L´impresa societaria tra Corporate Social Responsibility e Shareholder value
Modifica paginaIn queste righe l’analisi, con riferimento alle società di capitali, su quali siano gli interessi coinvolti (o che dovrebbero esserlo) nei processi decisionali di una impresa societaria. Se esistono, cioè, strumenti atti a inibire una gestione volta esclusivamente all’incremento dell’utile a favore di una governance trasparente e attenta a tutti gli interessi coinvolti nell’esercizio di una determinata attività economica, la loro natura e giustificazione.
Sommario: 1. Il paradigma del conflitto e il concetto di interesse sociale; 2. Tesi istituzionaliste; 3. Tesi contrattualiste; 4. I principi di correttezza, buona fede e collaborazione tra gli azionisti; 5. Odierna elaborazione del concetto di interesse sociale: dalla Shareholder Value agli interessi sociali; 6. La Corporate Social Responsibility e i nuovi modelli di Corporate Governance: i codici di autodisciplina.
1. Il paradigma del conflitto e il concetto di interesse sociale.
Il paradigma fondamentale sul quale concentrare la nostra analisi è dato da quella relazione che vede ai due estremi: da una parte l’interesse sociale, da intendersi quale scopo perseguito in una società attraverso il canonico sistema del procedimento decisionale di tipo assembleare, e dall’altra tutti gli altri interessi variamente coinvolti rispetto alla ragione sociale.
Con riferimento ai secondi, questi sono generalmente individuati nei cd. interessi degli Stakeholder[1], mentre decisamente più problematico è riempire di significato il primo termine.
A riguardo non possiamo non effettuare una ricostruzione storica del dibattito dottrinale e giurisprudenziale nato ed evolutosi sul tema, per la centralità ed importanza degli argomenti coinvolti in quanto attinenti all’intero ordinamento societario[2]. L’individuazione delle caratteristiche dell’interesse sociale, è stato per almeno un quarantennio influenzato ed esasperato dallo scontro concettuale tra le opposte teorie cc.dd. istituzionaliste e contrattualiste. Il plurale è d’obbligo, data l’impossibilità di determinare un istituzionalismo e contrattualismo “puri” stante la varietà delle posizioni, nell’una e nell’altra tesi, che vengono convenzionalmente ricomprese sotto una medesima “bandiera” per via di alcuni tratti comuni. La questione è molto complessa e controversa, di respiro transnazionale, al punto che teorie dello stesso gruppo implicano talvolta risvolti applicativi profondamente diversi e, viceversa, teorie di segno opposto conducono a risultati sostanzialmente coincidenti. In questa sede ci limiteremo a citare quelle principali e più significative emerse nel panorama dottrinale.
È tuttavia opportuno cominciare la nostra analisi dalla corretta nozione di “interesse”, preso atto del non coincidente significato attribuitogli in lingua italiana e dalla speculazione teorico-giuridica: dal punto di vista strettamente tecnico, possiamo definirlo come “la relazione tra un soggetto, cui fa capo un bisogno, e il bene idoneo a soddisfare tale bisogno, determinata nella previsione generale ed astratta di una norma”[3]. Fra i singoli interessi che possono far capo ad una medesima persona ovvero a soggetti differenti, e in ragione del loro soddisfacimento, intercorrono relazioni di indifferenza, interferenza (o conflitto) o di strumentalità. In particolare:
- il conflitto si verifica laddove la soddisfazione di un bisogno esclude il soddisfacimento, anche solo parziale, dell’altro;
- la strumentalità, implica che il bisogno di uno non può essere soddisfatto se non è soddisfatto il bisogno dell’altro. Si può parlare in questo caso di solidarietà di interessi, che trova la sua principale espressione nell’interesse collettivo tipicamente sotteso nei negozi associativi, semplici e complessi.
L’interesse collettivo è a sua volta classificabile in interesse di gruppo ed interesse di serie:
- la serie è per definizione non finita e comprende tutti gli individui che si trovano in un qualsiasi momento in un dato rapporto (es. la famiglia), ergo l’interesse di serie è quello tipico di tutti i soggetti facenti parte di quel rapporto, siano essi attuali, futuri od eventuali,
- il gruppo, invece, comprende solo quei soggetti esistenti e che ne fanno parte in un dato e specifico momento (es. la famiglia di Mario Rossi), ergo l’interesse di gruppo è quello particolare e comune a quelle persone che attualmente ne sono parte.
Dal punto di vista normativo, appare chiaro come i due tipi di interessi postulino tutele differenti: il legislatore, infatti, se con riferimento ai secondi deve curarsi essenzialmente di individuare gli strumenti di composizione di eventuali liti tra gli appartenenti al gruppo, lasciandolo libero di autodeterminare e ponderare quello che è il suo attuale interesse, dall’altra parte non può certamente lasciare che la valutazione di un interesse di serie venga compiuta da privati in assenza di opportuni criteri ed entro determinati limiti. L’interesse di serie è infatti generale ed astratto, potenzialmente in conflitto con altri interessi generali che fanno capo ai cittadini e il cui bilanciamento nonché la concreta realizzazione spetta all’organizzazione statale.
Queste premesse sono necessarie alla comprensione della contrapposizione di cui ci occuperemo, perché è sulla natura di interesse di serie o interesse di gruppo dell’interesse sociale che si è per lungo tempo giocata la partita tra istituzionalismo e contrattualismo: invero, il contratto è considerato come lo strumento migliore a regolare interessi di gruppo, liberamente individuabili dai soggetti facenti parte di questo, mentre “l’istituzione” che “può rinnovarsi, conservandosi la medesima e mantenendo la propria individualità”[4] è decisamente più idonea alla tutela degli interessi di serie.
2. Tesi istituzionaliste.
Può affermarsi che tali posizioni indentificano l’interesse sociale in quello proprio della società, teorizzata quale centro di imputazione autonomo che trascende e supera quello dei soci, collettivamente e singolarmente. L’istituzionalismo, cioè, muove da un’analisi dell’impresa intesa universalmente: un’attività che congloba diversi interessi, dunque non solo quello degli azionisti alla massimizzazione del lucro ma un complesso unitario nel quale trovano tutela anche le prerogative dei dipendenti della società, dei consumatori e persino l’interesse generale allo sviluppo della economia nazionale. Qualificare in questi termini la società, e assegnarle un ruolo di vera e propria istituzione sociale, ha come conseguenza necessaria l’apposizione di vincoli di gestione volti all’orientamento dell’impresa che si traducono in veri e propri limiti al diritto di voto degli azionisti, non più liberi di esercitarlo secondo personali tensioni e bisogni perché gravati dell’obbligo di curare il superiore interesse sociale.
La genesi di questa impostazione, o forse sarebbe più corretto parlare di “Big bang” data la copiosità di sfaccettature derivatene, va datata agli inizi del ‘900 e in particolare al periodo del primo dopoguerra tedesco. Facciamo riferimento alla teoria dell’Unternehment an sich - “Impresa in sé”, che ha notevolmente influenzato il diritto azionario dell’epoca: ci troviamo di fronte al declino della concezione ottocentesca di impresa intesa come organizzazione di interessi di diritto privato e che in questa nuova cornice, “perde il suo carattere di strumento di massimizzazione dell’utilità privata, di espressione dello sforzo creativo dell’imprenditore, per diventare il punto di incontro di interessi che fanno capo a soggetti o a classi sociali tradizionalmente estranei ai processi decisionali dell’impresa”[5] e va disciplinata come “fattore dell’economia nazionale, appartenente alla collettività”. Questa teoria fu aspramente giudicata e catalogata come il prodotto di una situazione contingente di tipo emergenziale, sebbene di grandi e gravissime proporzioni[6], e dunque inidonea ad assurgere a criterio generale di orientamento per la regolamentazione dell’impresa e della società, ma nonostante ciò essa “non soltanto è sopravvissuta al superamento delle crisi economiche e politiche che l’avevano vista sorgere, ma si è sviluppata in forma analoga in paesi nei quali quei fenomeni avevano avuto uno svolgimento tutt’affatto diverso o che addirittura non ne erano stati colpiti”[7]. Quando parliamo di “Impresa in sé” non possiamo esimerci dal dedicare alcune battute al suo massimo teorico, Walther Rathenau[8]: egli riteneva che la grande impresa dovesse essere franca da vincoli e libera di perseguire i propri fini che, però, venivano ravvisati nel costruire ricchezza per la comunità, favorirne il progresso scientifico e tecnologico, nell’offrire lavoro e tutto ciò che implicava un sostegno allo sviluppo economico-sociale. E’ lampante come la società[9] assuma nel suo pensiero rilevanza propria e diventi elemento di evoluzione e crescita collettiva nazionale. Tra il 1918 e il 1919, in tre saggi[10], spiegava con chiarezza e intensità il suo progetto di distribuire le funzioni e il plusvalore delle imprese secondo una destinazione di tipo sociale anziché a favore del mero profitto. Scriveva "l’avvenire dell'impresa non sarà il rafforzamento della concezione economico-privata, ma essenzialmente il suo consapevole inserimento nell' economia della collettività, l'integrazione nello spirito della responsabilità collettiva e del bene dello Stato". Ergo Rathenau vedeva nei piccoli azionisti i “più pericolosi nemici dell’impresa”, un ostacolo alla realizzazione dell’interesse sociale poiché mossi esclusivamente da intenti lucrativi[11], soggetti il cui operato e la cui tutela “lascia in ombra la difesa dell’impresa, saldo pilastro della conservazione dello Stato”[12]. Celebre e molto citata la risposta data agli azionisti della Norddeutscher Lloyd, una società di navigazione, i quali lamentavano scarsi guadagni del loro investimento azionario: la società non esisteva per “distribuire dividendi a lorsignori, ma per far andare i battelli sul Reno”. L’espressione “i Battelli del Reno”[13] è diventata idiomatica dell’interesse sociale, di una oggettivizzazione della impresa tale da determinare talvolta anche una contrapposizione fra interesse degli azionisti e l’interesse dell’impresa in sé. Dalla successiva elaborazione dei seguaci del Rathenau, derivò un modello teorico istituzionalista della società per azioni e dell’interesse sociale di accentuata impostazione pubblicistica. Giusto per indicarne i tratti salienti: riconoscimento all’impresa di un interesse identificabile nella sua maggiore efficienza produttiva, assegnazione del controllo dell’impresa ad una amministrazione stabile, riduzione dei diritti degli azionisti[14].
Abbiamo già accennato quali furono dal punto di vista ideologico-politico le principali critiche mosse all’Unternehment an sich, lo stesso Haussmann, padre di una delle teorie istituzionaliste tedesche, ebbe modo di specificare che la società per azioni resta un istituto di diritto privato, uno strumento di soggetti privati diretto non al perseguimento di astratti fini generali ma alla concreta realizzazione di un guadagno. Ma non mancarono censure anche dal punto di vista strettamente giuridico, la teoria venne accusata di sopprimere il principio democratico e lo stesso principio di maggioranza perché di fatto affidava la gestione e l’indirizzo dell’impresa esclusivamente a quei pochi azionisti rappresentati nel Consiglio di Amministrazione[15]. Va infatti rilevato che sebbene la “Impresa in sé” svolse certamente un ruolo non secondario per la politica e la produzione legislativa tedesca del tempo, non trovò mai piena applicazione[16].
