oblio e la libertà informatica, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, n. 4/5, 2012.
[9] Corte di Cassazione, sentenza 5 aprile 2012 n. 5525.
[10] Corte di Cassazione, sentenza 26 giugno 2013 n. 16111.
[11] Corte di Cassazione, sentenza 24 giugno 2016 n. 13161.
[12] Corte di Cassazione, sentenza 9 agosto 2017 n. 19761.
[13] Corte di Cassazione, 20 marzo 2018 n. 6919
[14] Corte di Cassazione, ordinanza n. 28084/2018.
[15] Sezioni Unite, sentenza 22 luglio 2019 n. 19681.
[16] Corte di Giustizia Europea, 13 maggio 2014, C – 131/12, Google Spain.
[17] Corte EDU, 19 ottobre 2017, Fuchsmann/Germania.
[18] Garante per la Privacy , provvedimento 31 marzo 2016 n. 152.
[19] Garante per la protezione dei dati personali, doc. web. n. 6692214.
[20] Garante per la Privacy, provvedimento 24 luglio 2019 n. 153.
[21] Garante per la protezione dei dati personali, doc. web. n. 7465315.
[22] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, sentenza 24 settembre 2019, C-507/17, in www.eius.it, giurisprudenza 2019.