Passiamo alla seconda delle maggiori tesi istituzionaliste: la Person in sich. Questa si incentra sul concetto di realtà della persona giuridica e il cui principale assertore fu Otto von Gierke: secondo la cd. teoria organica, lo Stato e gli aggregati sociali sono enti reali dotati, parimenti all’uomo, di vita propria e di una propria volontà. Ne deriva che la società per azioni, essendo persona giuridica, può ed è titolare di un interesse proprio, superiore e diverso da quello facente capo ai soci, conseguendone ulteriormente che il voto è concesso all’azionista non nel suo interesse ma in ragione della soddisfazione di quello della società in quanto suo organo. Anche in questo caso viene a crearsi un paradigma di interesse sociale tipico, non disponibile alla volontà (mutevole) dell’assemblea e alle persone dei soci (siano essi intesi come attuali, futuri o eventuali). E allora qual è la differenza tra la teoria dell’Unternehment an sich e quella della Person in sich[17] ? Esiste? Si, è sottile ma decisiva, rendendo le due teorie profondamente differenti dal punto di vista dei risvolti applicativi, e sta nella nozione di impresa e del relativo suo scopo: nella seconda teoria, infatti, questo va ricercato nell’attività economica assunta ad oggetto sociale e non ha, né può avere, nulla a che fare con interessi e scopi esterni alla stessa e men che meno di natura pubblicistica (perno, invece, della prima impostazione)[18].
Torniamo dunque ad Haussmann e occupiamoci della terza teoria istituzionalista tedesca del primo dopoguerra. L’Autore innanzitutto nega che possa attribuirsi un interesse a soggetti diversi dalle persone fisiche e vede l’impresa come un “organismo vivente” nel quale confluiscono e si incontrano soggetti differenti (azionisti, membri del Consiglio di Amministrazione, membri del Consiglio di Vigilanza, creditori e dipendenti), titolari di un interesse comune (tipicamente ravvisato nello scopo di lucro) che altro non sarebbe se non la somma dei loro interessi individuali collegati all’impresa e che nella stessa si coordinano. Haussmann esclude qualsiasi rilevanza dell’interesse pubblico[19] e, sotto il profilo gestionale, non pone freni all’esercizio del diritto di voto del socio che potrà pure perseguire interessi extrasociali, purché non agisca in mala fede e con dolo al fine di danneggiare gli altri azionisti, così come non vincola l’operato dei membri del CDA all’interesse della società (pur sottolineando la necessità di tener conto anche di ulteriori interessi quali quelli dei creditori e dei lavoratori e di Gruppo).
Il dibattito “istituzionalista” così tracciato proseguì fino all’avvento del regime nazista che fece proprie le tesi dell’Unternehment an sich e condusse presto, nel 1937, alla promulgazione di una serie di norme ad essa palesemente ispirate. Tra le più emblematiche e significative troviamo l’obbligo per Consiglio di Amministrazione, cd. Vorstand, di dirigere la società secondo il bene dell’impresa, il bene dei dipendenti, secondo l’interesse comune della nazione e del Reich[20] e la possibilità per il Ministro dell’Economia di richiedere lo scioglimento di una società per azioni o in accomandita per azioni quando, venuta meno ai principi di una responsabile impresa economica, la sua attività “scellerata” metta in pericolo il bene pubblico[21].
Dopo esserci soffermati sulla rassegna tedesca, culla dell’istituzionalismo, passiamo alla elaborazione dottrinale nazionale per lo stesso versante[22]. Nonostante la certa influenza delle teorie dei cugini d’oltralpe, il panorama che venne a caratterizzarsi entro i nostri confini presentava profili leggermente differenti. Può dirsi che la concezione istituzionalista radicatasi nel Bel Paese, è molto vicina (se non quasi identica) alla tedesca Person in sich: dalle premesse della teoria organica di Otto von Gierke, postulava in capo al socio un dovere al perseguimento del superiore e autonomo interesse sociale[23]. Ma, non esistendo nella previgente codificazione italiana una norma che dichiarasse “immorale” il voto esercitato per interessi non corrispondenti a quello collettivo (previsione invece rinvenibile nel BGB), era diffuso ricorrere alla figura dell’eccesso di potere di derivazione pubblicistica[24]: l’atto sociale doveva ritenersi viziato alla pari di un atto amministrativo assunto per la concretizzazione di interessi privati, propri delle persone investite della funzione, e non nell’interesse pubblico (cd. teoria dell’eccesso di potere).
La speculazione fin qui esposta è databile sino al 1942, anno di entrata in vigore dell’unificato nuovo Codice civile e la cui promulgazione avrebbe dovuto porre fine ad ogni dibattito dottrinale in merito. Già all’indomani gli Autori, infatti, si trovarono quasi unanimemente d’accordo nel rilevare una (tanto auspicata) “presa di posizione” da parte del legislatore il cui orientamento risultava manifestatamente contrattualista e la cui espressione più palese era contenuta nell’art 2247 c.c. “Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili”[25]. Ma nonostante ciò, continuarono a sopravvivere opinioni in senso opposto[26].
3. Tesi contrattualiste
Anche in questo caso non ci è dato parlare di un indirizzo unitario, ma piuttosto di varie posizioni il cui tratto comune è dato dall’individuazione dell’interesse sociale nell’interesse collettivo degli azionisti. Parliamo di un modello interamente poggiato sulla proprietà e sulla libertà economica che sottende un concetto di impresa quale frutto di un accordo contrattuale, la cui esecuzione consente a tutte le parti la soddisfazione dei propri interessi, nel quale i rapporti ed eventuali conflitti sono regolati nel rispetto della causa contrattuale e gli amministratori devono sì operare con diligenza, ma nel perseguimento del solo interesse dei soci così definito. Le principali ragioni della frammentazione che proveremo a ricostruire, possono ravvisarsi nella differente percezione del concetto di interesse sociale inteso quale interesse collettivo, nel differente ruolo che gli Autori attribuiscono allo stesso, nel disaccordo circa l’affidamento ad un giudice di poteri di controllo e verifica determinanti la eventuale dichiarazione di invalidità delle deliberazioni contrarie.
Partendo dal primo punto, posto che la dottrina prevalente era concorde nell’intendere l’interesse collettivo come l’interesse comune agli azionisti in quanto tali ossia un interesse tipico e necessariamente comune a tutti perché utii soci e cioè riferibile alla qualifica di socio (infatti tutti gli altri interessi complessivamente e generalmente facenti capo alla persona fisica venivano considerati extrasociali[27]), divergenze sussistevano circa quello che doveva ritenersi il suo contenuto sostanziale: alcuni (come l’Asquini, il Rossi, il Simonetto) ponevano l’accento sulla necessità di tener conto della variabilità dei soci nel tempo[28], pertanto questo poteva sostanziarsi solo nell’efficienza della impresa sociale e nella massimizzazione degli utili, a risultati simili è approdato chi (il Ferri[29]) ravvisava una coincidenza tra l’interesse sociale e lo scopo della persona giuridica che, a sua volta, era intesa come personificazione dell’interesse comune all’interno del gruppo dei soci[30]. Accanto alla prima esposta, troviamo una tesi che ne ribalta l’assunto iniziale[31] sostenendo, al contrario, l’impossibilità di considerare i soci futuri o eventuali in quanto l’interesse sociale è quello comune agli azionisti attuali: è stato osservato come sia “difficile configurare un interesse autonomo dei soci futuri o eventuali quando si dimostra che gli azionisti attuali hanno il potere assoluto e incondizionato di decidere se vi saranno dei soci futuri”. Tuttavia, fatta eccezione per il concetto base, le due teorie non presentano ulteriori elementi di diversificazione e, invece, può rilevarsi come entrambe insistano su un perno comune che è la contrapposizione tra interesse sociale (tipico, specifico e immutabile) ed interesse extrasociale. E allora, a ben vedere, considerato che la “massimizzazione dell’utile” è un interesse attribuibile indistintamente a soci futuri, attuali o eventuali, la differenziazione in parola è solo apparente[32].
Nella elaborazione dottrinale successiva inizia a “sgretolarsi”[33] proprio quella “contrapposizione fondamentale”, quella visione dell’interesse sociale come tipico e specifico, tanto che si arrivò a ravvisarlo in ogni rapporto di solidarietà fra gli interessi degli azionisti o, ancora, nell’interesse di volta in volta riconosciuto come tale dalla maggioranza dell’assemblea. Ovviamente i risvolti applicativi di questi due assunti sono profondamente diversi rispetto a quelli scaturenti alla concezione prima analizzata, basti rilevare che implicano inevitabilmente l’impossibilità di verificazione di un conflitto di interessi e che tutte le deliberazioni sono necessariamente conformi all’interesse sociale. Ma è proprio un tale “approdo” argomentativo che ci induce ad escluderne la validità, dato il palese contrasto con le norme di diritto positivo enunciate dal codice del 1942 e successive modifiche.
Assumendo ora il problema nella prospettiva della seconda problematica a incipit enunciata, cioè quello dell’esistenza o meno di un vincolo in capo ai soci al perseguimento dell’interesse sociale[34], notiamo una parte della dottrina schierata a sostegno della sussistenza di un tale tipo di obbligo e la cui conseguenza era quella di ritenere viziati sia i voti espressi in contrasto all’interesse sociale nonché le stesse deliberazioni così assunte dalla maggioranza. L’imposizione veniva fatta discendere dall’asserzione che l’azionista votante è titolare di un interesse collettivo, facente capo a tutti i soci e costituente, secondo i meccanismi del principio maggioritario, la volontà della persona giuridica. Il socio, perciò, detiene un potere giuridico (il voto) che si ripercuote nella sfera di altri soggetti e, in ragione di questa caratteristica, non può esercitarsi se non per il perseguimento di un interesse riconosciuto e tutelato dall’ordinamento (l’interesse sociale, in questo caso). Tale ricostruzione viene fondata su norme di diritto pubblico e privato e, in particolare, in quelle norme di diritto amministrativo che consentono l’invalidazione di atti amministrativi per eccesso di potere, nell’art. 1394 c.c. in materia di conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato e nell’art. 2373 c.c. per quanto riguarda la normativa societaria del conflitto di interessi. Per riassumere, elemento chiave è la percezione del voto non tanto quale diritto soggettivo ma come potere giuridico[35] e chi legge avrà certamente notato la identità di conseguenze alle quali approdano la tesi appena viste e quelle istituzionaliste.
Non mancarono, però, voci contrastanti e obiettivamente volte ad affrancare l’azionista nell’esercizio del voto, salvo il limite “supremo” dell’interesse collettivo (per esempio Ascarelli individua nell’interesse sociale un limite funzionale[36], Mengoni invece lo qualifica come limite esterno[37], ecc.). Non ne viene, cioè, smentita la natura di diritto soggettivo ma questo trova un argine nella tutela degli interessi dei terzi: infatti, se lo scopo perseguito è “solo” quello di nuocere altri soci, la libertà cessa e di conseguenza il voto e la deliberazione così assunta dalla maggioranza deve assumersi come viziata. Il principio fondante tali argomentazioni viene variamente individuato talvolta nel principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, talvolta nel motivo illecito ovvero nell’abuso del diritto, ecc. ma al di là della discordanza su questo fronte, il “limite” a cui abbiamo finora fatto riferimento, indipendentemente dalla sua qualificazione formale, viene da tutti gli Autori concepito come generale e, pertanto, non enunciato espressamente in una norma giuridica ma desumibile dall’intera disciplina e dall’ordinamento.
Secondo un’altra impostazione, antitetica a quella appena esposta, l’interesse sociale si porrebbe invece come limite specifico, relegando la sua funzione inibitrice alle sole ipotesi espressamente indicate dalla legge. L’assunto viene basato proprio sull’art. 2373 c.c.[38], ritenuto espressione specifica di rilevanza[39], e la migliore dottrina era concorde nell’affermare che questo trovi applicazione solo in presenza di una preesistente situazione oggettiva di conflitto fra socio e società, dalla quale possa scaturire danno per questa.
Andiamo, senza troppo soffermarci, alla terza problematica evidenziata, relativa ai poteri di controllo e verifica attribuibili al giudice. A riguardo, possiamo rilevare l’esistenza di due correnti principali: entrambe tendono a circoscrivere il più possibile l’intervento dell’autorità, a salvaguardia della autonomia ed autodeterminazione della politica economica da parte della società, ammettendo un’indagine sul merito esclusivamente al fine di accertare il vizio di legittimità della deliberazione. La differenza tra di esse si basa sulla individuazione degli elementi legittimanti tali intervento, infatti:
- Secondo una parte della dottrina, il giudice procede qualora esistano prove univoche dell’intenzione della maggioranza di perseguire interessi extrasociali,
- Secondo altri, è irrilevante l’interesse perseguito dal socio in quanto il riesame può essere effettuato solo nei casi previsti dalla legge.
4. I principi di correttezza, buona fede e collaborazione tra gli azionisti.
Concludiamo la nostra ricostruzione dando ragione dell’indirizzo dottrinale prevalente affermatosi, facendo però attenzione a sottolineare nuovamente l’impossibilità di operare una ricostruzione unitaria e unanime e che, piuttosto, ci accingiamo a riferire di una tendenza generale che nelle sue diverse espressioni è stata condivisa dai più Autorevoli del periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore del nuovo codice. L’indagine compiuta ci ha mostrato come la dottrina maggioritaria abbia escluso che la disciplina della società per azioni possa esser volta alla realizzazione di un interesse istituzionale. D’altra parte, riconoscere natura contrattuale alla società non implica attribuire ai soci illimitata libertà e possibilità di servirsene né che gli azionisti di minoranza rimangano privi di protezione giuridica di fronte a una maggioranza pretenziosa di dirigere la società a perseguimento di propri fini particolari: ciò comporta unicamente che all’interno della specifica disciplina societaria assumono rilevanza solo gli interessi dei soci, mentre la tutela di tutti gli altri soggetti coinvolti nel contratto sociale rimane affidata ai rimedi della disciplina contrattuale generale. Dunque, secondo il punto di vista appena esposto, non vi sarebbe motivo di considerare l’ipotesi contrattualista come la concezione meno garantistica. In particolare, si configurerebbe un obbligo di collaborazione in capo ai soci[40] (la cui violazione comporta l’annullamento della delibera maggioritaria assunta a perseguimento di scopi “estranei”) perché l’interesse sociale non può che identificarsi nell’interesse di tutti i membri a che la società non subisca un danno in conseguenza del perseguimento di un interesse extrasociale. Tale dovere, od onere, sarebbe insito nella natura stessa del contratto di società, attraverso il quale le parti comunemente circoscrivono e “consacrano” una serie di interessi alla cui realizzazione è interamente tesa la regolamentazione ed organizzazione della società stessa (lo statuto rappresenterebbe quindi “la puntuale espressione dell’operazione negoziale voluta”[41]), e ciò risulterebbe confermato dall’art. 2247 c.c. ove appare evidente la funzione strumentale dei conferimenti rispetto all’ “esercizio in comune dell’attività economica”[42]. Secondo l’impostazione in parola, il socio dà esecuzione al contratto sociale attraverso l’esercizio del suo voto e da quanto affermato deriva un’ulteriore conseguenza: il voto, prima ancora di essere un diritto, è una vera e propria prestazione contrattuale e in quanto tale suscettibile di sottoposizione alla regola generale dettata per tutti i contratti dall’art. 1375 c.c. dell’esecuzione secondo buona fede. Ergo, deve riconoscersi una violazione nel comportamento di quegli azionisti i quali perseguano, col voto, interessi particolari, estranei al contratto sociale, a danno della minoranza[43]. Ora, è chiaro che, in linea generale, non è posto ostacolo a quella unanimità che intenda sospendere il perseguimento degli interessi ab origine della società in favore di altra attività che però miri a scopi non appartenenti a quel nucleo, ma tale libertà incontra certamente dei limiti strutturali necessari. In particolare: a) quando la sospensione sia tale da impedire la ripresa o la realizzazione dello scopo originario, invero, la disciplina della società ne prevede lo scioglimento per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale; b) ovvero quando a tendere per tale “digressione” non sia tutta la compagine sociale, infatti, ove vi sia una minoranza “anche infima” (P. Jaeger), e pur se ridotta a un solo socio, che pretenda l’esecuzione del contratto sociale così come previsto e regolato, questa potrebbe legittimamente impugnare[44] le deliberazioni ottenendone l’annullamento.
Un secondo indirizzo, invece, se da una parte riconosce l’origine contrattuale della società, dall’altra rigetta la tesi dell’applicabilità della disciplina contrattuale, perché ritenuta incompatibile con lo stesso diritto positivo. In particolare, viene posto in evidenza come, a seguito della iscrizione della società nel registro delle imprese, le vicende generali del rapporto contrattuale e quelle previste specificamente per i contratti con comunione di scopo, sono regolate da una normativa speciale e autonoma[45] e la ragione di dare alla materia societaria un “ordinamento” differente si regge sulla fondamentale e prevalente esigenza di assicurare una tutela ai terzi con cui l’organizzazione entra in contatto[46]. Il contratto sociale non regola in modo definitivo gli interessi fondamentali delle parti, ma è funzionalmente destinato alla creazione di una organizzazione idonea a realizzare autonomi mutamenti di struttura (ad autodeterminarsi) attraverso il principio di maggioranza, cioè: si mette in piedi un “ordinamento” (di origine contrattuale) caratterizzato dal potere della maggioranza di modificare lo stesso contratto e al quale fanno da contrappeso normativo la sottomissione della stessa a regole procedimentali e la ripartizione di competenze nell’organizzazione. Il voto, dunque, non rappresenta una prestazione dovuta ma un mezzo di partecipazione (proprio del gruppo) all’esercizio dell’attività. Secondo questa impostazione, in ragione dell’impossibilità di ricondurre la disciplina della Società per Azioni alla disciplina generale dei contratti, non possono applicarsi principi di collaborazione o buona fede, ma piuttosto deve ravvisarsi un principio di correttezza destinato ad agire nell’ambito di un procedimento deliberativo[47]. Per dirla con le parole di Agostino Gambino, uno dei suoi assertori, “l’azione del criterio della correttezza si sposta quindi al momento del giudizio, ponendo un limite all’esercizio del voto ed assolvendo ad una esigenza di legalità sostanziale del procedimento. (…) Dato che l’attività dei soci si esprime nel procedimento deliberativo, il principio di correttezza opera qui sul voto in quanto elemento essenziale del procedimento e sanziona quindi l’abuso dell’esercizio di voto;(…) la sua violazione, attraverso la c.d. prova di resistenza implica l’invalidità della deliberazione per illegittimità nel procedimento”.
Per concludere, prescindendo dalle peculiarità delle singole posizioni, possiamo tuttavia notare la “tendenza comune” ad imporre una sorta di codice di comportamento dei soci ispirato ai canoni generali della correttezza e buona fede, della collaborazione e principi di solidarietà in genere, ai fini della repressione dei possibili comportamenti abusivi dei soci e dunque della tutela delle minoranze.
5. Odierna elaborazione del concetto di interesse sociale: dalla Shareholder Value agli interessi sociali.
Se in dottrina appariva ormai chiara l’impostazione codicistica di tipo contrattualista, dello stesso avviso non era però la giurisprudenza che, invece, almeno fino alla metà degli anni ’90[48] insistette imperterrita con pronunce di stampo contrario[49] per poi mutare indirizzo solo a partire dalle sentenze Cass. 21/12/1994 n. 11017 e Cass. 26/10/1995 n. 11151[50]. La Suprema Corte afferma (finalmente) di non potere condividere quell’orientamento che ritiene inapplicabile l’art 1375 c.c. alla materia societaria: “invero, a seguito dell’esplicito riconoscimento legislativo dell’esistenza di contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune (artt. 1420, 1446,1459, 1466 c.c.), l’appartenenza all’area contrattuale dell’atto costitutivo delle società, quando sia stipulato da più soggetti, non è più revocabile in dubbio(…). (…) Il contratto di società e gli altri contratti plurilaterali con comunione di scopo (…) presentano la caratteristica di esigere, per la loro attuazione, una serie indefinita di nuovi atti giuridici e, appunto per questo, (…) danno vita ad una organizzazione che ha il compito di regolare lo svolgimento dell’attività programmata e che, nelle società di capitali, è caratterizzata dall’attribuzione alla maggioranza dei soci di un potere dispositivo il quale si estende fino alla modifica dello stesso contratto originario. (…) Pertanto, (…), anche le determinazioni prese dai soci durante lo svolgimento del rapporto associativo debbono essere considerate, a tutti gli effetti, come veri e propri atti di esecuzione, perché preordinati alla migliore attuazione del contratto sociale: le stesse modifiche dell’atto costitutivo trovano la loro ragion d’essere nell’esigenza di adeguare le caratteristiche dell’impresa alle condizioni, rapidamente mutevoli del mercato, al fine di salvaguardarne la redditività e sono quindi sempre riconducibili allo scopo ultimo (ed essenziale) che i soci si sono prefissi quando hanno dato vita alla società. Cade conseguentemente ogni ostacolo all’applicazione, in materia, dell’art 1375 c.c. . Detta disposizione, del resto, costituisce specificazione di un più generale principio di solidarietà che abbraccia tutti i rapporti giuridici obbligatori, anche di origine non contrattuale, vincolando le parti al dovere di lealtà e rispetto della sfera altrui (art. 1175 c.c.). Ma è ancor più importante sottolineare che l’esistenza di un dovere di lealtà e correttezza a carico dei soci, (…) è desumibile (…) anche dalle norme che più direttamente riguardano il diritto delle società. (…) Con il contratto di società viene costituita, in effetti, una comunione di interessi, la cui esistenza, mentre dà ragione alla subordinazione della volontà del singolo socio a quella della maggioranza, esclude al tempo stesso che il voto possa essere legittimamente esercitato per realizzare finalità particolari, estranee alla causa del contratto di società”. La sentenza riportata è certamente di grande e fondamentale importanza, sia per il ravvedimento della Cassazione sulla impostazione contrattualista che per le implicazioni stesse delle argomentazioni svolte. Da questo riconoscimento ad oggi, sono trascorsi ormai più di 20 anni e se da una parte il dibattito può dirsi sopito[51], dall’altra gli interventi legislativi in materia societaria hanno più volte riaperto alcuni dubbi[52] ma, soprattutto non può negarsi l’influenza che in materia ha determinato il sempre più stretto rapporto tra diritto delle società e mercato finanziario[53]. In tutto il panorama mondiale si è assistito, infatti: i) ad un radicale cambiamento nella composizione dell’azionariato, il piccolo azionista rappresenta ormai un fenomeno marginale, una “quantité négligeable”[54]; ii) alla nascita nella maggior parte dei paesi di istituti e/o società la cui attività e il cui scopo sociale sono individuati nella tutela e nella cura degli investimenti in titoli azionari (i cc.dd. investitori istituzionali, SIM, SICAV, Fondi pensione, Fondi comuni di investimento immobiliare, ecc. In questo nuovo contesto mutano profondamente “le regole del gioco”, perde importanza quel bilanciamento di interessi che tutta la dottrina dal primo dopoguerra si era faticosamente sforzata di assicurare e si concentra tutto intorno al principio della Shareholder Value: con l'espressione shareholder value oriented si fa riferimento a un modello di gestione d'impresa (la Shareholder society), prevalente nel mondo anglosassone, volto soprattutto al rendimento del capitale, alla profittabilità e massimizzazione del valore del pacchetto azionario e contrapposto ad un modello stakeholder value oriented, quello tedesco della Stakeholder society, attento alla cura e al bilanciamento anche degli interessi degli stakeholders diversi dagli azionisti[55]. La teoria della Shareholder value[56] è il risultato di una riflessione sull’impresa in generale e sulla società di capitali ad azionariato diffuso sviluppatasi (nei primi anni ’70) negli Stati Uniti, sotto la spinta dell’analisi economica del diritto. Il voto del singolo perde la sua capacità di influenzare la gestione dell’impresa, fino a diventare del tutto trascurabile quando queste diventano dei veri e propri colossi: “il piccolo azionista, persona fisica, può come massima e discutibile soddisfazione, esercitare il ruolo, vagamente spregevole, del disturbatore di assemblea”[57] . Gli autori che fanno parte di questa scuola di pensiero[58], configurano la società come un “nexus of contracts” rispetto al quale l’azionista è il soggetto che investe il proprio capitale nella società e, attraverso contratti di agenzia, ne delega la gestione a soggetti specializzati: i managers. La teoria del “nexus of contracts” postula un azionista consapevole della irrilevanza della propria voce in un contesto come quello delle public companies americane (che ne determina il suo comportamento di razionale atteggiamento passivo nei confronti dei problemi gestionali della società) e un management, dotato di ampia discrezionalità che agisce (o almeno, dovrebbe) nell’esclusivo interesse dei soci. L’essenza dell’impresa viene quindi individuata in un intreccio di contratti che realizzano una cd. agency relationship, tra principals (azionisti) e i managers. Un simile assetto negoziale porta alla nascita di una forma societaria caratterizzata dalla separazione tra proprietà e controllo e da una “specializzazione” del lavoro: da una parte abbiamo i managers “di controllo”, incaricati esclusivamente dell’attività direzionale, dall’altra vi sono i soci il cui compito è esclusivamente quello di investire il proprio capitale. Se quindi l’azionista è “lo specialista del rischio”, indifferente ai problemi della gestione sociale, è facilmente intuibile come il suo principale (se non esclusivo) interesse sia quello di ottenere la remunerazione del proprio investimento attraverso dividendi e capital gains. In quest’ottica i diritti amministrativi collegati alle azioni, non rivestono importanza per l’azionista: l’esperienza americana conferma ampiamente quanto fin qui esposto, si assiste ad uno svuotamento dell’affectio societatis, lo stesso diritto di voto viene percepito e utilizzato quale mero strumento di controllo sui managers tenuti ad operare esclusivamente per l’arricchimento della società, pena la loro sostituzione[59]. In definitiva, la teoria della Shareholder value, affermando che l’interesse sociale è l’interesse dei soci attuali all’aumento del valore delle proprie azioni, sembra rappresentare la più radicale delle teorie contrattualiste ma, secondo alcuni Autori[60], potrebbe sostenersi che questa costituisce anche la versione più moderna dell’istituzionalismo dell’Unternehmen an sich ovvero che si potrebbe parlare di “neoistituzionalismo di stampo manageriale”. Ci troviamo, cioè, di fronte ad una elaborazione che recepisce argomenti da entrambe le storiche tesi[61].
Tornando entro i confini nazionali, l’ambito italiano è oggettivamente differente da quello statunitense, vuoi per la poca diffusione di una struttura societaria simile alla public company o per il più lento sviluppo del mercato di strumenti finanziari, e circoscrivere la nozione di interesse sociale al solo aumento del valore del pacchetto azionario è decisamente incompleto e riduttivo: permane un interessamento minimo alla gestione della società. Ciò sembra confermato da diverse ed anche recenti pronunce giurisprudenziali, Cass., Sez I, 17/07/2007 n. 15942[62] - “L’interesse sociale è l’insieme di quegli interessi comuni ai soci, in quanto parti del contratto di società, che concernono la produzione del lucro, la massimizzazione del profitto sociale(ovverosia del valore globale delle azioni o delle quote), il controllo della gestione dell’attività sociale, la distribuzione dell’utile, l’alienabilità della propria partecipazione sociale e la determinazione della durata del proprio investimento”. Per comprendere appieno l’impostazione italiana, dobbiamo soffermare la nostra attenzione sul primo passaggio della citata sentenza, che recita “L’interesse sociale è l’insieme di quegli interessi comuni ai soci (…)”, perché, al di là del contenuto in cui si articola, è proprio su questo che questa si fonda: non l’interesse sociale ma gli interessi sociali. A questo punto, è lecito chiedersi se le modifiche legislative intervenute abbiano in qualche modo influito sul tema e la risposta non può che essere positiva: con la novella del 2003, che ha fissato il principio di libertà di creazione di categorie di azioni e di determinazione del loro contenuto, gli interessi tipici inclusi nella nozione di interesse sociale sono certamente aumentati e, di conseguenza, l’interpretazione non può che andare nella direzione di affermare che il socio nell’esercizio del voto deve tener conto della pluralità di interessi tipici che possono comporre l’interesse della società. In altre parole: l’interesse del socio alla massimizzazione del valore attuale delle azioni va contemperato con le esigenze di una efficiente gestione dell’impresa sociale.
6. La Corporate Social Responsibility e i nuovi modelli di Corporate Governance: i codici di autodisciplina.
A questo punto possiamo facilmente rilevare come il dibattito si stato progressivamente trasposto sui terreni della Corporate Social Responsibility (cd. CSR), indicativamente dai primi anni duemila.
Prima di vederne gli sviluppi, occorre ricordare il ruolo svolto dall’autorità statale nel gioco del bilanciamento di mercato. Infatti, fermo restando il “dogma” della libertà d’iniziativa economica, a questo è rimesso il compito di correggere ed evitare pericolose derive a danno di tutti gli eterogenei interessi comunque coinvolti nell’esercizio dell’impresa[63]: attraverso una accorta regolamentazione di quegli stessi mercati, vengono predisposti strumenti e tecniche volte a riequilibrare le asimmetrie generate dalla spasmodica e “a qualunque costo” ricerca del lucro. Pensiamo alla legislazione e agli istituti inerenti alla concorrenza, al fallimento, al credito, alla finanza, alle borse, ecc.
Tuttavia, nei decenni appena precedenti agli anni 2000, sotto i colpi incessanti della globalizzazione e del nuovo sistema economico-sociale, questo equilibrio legislazione-mercato sembrava essersi rotto, dissolvendo quella stessa capacità di freno propria dell’ordinamento. Quello che voglio cioè dire è che si è assistito ad una significativa erosione del concreto potere di controllo da parte dello Stato sulle imprese-società che, di converso, assumevano dimensioni e importanza di livello multinazionale (ad esempio i grandi gruppi societari, le società off-shore, ecc.), svolgendo una attività transfrontaliera e dando così luce ad inedite forme di abuso e frode che non trovavano, né avrebbero potuto trovare, alcuna forma di repressione nella disciplina statale. Nasceva quindi l’esigenza a tutti i livelli, nazionale e non, di individuare strumenti nuovi e più efficaci idonei a scongiurare le conseguenze di un mercato senza regole[64], sfuggente ai criteri vigenti di equilibro e bilanciamento.
Data la portata “globale” del fenomeno, iniziò a farsi strada (pur nello scetticismo di molti) l’idea della predisposizione di misure di soft law per fronteggiare il problema[65]. Invero, al tema della Corporate Social Responsibility[66], strumento di legittimazione di un approccio long term in cui l’incardinamento della gestione dell’impresa a valori etici assume valenza positiva anche per il perseguimento degli interessi degli azionisti[67], sono dedicati alcuni documenti della Commissione Europea dei primi anni duemila[68]che prospettano un modello organizzativo, imperniato sulla la riduzione del rischio d’impresa per mezzo dell’adozione di comportamenti socialmente responsabili e sul coinvolgimento anche degli stakeholders (diversi dagli azionisti) nella determinazione degli interessi e della responsabilità sociale, da adottare attraverso l’approvazione e la pubblicazione da parte della società di un cd. codice di autodisciplina[69]: un documento programmatico nel quale vengono fissati i valori fondanti dell’attività stessa, dichiarati gli impegni nei confronti di ogni categoria di stakeholders e dove vengono esplicate le conseguenti norme di comportamento e condotta. Ma, ai fini della legittima valutazione della efficacia di un tale tipo di soluzione, sorge spontaneo chiedersi se e quale grado di vincolatività presentino queste self-regulations e la risposta è: nessuna.
E se parte della dottrina vi individuava un’occasione di diffusione nell’interesse della società all’accrescimento (ovviamente in senso positivo) della propria Reputation[70] sul mercato, dall’altra si osservava come la mancanza di rilevanza giuridica (nel doppio senso dell’obbligatorietà della loro adozione e della reale vincolatività a seguito di violazione) dei codici potesse addirittura diventare strumento di discriminazione[71]. Ed è alla luce di queste considerazioni che possono apprezzarsi quei tentativi interpretativi di attribuzione di sostanza giuridica alla normativa di autodisciplina, ad esempio un Autore[72] riteneva che “l’assunzione della tutela dei diritti fondamentali come regola di condotta internalizzata può assumere giuridica rilevanza in termini di fondamento di una responsabilità da affidamento(…) La specificazione di regole di correttezza (nei rapporti di lavoro, di fornitura, consulenza, ecc..) opera come limite autoimposto all’interesse sociale e giuridicamente vincolante in termini di responsabilità o precontrattuale o contrattuale o da affidamento”.
Credo, a questo punto, che occorra mettere nero su bianco qualche numero e qualche esempio per avere piena cognizione di quella che è la complessiva situazione a quasi 20 anni dalla introduzione di questo strumento: dal punto di vista internazionale, è significativo come la maggior parte (se non la totalità) delle multinazionali e delle imprese si siano dotate di detti codici e che tutti condividano, quale impostazione di fondo, una buona Governance a tutela della proprietà non direttamente coinvolta nella gestione della società[73]. E’ quasi superfluo sottolineare che tale dato è il risultato non solo della volontà delle società ma anche della convergenza e cooperazione di differenti fattori: dal ruolo chiave svolto in questa direzione dalle raccomandazioni e dall’attività di vari organismi internazionali (quali la World Trade Organization, l’OCSE, il Fondo Monetario Internazionale, la World Bank, la stessa Unione Europea), dalla necessità di evitare nuovi clamorosi casi di pessima e disastrosa gestione (abbiamo ricordato il caso Enron, ma da un punto di vista più ampio e generale può anche riportarsi l’esempio della bolla speculativa del 2008 che ha travolto l’intera economia mondiale), dalle riforme legislative che (già nella seconda metà degli anni ’90) interessarono diversi Stati[74]. Il modello affermatosi si focalizza sulla composizione e sulla struttura del consiglio di amministrazione[75], richiedendo una prevalenza di amministratori indipendenti e prevedendo al suo interno tre comitati (formati anch’essi in maggioranza da soggetti indipendenti) ai quali spetti il compito di individuare i nuovi componenti del consiglio di amministrazione (comitato nomine), fissare la remunerazione per gli amministratori esecutivi (comitato remunerazione) e controllare la correttezza e l’attendibilità dell’informativa economico-finanziaria (comitato audit).
Non possiamo chiudere senza prima citare l’esempio italiano del Codice di Autodisciplina[76] elaborato dal Comitato per la Corporate Governance[77], ri-costituito nel 2011 (ma operante già in precedenza[78]) ad opera delle Associazioni di impresa (ABI, ANIA, Assonime, Confindustria) e di investitori professionali (Assogestioni), nonché di Borsa Italiana S.p.A.. Facciamo riferimento a un Codice-modello cui possono aderire, su base volontaria, tutte le società emittenti. È composto da 10 articoli, ciascuno è suddiviso in principi, criteri applicativi e commento: i criteri applicativi indicano i comportamenti raccomandati, in quanto tipicamente necessari per realizzare gli obiettivi indicati nei principi, i commenti hanno invece la duplice finalità di chiarire, anche attraverso alcuni esempi, la portata dei principi e dei criteri applicativi cui si riferiscono e descrivere ulteriori condotte virtuose quali possibili modalità per perseguire gli obiettivi indicati nei principi e criteri applicativi. Nella parte dedicata ai “Principi guida e regime transitorio” possiamo individuare il funzionamento del codice: ogni società italiana con azioni quotate che vi aderisce deve fornire, in una cd. “relazione sul governo societario e gli assetti proprietari”, informazioni accurate, di agevole comprensione ed esaustive, sui comportamenti attraverso i quali le singole raccomandazioni contenute nei principi e nei criteri applicativi sono state concretamente applicate nel periodo di riferimento (annuale) e, in linea con la Raccomandazione UE n. 208/2014, indicare chiaramente le specifiche raccomandazioni da cui si sono discostate. Per ogni eventuale scostamento saranno tenute a: (a) spiegare in che modo hanno disatteso la raccomandazione; (b) descrivere i motivi dello scostamento, evitando espressioni generiche o formalistiche; (c) descrivere come la decisione di discostarsi dalla raccomandazione è stata presa all'interno della società; (d) se lo scostamento è limitato nel tempo, indicare a partire da quando prevedono di attenersi alla relativa raccomandazione; (e) descrivere l’eventuale comportamento adottato in alternativa e spiegare il modo in cui questo raggiunge l'obiettivo sotteso ovvero chiarire in che modo il comportamento prescelto contribuisce al buon governo societario. È subito evidente come l’impostazione (di matrice europea) sia improntata ad una logica di flessibilità esplicata dal meccanismo del cd. comply or explain rule[79] e alla cui ottemperanza [80] è volta l’attribuzione alla Consob del potere di stabilire le forme di pubblicità dei codici e uno specifico obbligo, in capo agli organi di controllo, di vigilare sulle modalità di concreta attuazione delle regole di governo societario cui la società, mediante informativa al pubblico, dichiara di attenersi. Infine, l'art. 192-bis t.u.f. commina una sanzione amministrativa pecuniaria nei confronti di amministratori, componenti degli organi di controllo e direttori generali, per i casi di mancata osservanza degli obblighi pubblicitari.
Uno dei compiti del Comitato è quello di monitorare, ai fini dell’adeguamento del codice, l’evoluzione normativa nazionale ed internazionale in materia di Corporate Social Responsibility e Corporate Governance. Possiamo tracciarne molto sinteticamente gli sviluppi:
- Nel periodo 2011-2013, il lavoro del comitato si è focalizzato tutto sull’adattamento del codice ai nuovi standard di governance elaborati a livello comunitario. Sono tre le principali linee d’intervento: il rafforzamento della trasparenza delle società quotate e degli investitori istituzionali, la promozione dell’attivismo degli azionisti[81], il sostegno alla crescita e alla competitività delle imprese;
- Nel 2014 si è proceduto al rafforzamento, sempre su iniziativa europea, del criterio di reggimento dell’intero sistema di self regulation, quello della comply or explain;
- A fine del 2015 vengono introdotti, a livello europeo, un pacchetto di misure volte a migliorare il governo societario delle società, rafforzandone competitività e sostenibilità nel lungo termine e, a livello internazionale, i nuovi principi di Corporate Governance indicati dall’OCSE[82];
- Nell’arco del 2016, si segnalano alcune importanti modifiche ai principali Codici di autodisciplina che trovano applicazione in Europa (Francia, Germania, Olanda, Regno Unito),
- Nel 2017 viene concluso l’iter per la revisione della direttiva sui diritti degli azionisti (direttiva 36/2007/CE, modificata dalla direttiva 828/2017/UE)[83], volta a incentivare l’impegno a lungo termine degli azionisti e a rafforzare la trasparenza delle informazioni che incidono sull’esercizio dei loro diritti di voto, sia con riferimento agli studi e alle raccomandazioni di voto pubblicate dai proxy advisor, sia relativamente alle informazioni sull’azionariato e sulla governance comunicate dalle società quotate e si rileva l’impegno ad estendere tutta la disciplina in materia di buona Governance anche alle PMI.
Alla luce di tutto quanto sopra, sembra che il principio intorno cui ruota l’intero corpo del codice di autodisciplina sia quello della crescita dell'impresa-società in un'ottica di long term[84], in linea con esperienze legislative limitrofe[85]. E non è affatto un caso che medesime regole abbiano ispirato normative quali come quelle dei settori bancario e assicurativo.
Analizzando i numeri emerge peraltro una sostanziale omogeneità di adesione, difatti a differenza del 1999 (quando la prima versione del Codice di Autodisciplina fu promulgata), il rapporto è cambiato sensibilmente. Nell’ultima relazione effettuata dal Comitato per la Corporate Governance (2017)[86], si legge testualmente che “il 90% delle società italiane con azioni quotate sul mercato regolamentato dichiara di aderire all’ultima edizione del Codice di autodisciplina. Il restante 10% delle società quotate, che non aderiscono all’ultima edizione del Codice e che non sono state considerate ai fini della presente analisi, è rappresentato da otto società che aderiscono a edizioni precedenti, una società che non specifica l’edizione del Codice alla quale aderisce e tredici società che hanno scelto di non aderire al Codice”[87].
Dovendo quindi chiudere il nostro discorso, credo che oggi siamo in grado di constatare una retrocessione della Shareholder Value in favore di una cd. Share Value, intendendosi con tale termine la creazione una struttura societaria volta alla stabilità dell’impresa, alla responsabilità di gestione e alla tutela di tutti gli interessi in essa coinvolti. Un esempio in questo senso è dato dalle cd. società benefit[88], la cui peculiarità sta nel fatto che la loro stessa costituzione è preordinata all’esercizio di una attività economica che, oltre allo scopo di dividerne gli utili, persegue una o più finalità di beneficio comune operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti ed associazioni portatori di interessi, così come nella diffusa pratica, ad opera delle società, di adottare dei cd. Codici Etici (da affiancare al Codice di Autodisciplina) contenenti i principi etici sulla base dei quali viene condotta l’intera organizzazione e per la cui osservanza all’interno del gruppo, società, azienda è predisposto un comitato ad hoc (cd. Comitato Etico)[89]. Giusto per riportarne un esempio, il codice etico pubblicato da Eni s.p.a. riporta: “(…) Eni si impegna a mantenere e rafforzare un sistema di governance allineato con gli standard della best practice internazionale in grado di gestire la complessità delle situazioni in cui Eni si trova a operare e le sfide da affrontare per lo sviluppo sostenibile. Sono adottate forme sistematiche di coinvolgimento degli Stakeholder, estendendo il dialogo sui temi della sostenibilità e della responsabilità d'impresa. Nello sviluppo sia delle proprie attività di impresa internazionale sia di quelle in partecipazione con i partner, eni si ispira alla tutela e alla promozione dei diritti umani, inalienabili e imprescindibili prerogative degli esseri umani e fondamento per la costruzione di società fondate sui principi di uguaglianza, solidarietà, ripudio della guerra e per la tutela dei diritti civili e politici, dei diritti sociali, economici e culturali e dei diritti cosiddetti di terza generazione (diritto all’autodeterminazione, alla pace, allo sviluppo e alla salvaguardia dell’ambiente) (…)”.
E allora, per concludere, consentitemi di porre un’osservazione personale. Non sentite anche voi riecheggiare quella famosa frase “la società non esiste per distribuire dividendi a lorsignori, ma per far andare i battelli sul Reno”? E non pare, allora, che per anni e anni, abbiamo male inteso il significato più profondo di questa formula perchè “probabilmente l’autore della frase, come ogni buon amministratore, non intendeva negare agli azionisti gli utili della società in misura equa, ma semplicemente frenare le eccessive avidità…per l’oro del Reno di quegli azionisti che, non accontentandosi di un dividendo equo, ostacolavano più o meno consapevolmente il rafforzamento della società, facendo così, in definitiva, dell’autolesionismo, secondo il vecchio apologo della formica e della cicala”?[90]
7. Conclusioni
Dalla pubblicazione, nel 1964, de “L’interesse sociale” di Pier Giusto Jaeger, dove il raffinato giurista narrava di quella “guerra mondiale”, fatta di sentenze e monografie, di analisi e teorie, per la conquista del significato universale di tale termine, sono cambiate molte cose e la questione sembra essere definitivamente superata. Un dubbio però persiste: quella guerra chi l’ha vinta? Ho concluso, riportando la celebre frase di Walter Rathenau, con la quale sosteneva con fermezza che le società fossero fatte per “far andare i battelli sul Reno”. Ed è da qui che, a mio avviso, occorre ripartire per comprendere il più profondo significato di quelle parole, incomprese all’inizio e alle quali la storia ha poi dato ragione, con il suo solito fare. Mettendo da parte romanticismi vari, credo che oggi, per i motivi di ordine teorico e di diritto positivo analizzati, possiamo concludere che una concezione dell’interesse sociale come mero interesse dei soci attuali alla divisione degli utili sia da rigettare. Per riprendere una definizione data da Paolo Montalenti, l’interesse sociale è, più appropriatamente, l’interesse contrattuale dei soci alla valorizzazione della partecipazione, sotto il profilo reddituale e patrimoniale, in una prospettiva di lungo termine circoscritta da limiti di vario genere:
- limiti interni di ordine tipologico, alludendosi con questo termine all’idea che, in assenza di una specifica dichiarazione di attività speculativa short term (ad es. hedge funds), essendo l’impresa un coacervo di interessi e strategie, l’interesse sociale deve configurarsi come valorizzazione all’investimento in prospettiva di lungo termine;
- limiti di ordine negoziale, consistenti nel self-restraint adottato nelle scelte programmatiche, si pensi ad. es. alla tipologia di attività descritte in atto costitutivo, alle dichiarazioni progettuali, ai codici di autodisciplina e/o etici;
- limiti esterni, cioè i limiti legislativi o contrattuali, derivanti dalla legislazione di tutela del lavoro, dell’ambiente, della trasparenza commerciale, ecc.
Da questa classificazione emerge, chiaramente, la legittimazione al perseguimento di interessi ulteriori meritevoli di tutela, e gli interventi legislativi (interni, comunitari e internazionali) sembrano confermare questa impostazione.
A questo punto è doveroso rispondere ad una ulteriore domanda: la contrapposizione tra contrattualismo ed istituzionalismo è davvero ormai superata? Direi di no. Quella che è superata è la loro antinomia. Emblematiche in tal senso sono le discipline dell’art. 2373 c.c. e quella “giurisprudenziale” degli abusi deliberativi della maggioranza, della disciplina dei gruppi di società e la teoria dei vantaggi compensativi, dell’art. 2479 ter co.2 delle s.r.l. e che mostrano la sussistenza, e la tutela legislativa, di quella interconnessione che deve sussistere tra interessi diversi. Un’osmosi, per la quale gli interessi degli stakeholders reagiscono direttamente sulla configurazione dell’interesse degli azionisti. In tutte le fattispecie citate, per esempio, il controllo preventivo degli amministratori e quello (eventuale) successivo del giudice, non è diretto alla verifica di una astratta conformità della delibera (o decisione) alla causa lucrativa, ma si pone piuttosto in termini di valutazione della razionalità economica dell’operazione in rapporto alle strategie gestionali dell’impresa, il cui fine ultimo è pur sempre lo scopo di lucro ma mediato dai tutti quei limiti che abbiamo elencato.
E allora ritorna, più forte che mai, il rimprovero di Asquini che, nel 1959, richiamava all’ordine e alla razionalità l’intera dottrina, interrogandola sul terribile misunderstanding in cui era incorsa nella valutazione di quella celebre frase. Perché, alla fine, si trattava solo di decidere se essere dei buoni amministratori o meno.
“Le due cose più importanti non compaiono nel bilancio di un'impresa: la sua reputazione ed i suoi uomini.”
Henry Ford.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Possiamo definire Stakeholder chiunque abbia interesse nell’attività della società, generalmente sono coloro che sostengono l’impresa, possono essere soggetti interni (es. impiegati) o esterni (es. clienti, fornitori). Gli Shareholders costituiscono, invece, un gruppo di soggetti ben definiti, sono coloro che hanno investito in denaro acquistando delle azioni e che hanno interesse ai dividendi.
[2] “Il problema della ricostruzione della nozione di interesse sociale è questione coeva con la nascita del diritto azionario moderno”, P. Montalenti, “Interesse sociale e amministratori”, in L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders, Giuffrè, 2010.
[3] P. Jaeger, “L’interesse sociale”, Giuffrè, 1964, pag 13 e ss.
[4] S. Romano, “L’ordinamento giuridico”, II ed., Firenze, 1946. Per l’Autore il termine “istituzione” coincide con quello di ordinamento giuridico che, a sua volta, è “una sfera a sé, più o meno completa, di diritto obbiettivo”.
[5] C. Galloro, “Unternehmen an sich: la “impresa in sé” tra potere gestionale e diritto di partecipazione”, in Norme internazionali e comunitarie sulle società commerciali, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012.
[6] Quale quella del primo dopoguerra. La Germania infatti versava in condizioni politiche, sociali ed economiche molto drammatiche e senza precedenti.
[7] P. Jaeger, ult. op. cit.
[8] Politico di grande spessore e imprenditore tedesco, Robert Boothby scrisse di lui: «Fu qualcosa che solamente un ebreo tedesco poteva essere simultaneamente: un profeta, un filosofo, un mistico, uno scrittore, uno statista, un magnate dell'industria del più alto ordine e grado, e il pioniere di quella che è diventata nota come razionalizzazione industriale».
[9] L’Autore considerava la società una forma di organizzazione della grande impresa. Non distingueva, dal punto di vista giuridico, tra Società per Azioni (Aktiengesellschaft) e Impresa (Unternehemen) essendo quest’ultima considerata un generico “organismo produttivo”.
[10] La nuova Economia, La nuova Società, Il nuovo Stato.
[11] Suo il seguente passaggio, emblematico della generale impostazione su cosa debba muovere l’economia e tutto quanto ruoti attorno ad essa: “L’economia viene praticata non per l’economia, ma per lo spirito. Gli ultimi valori che essa produce sono quelli più invisibili, e quelli più invisibili sono i più potenti. Non dall’economia si riforma l’economia, ma dallo spirito. Non le sono d’aiuto né provvedimenti, né leggi, ma princìpi. Il cammino conduce dai princìpi all’azione, dall’azione alla spiritualizzazione. Solo allora una nuova forma di economia è efficace e accettabile, giustificata ed utile, quando la nuova disposizione dello spirito le corrisponde. I provvedimenti sono facili da prendere. Si trovano pure le forze per realizzarli; tuttavia, però, solo quando la volontà dei princìpi riempie l’atmosfera e stimola la volontà. Le forze che ci dominavano erano egoismo ed anarchia; le forze di cui noi abbiamo bisogno sono responsabilità e senso di comunità”.
[12] Rathenau considerava superate e inadeguate al nuovo contesto ordinamentale e sociale le tutele ad essi apprestate a garanzia della soddisfazione del loro personale interesse lucrativo.
[13] In Italia ripresa da Asquini, Mengoni, Pettiti, Graziani, Rossi, Mingoli, Ascarelli, per citare autorevole dottrina.
[14] Per un quadro completo dei caratteri e delle critiche alla Unternehment an sich, vedi P. JAEGER, ult. op. cit., pag 21-31.
[15] Anzi, qualcuno riteneva che così facendo si andasse addirittura contro l’interesse pubblico perché l’impostazione (che quindi veniva aggettivata come contraddittoria) favoriva la formazione di “dinastie economiche” e sottraeva l’attività degli operatori economici al controllo di coloro che potevano maggiormente risentire di abusi. Vedi P. Jager, ult.op.cit.
[16] Nei tribunali si continuava a tutelare la minoranza dalla maggioranza e salvaguardare il diritto alla redistribuzione degli utili.
[17] Secondo alcuni le due teorie non sono distinguibili, ma è una impostazione non condivisibile in quanto le applicazioni concrete conducono a risultati differenti. Il loro stesso ambito di applicazione è, in realtà, non coincidente: la prima teoria nasce con riferimento alle grandi imprese, la seconda è valida per le società per azioni in generale, di qualsiasi dimensione, essendo a tutte riconosciuta personalità giuridica.
[18] Per fare un esempio, alla personalità giuridica reale si è fatto ricorso in alcune pronunce giurisprudenziali per tutelare le minoranze dagli abusi del gruppo di controllo. La differenza è ancor più macroscopica quando la società appartiene ad un gruppo: assumere una delibera obiettivamente sconveniente della società ma utile per il gruppo significa comunque deliberare secondo un interesse “extrasociale” al singolo organismo e, allora, secondo la teoria dell’Impresa in sé una tale delibera non può essere attaccata dalla minoranza in quanto volta alla concretizzazione di un interesse superiore mentre per la Person in sich è possibile proprio sull’assunto che la minoranza viene danneggiata per il perseguimento di interessi extrasociali.
[19] Non è un caso che viene ricordato come il maggiore critico dell’Unternehmen an sich.
[20] Parte della dottrina cercò di darne una interpretazione restrittiva, ma la lettera della norma è chiara e non dà adito a un tale tipo di applicazione. Se ne deve dedurre che anche quando una decisione del CDA abbia comportato perdite per la società, rimane inattaccabile se è dimostrato il perseguimento di un interesse pubblico.
[21] Per altro verso, a questa norma se ne accompagnavano altre volte a riconoscere una ampia discrezionalità al Vorstand (sui dividendi, sulle immobilizzazioni) ai fini del perseguimento dell’interesse pubblico.
[22] Sebbene non siano mancate elaborazioni in Svizzera, nella letteratura anglo-americana (dove però le formulazioni non si tradussero mai in norma, la big corporation e la company rimasero sempre “dominate” dal mercato), in Francia e Spagna. Per un’analisi comparatistica vedi P. Jaeger ult.op.cit..
[23]La frammentazione di pensiero non risparmiò neanche l’Italia, pertanto possiamo dire che quello esposto è l’orientamento generale. Invero, all’interno di questa corrente di pensiero vi era per esempio qualche voce che non riconosceva la S.p.A. come titolare di un interesse proprio (ponendosi, in realtà, fuori dal filone istituzionalista come generalmente lo abbiamo inteso).
[24] Sulla scorta della dottrina e giurisprudenza francesi, anche se questa era formulata piuttosto in termini di “abuso del diritto”. Vedi P. Jaeger, ult. op. cit., A. Gambino “Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni”, Giuffrè, 1987.
[25] “Mi sembra difficile ammettere che al di là della definizione della società dell’art. 2247 c.c. si possa accogliere un concetto di contratto di società in senso lato, che, pur avendo per scopo il fine della produzione di utili mediante l’esercizio di una attività imprenditrice, destini statutariamente gli utili a scopi estranei all’interesse economico dei soci (beneficienza, cultura, ecc.)” A. Asquini, “I battelli del Reno”, Riv. Soc., 1959.
[26]Lorenzo Mossa, nel periodo successivo all’entrata in vigore del codice, definiva la società come “organizzazione formale dell’impresa”, un organismo istituzionale ove assumono rilevanza svariati interessi e l’imprenditore è tenuto (come tutti gli altri soggetti che partecipano all’impresa) ad agire per il bene della comunità. Con lui altri Autori hanno espresso posizioni di stampo istituzionalista. Vedi. P. Jaeger, ult. op. cit. pag. 81, nota 193.
[27] Specificazione resa doverosa dalla necessità di individuare un criterio di distinzione fra tutti gli interessi facenti capo ad una persona.
[28] Non sarebbe, cioè, possibile distinguere l’interesse dei soci esistenti in un dato momento dall’interesse di coloro che, eventualmente e in un momento successivo, potrebbero far parte della società.
[29] “Nel fenomeno societario rilevano soltanto gli interessi dei soci attuali; gli interessi cioè di coloro che, in quel dato momento, in cui la deliberazione viene adottata e l’atto viene posto in essere, si trovano a far parte del gruppo. Non rilevano, invece, gli interessi dei soci eventuali e dei soci futuri; non rileva l’interesse dell’impresa; dato che questa non è una istituzione; non rilevano, infine, gli interessi dei creditori sociali”.
[30]A questo punto sorge spontaneo chiedersi se queste concezioni possano correttamente inquadrarsi come contrattualiste o se, forse, sarebbe meglio qualificarle istituzionaliste. Ed in realtà uno dei maggiori sostenitori della prima tesi esposta, Asquini, mette in luce questa “convergenza” (con la teoria della Impresa in sé) cercando anche di superare la contrapposizione tra i due orientamenti antagonisti. V. pag 620, ult. op. cit.
[31] Nata soprattutto dalla preoccupazione di dare una definizione di interesse sociale che, a differenza della precedente impostazione, non entri in contraddizione con il suo animo contrattualista.
[32]Può, al massimo, avere conseguenze in tema di politica di gestione, cioè se vadano effettuati investimenti a lungo termine o se debba sempre distribuirsi l’utile conseguito nel periodo di gestione.
[33]Una impostazione, di derivazione anglosassone, pur non rinunciando alla contrapposizione tra interessi extrasociali ed interesse sociale, fa coincidere quest’ultimo con l’interesse di un “ipotetico socio medio”. Cioè, l’interesse sociale non è più dato e immutabile ma è un termine variabile a seconda del mutare dei bisogni dei soci. In Italia è Mengoni a ridimensionare la contrapposizione quale concetto base del contrattualismo.
[34] La questione si pone per diverse problematiche, ma assunse particolare rilievo con riferimento all’esercizio del diritto di voto.
[35] In Francia si parla di droit-fonction, mentre alcuni autori italiani parlano di diritto soggettivo collettivo.
[36] Vedi T. Ascarelli in “Interesse sociale e interesse comune nel voto”, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 1951, pag. 1145 e “Sui poteri della maggioranza nella società per azioni ed alcuni loro limiti”, in Riv. Dir. Comm., 1950, pag 69 e ss..
[37] L. Mengoni, “Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di interessi nelle deliberazioni di assemblea della società per azioni”, Giuffrè, 1956.
[38] Ma anche sull’art. 2391 c.c. e in modo differente nell’art. 2441 c.c.
[39] Parliamo quindi di una eccezione al principio maggioritario secondo il quale la volontà della maggioranza vincola tutti i soci.
[40]Cd. Principio di collaborazione, elaborato sul modello previsto per la società civile del BGB. Secondo P. Jaeger si tratterebbe, invece, di un onere sui generis.
[41]D. Corapi, “Gli statuti delle società per azioni”, Giuffrè, 1971.
[42]Parte della dottrina (Gasperoni, Minervini, P. La Rosa, Buonocore, Brunetti, Mengoni) rifiuta l’esistenza di un dovere di collaborazione sulla considerazione che il mancato conferimento viene sanzionato dalla disciplina, mentre nessuna sanzione è prevista per quel socio che si astenga di prender parte alla vita della società.
Di diverso avviso è P. Jaeger, egli nota che sebbene non sia previsto un obbligo di partecipazione, d’altro canto sono presenti cause di scioglimento della società quali l’impossibilità di funzionamento e la continuata inattività dell’assemblea” e sottolinea come, in ogni caso, la società non potrebbe funzionare né esistere senza la partecipazione dei soci.
[43] Una ulteriore tesi, invece, se ne discosta perché considera il voto esercitato a danno degli altri soci, per conseguire propri vantaggi, nullo per motivo illecito. Dal combinato disposto degli artt. 1345 e 1324 c.c. si potrebbe dichiarare la nullità del voto e, di conseguenza, la deliberazione in quanto non più sorretta dalla maggioranza necessaria. Altri hanno focalizzato l’attenzione sulla illiceità dell’oggetto ovvero della causa della delibera, ma quest’ultima impostazione non ha avuto seguito anche in ragione della smentita operata dalla Cassazione nella sentenza del 04/03/1963 n. 511 in Foro it., 1963, I, pag. 684.
[44] Fatti salvi i limiti percentuali oggi previsti dall’art. 2377 c.c..
[45] “La società di capitali ha vicende proprie, non riconducibili a un’attività esecutiva del contratto, da cui pure trae origine, ed è retta da principi diversi del contratto”. A. Gambino, ult. op. cit.
[46] A. Gambino, ult. op. cit.
[47] Un principio cioè meno “invasivo” della buona fede e/o collaborazione nell’esecuzione del contratto. Da questo, infatti, non deriva alcun obbligo di cooperazione al conseguimento del risultato contrattuale né consente al giudice una piena valutazione del merito della delibera perché operante come limite esterno di corretta considerazione dell’interesse altrui nel rapporto obbligatorio
[48]Per una rassegna delle decisioni giurisprudenziali (italiane e non) in materia di comportamenti abusivi della maggioranza a danno della minoranza, vedi A. Gambino, ult. op. cit.
[49]P. Jaeger parla di un “istituzionalismo arretrato e duro a morire”.
[50] In commento di Gambino, Angelici, Jaeger, Costi, Corsi “Cassazione e contrattualismo societario: un incontro?”, in G. Comm., 1996, pag, 329 e ss.
[51] Per una rassegna delle considerazioni odierne sull’interesse sociale e sul dibattito tra istituzionalismo e contrattualismo, vedi i contributi di Angelici, Denozza, Weigmann, Gambino, Libonati, Montalenti, Buonaura, Sconamiglio, Sacchi, Fois, Spolidoro, Costi in “L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholders (in ricordo di Pier Giusto Jeager)”, Giuffrè, 2010.
[52] M. Libertini sottolinea come la riforma del diritto societario del 2003 abbia fatto riemergere dubbi sulla validità della tesi contrattualista. L’ipotesi di una riconsiderazione generale della questione in termini istituzionalisti nasceva dalla previsione, introdotta con la riforma del diritto societario del 2003 nell’art. 2328 c.c., della possibilità di costituire una S.p.A. con atto unilaterale e che metteva in crisi tutto l’impianto contrattualista elaborato dalla dottrina commercialista fino a quel momento. Ma l’argomento non è, tuttavia, riuscito a smentire il fondamento contrattualista di alcuni degli istituti principali della disciplina societaria. Del resto, è questo il periodo in cui inizia a farsi strada l’idea che si debba superare la storica contrapposizione a favore di un modello di società che acquisisca elementi dell’una e dell’altra. V. P. Jaeger ne “L’interesse sociale rivisitato (quarant’anni dopo)”, pone un quadro che mostra l’evoluzione dell’interesse sociale e del modello societario, M. Cirenei parla di superamento dell’antitesi istituzionalismo/contrattualismo..
[53] Invero, l’autorevole penna di Pier Giusto Jaeger sottolinea come in merito alla nozione di interesse sociale, all’alba degli anni 2000 debba distinguersi nettamente tra società chiuse e società quotate.
[54] “Anche il ricco signore, che investe il proprio capitale in borsa, concentrandolo sulle azioni di una società che gode della sua più completa fiducia, può essere considerato alla stregua di un animale raro e in via di estinzione” P. Jaeger, ut. Op. cit.
[55]Possiamo definire Stakeholder chiunque abbia interesse nell’attività della società, generalmente sono coloro che sostengono l’impresa, possono essere soggetti interni (es. impiegati) o esterni (es. clienti, fornitori). Gli Shareholders costituiscono, invece, un gruppo di soggetti ben definiti, sono coloro che hanno investito in denaro acquistando delle azioni e che hanno interesse ai dividendi.
[56] Nella sua accezione più radicale, identifica l’interesse sociale con l’interesse dei soci all’aumento delle proprie azioni e che viene soddisfatto solo con la perdita della qualità di socio (cessione delle azioni, per ottenerne la plusvalenza).
[57] P. Jaeger, ult. op. cit.
[58] “La rivoluzione economica che si è verificata in America nel corso del XX sec. È segnata in gran parte da una massiccia collettivizzazione della proprietà produttiva, accompagnata da un declino del controllo delle decisioni individuali e da una massiccia dissociazione della ricchezza dalla direzione dell’impresa”. A. Berle e G. Means, “The Modern Corporation and Private Property”, Transaction Publishers, 1932.
[59] Attenzione, perché la questione è molto ampia e presenta profili che meriterebbero una trattazione separata. Alla indifferenza per la gestione si accompagna anche la assoluta assenza dei soci, questo comporta che gli amministratori attraverso vari strumenti (quali la raccolta delle deleghe di voto, sindacati di voto, ecc.) finiscano per esercitare un grande potere, quasi assoluto. Cioè, gli amministratori e la maggioranza di appoggio dispongono così di tutte le risorse finanziarie per mantenere la loro posizione di potere, pur potendo contraddire la ragione dell’investimento dell’azionariato diffuso. Negli Stati Uniti si è tentato di riequilibrare tali rapporti attraverso l’applicazione dell’istituto della responsabilità civile e con il quale si è cercato di affermare una responsabilità degli amministratori per i danni causati a società, soci, pubblico e terzi. Il principale limite della shareholder value è, infatti, oggi riconosciuto in quella impossibilità di concepire leggi e contratti tali da arginare ogni forma di abuso dal quale consegue questo ampio margine discrezionale ai gestori delle imprese e nel cui ambito possono lecitamente danneggiare interessi anche rilevanti degli altri stakeholder, al di là di quella che avrebbe potuto essere la volontà del legislatore.
[60] P. Jaeger, ult. op. cit., P. Montalenti, “Il conflitto di interessi nella riforma del diritto societario” in RDC, 2003, pag. 243 e ss.. Si nota, in particolare, contrariamente a quanto implicherebbe una tesi puramente contrattualista, la posizione contrattuale del socio-azionista risulta essere degradata.
[61] Volendo proseguire nella provocazione di P. Jaeger che avvicina la Shareholder Value ad una aggiornata teoria della Impresa in sé, riportiamo le conclusioni di A. Berle e G. Means nella loro opera supra citata: “Da una parte i proprietari passivi, cedendo il controllo e la responsabilità inerenti alla proprietà attiva, hanno rinunciato anche al diritto che la società sia amministrata nel loro esclusivo interesse e hanno sciolto lo Stato dall’obbligo di proteggerli nella misura prevista dalla concezione tradizionale della proprietà(…). Dall’eliminazione dell’interesse esclusivo dei proprietari passivi, comunque, non consegue necessariamente che i nuovi poteri debbano essere usati invece nell’interesse dei gruppi di controllo. Piuttosto, l’esistenza di gruppi in posizione di controllo ha aperto la via alle rivendicazioni di un gruppo assai più grande, sia di quello dei proprietari, sia di quello di controllo. Si è cioè aperta la strada all’idea che la moderna società per azioni sia al servizio, non solo dei proprietari o del gruppo che la controlla, ma di tutta la comunità”.
[62] In Riv. Not., 2009, pag 641 e ss.
[63] Potrebbe forse qui riprendersi la differenziazione tra interessi di serie e interessi di gruppo che P. JAEGER riportava nel suo approfondimento sull’interesse sociale, dove gli interessi di serie sono necessariamente riconosciuti e tutelati dall’ordinamento statale.
[64] Si pensi al caso Enron, del 2001. Chiamato la "madre di tutti gli scandali", parliamo di una colossale truffa contabile che fece crollare un gruppo con ventimila dipendenti, che vantava ben 101 miliardi di dollari di fatturato, settima società americana secondo i dati e con una presenza in 40 paesi. Quello storico crack inaugurò una stagione di inchieste a tappeto sulla contabilità e i bilanci artatamente gonfiati di decine di grandi marchi della Corporate America (da WorldCom nelle telecomunicazioni a Adelphia nella televisione via cavo) e diede la spinta decisiva per la nuova legge antitruffa americana.
[65] Ma non mancarono anche tentativi legislativi in senso stretto, come il d.lgs, 231/2001 sulla responsabilità degli enti.
[66] Intesa come “integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con altre parti”, Commissione CEE, Libro Verde.
[67] Così P. Montalenti, ult.op.cit, pag. 97.
[68] Libro Verde volto a promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale della impresa (2001) e la Comunicazione della Commissione relativa alla RSI: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile (2002).
[69] L'utilità di promuovere l'adozione di un codice di comportamento, preparato da organismi privati composti da operatori del settore si rinviene nella più rapida e flessibile capacità di adattamento di un siffatto corpus disciplinare alle esigenze pratiche che si manifestano sui mercati. Anticipando l’intervento del legislatore, consentono inoltre l’elaborazione di una normativa completa ed efficiente. Così C. Pistocchi, “Appunti sul codice di autodisciplina delle società quotate”, in Giur. Comm., 2016, pag. 171 e ss.,
[70] Secondo delle analisi di mercato condotte negli Stati Uniti, l’adozione di un codice etico-di comportamento rappresenterebbe un “marchio di qualità” che aumentando l’apprezzamento e fiducia nella società comporta una maggiorazione degli investimenti. Lo studio di Karen Koll su “Industry week”, del 2001, mostra come gli investimenti etici nel periodo tra il 1997-1992 hanno reso dall’82% in su del mercato complessivo. Hanno attirato circa 1 dollaro su ogni 8 investiti. V. “La possibilità impazzita: esodo della modernità” a cura di B. Montanari, Giappichelli, 2005, pag. 368 e ss.
[71] Andando ad analizzare i numeri, la mancata adozione di codici di autodisciplina potrebbe, nel breve periodo, rendere l’investimento più remunerativo e quindi apparentemente più competitivo.
[72] P. Montalenti, ult. op. cit., pag 97.
[73] Ma, al di là del riferimento diretto alla protezione di svariati interessi delle singole categorie degli stakeholders, può rinvenirsi un riferimento anche ad interessi quelli più “generali” come quelli di genere.
[74] Es. l’Inghilterra, patria della Shareholder Value, con il Companies Act del 1980 ne configurava una versione attenuata ed oggi chiamata Enlighted Shareholder Value; gli Stati Uniti con la non shareholder constituency statutes e l’Australia dove si afferma, sebbene in maniera lieve, la Stakeholder Theory elaborata da Freeman e sviluppata da Donaldson e Preston in termini di simultanea attenzione agli interessi di soggetti diversi dagli azionisti.
[75] A proposito di CDA, una delle raccomandazioni più innovative è quella riguardante l'adozione di uno staggered board (anche detto classified board o consiglio di amministrazione a scadenze scaglionate), un sistema che prevede la scadenza differenziata degli amministratori. È una tecnica diffusa negli Stati Uniti e il suo maggiore effetto positivo sta nel consentire ai nuovi componenti di acquisire quelle conoscenze necessarie attraverso il dialogo e confronto con gli amministratori rimasti in carica.
[76] Il quadro normativo di riferimento in materia di codici di comportamento è racchiuso negli artt. 123-bis, 124-ter, 149 e 192-bis del T.u.f. e negli artt. 65, 89-bis e 89-ter del Regolamento (regolamento Consob n. 11971/1999 e successive modifiche). È quasi significativo notare come le norme contenute nel t.u.f., furono per la prima volte introdotte con la legge n. 262 del 28 dicembre 2005 sulla tutela del risparmio.
[77] Il Comitato ha quale scopo istituzionale la promozione del buon governo societario delle società italiane quotate, a tal fine approva il Codice di Autodisciplina delle Società Quotate e ne assicura il costante allineamento alle best practice internazionali. Inoltre, garantisce un monitoraggio con cadenza annuale dello stato di attuazione del Codice da parte delle società aderenti, indicando le modalità più efficaci per favorire una applicazione sostanziale delle sue raccomandazioni. L’ultima versione del Codice risale a Luglio 2018 ed è reperibile sul sito dedicato www.borsaitaliana.it.
[78] Nell’ordinamento societario italiano il primo Codice di autoregolamentazione è quello redatto dalla Borsa Italiana S.p.a., meglio noto come Codice Preda, dal nome del Presidente di quest’ultima società, privatizzata nel 1996. Fu redatto nel 1999 dal Comitato per la corporate governance (costituito da esperti provenienti dal mondo della finanza, dell’industria e dell’accademia) della Borsa medesima.
[79] Previsto dall’art. 123-bis, comma 2, lett. a) T.u.f.. Si realizza, pertanto una forma di vincolatività che opera sulla trasparenza nei confronti del mercato in ordine al modello prescelto di governo societario. Qualcosa in più di una mera “moral suasion”, dato che si induce l’emittente ad evitare una reazione negativa del mercato.
Si segnala, a proposito, che è in atto una evoluzione in materia che ha portato a ri-battezzare il meccanismo col nome di “comply and explain”, data la Raccomandazione comunitaria che sottolinea come sia buona prassi per le emittenti quella di includere fra le informazioni pubblicate nella relazione sul governo societario non solo le ragioni che hanno portato a disattendere una o più delle raccomandazioni del Codice di Autodisciplina ma anche riferimenti sul modo in cui applicano i principi o le raccomandazioni del codice . Quanto precede è coerente con quell’assunto che gli assetti di corporate governance effettivamente disegnati e attuati da un emittente costituiscano elementi suscettibili di influenzare i corsi azionari di quel titolo, in quanto indice della buona gestione imprenditoriale e che, pertanto, una maggiore trasparenza in ordine alle scelte di corporate governance, oltre ad essere doverosa, stimoli una migliore competizione sul mercato poiché consente agli investitori di giudicare gli emittenti in cui investono o potrebbero investire .
[80] Artt. 124-ter e l'art. 149, comma 1, lett. c-bis del t.u.f.,
[81] Come la cd. Shareholders’ Rights Directive, indicata anche con gli acronimi SHRD ovvero SRD, è stata di recente modificata con la Direttiva 2017/828 (cd. SRD II) del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2017, pubblicata in Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea del 20 maggio 2017. La riforma si propone di incoraggiare l’impegno a lungo termine degli azionisti e l’adeguamento degli ordinamenti statali è fissato al 10 giugno 2019.
[82] Si legge nella relazione annuale del Comitato “La presentazione è avvenuta in occasione della riunione del G20 dei Ministri delle Finanze, svoltasi i giorni 4 e 5 settembre ad Ankara durante il Corporate Governance Forum, organizzato dall’OCSE. I Principi di corporate governance dell’OCSE, adottati nel 1999 e precedentemente modificati soltanto nel 2004, sono rivolti a un ampio pubblico di policy makers e operatori di mercato al fine di contribuire all’efficienza economica, alla crescita sostenibile e alla stabilità finanziaria nonché per migliorare le politiche di corporate governance e sostenere l’evoluzione delle best practice di governo societario. La nuova edizione dei Principi si divide in sei capitoli: I) Assicurare le basi per un efficace governo societario; II) I diritti e l’equo trattamento degli azionisti e le principali funzioni della proprietà azionaria; III) Gli investitori istituzionali, mercati azionari e altri intermediari; IV) Il ruolo degli stakeholders; V) Disclosure e trasparenza; VI) Le responsabilità del board. Ciascun capitolo si divide in principles (evidenziati in grassetto) e sub-principles, aventi la funzione di spiegare la portata dei principi, anche attraverso la descrizione di alcuni trend legislativi/autoregolamentari dominanti o emergenti nonché di esempi di strumenti alternativi per l’applicazione dei principi. Tra le principali modifiche in materia di governance si rileva un più ampio riferimento all’autodisciplina e al principio del comply or explain, l’importanza della qualità della disclosure finanziaria e non finanziaria, il ruolo del board e del comitato nomine nel procedimento di nomina del consiglio, la necessità di adeguati sistemi e procedure di controllo interno nonché l’importanza della board evaluation”.
[83] Iniziato con la pubblicazione nell’aprile 2014 della proposta della Commissione Europea.
[84] Tanto da essere menzionato fra i princìpi dell'art. 1.
[85] “Every company should be headed by an effective board which is collectively responsible for the long-term success of the company”, The UK Corporate Governance Code, 2012, Section A.
[86] Reperibile sul sito dedicato www.borsaitaliana.it.
[87]Tuttavia, secondo alcuni Autori, la sempre più diffusa attuazione delle raccomandazioni contenute nel Codice di Autodisciplina non deve trarre in inganno. Si rileva, in particolare, come questo abbia perso gran parte della propria “forza propulsiva” venendo a costituire una sorta contenuto minimo accettabile.
[88] Introdotte nel nostro ordinamento con la l.n. 28/12/208, cd. legge di stabilità 2016, art 1, commi 376-384.
[89] Di recente un interessante studio della Fondazione Unipolis si è occupato del tema, “Governance e responsabilità sociale. Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia”, consultabile sul sito ufficiale www.fondazioneunipolis.org.
[90] A. Asquini, “I battelli del Reno”, in Riv. Soc., 1954, pag 616 e ss.
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“Interesse sociale e interesse di gruppo”, Giuliana Sconamiglio, in “L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholder (in ricordo di Pier Giusto Jaeger)”, Quaderni di Giurisprudenza Commerciale n. 342, Giuffrè, 2010,
“L’interesse sociale e il voto in assemblea”, Agostino Gambino in “L’interesse sociale tra valorizzazione del capitale e protezione degli stakeholder (in ricordo di Pier Giusto Jaeger)”, Quaderni di Giurisprudenza Commerciale n. 342, Giuffrè, 2010,
“Appunti sul codice di autodisciplina delle società quotate”, C. Pistocchi, in Giur. Comm., 2016, pag. 171 e ss.,
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