Emergenza, terrorismo e limiti alla compressione dei diritti umani: l´insegnamento della giurisprudenza Cedu
Modifica paginaLa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha consentito di specificare meglio i criteri di attuazione della deroga ad alcuni diritti prevista dall'articolo 15 della CEDU, con particolare attenzione al tema del “margine d’apprezzamento”. Importanti sono state, poi, quelle pronunce indicanti le condotte che violino i diritti umani.
Abstract: the purpose of the following paper is to analyse the jurisprudence of the ECHR and the mechanisms provided by the European Convention on Human Rights to guarantee balance between the necessary fight against terrorism and serious national emergencies alike, and the protection of fundamental rights that may be affected by the States’ emergency measures. In doing so, the article will expose the approach designed by the Council of Europe to guarantee a cooperative protection of fundamental rights across national, European, and international levels. In detail, the jurisprudence of the ECHR will also be examined in order to expose the principles and the requirements for the member States to derogate from some of the provisions of the European Convention on Human Rights, as provided for in article 15 thereof.
Sommario: 1. Contrasto al terrorismo, norme della CEDU e giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – 2. I principi elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di lotta al terrorismo e tutela dei diritti fondamentali – 3. Emergenza e tutela dei diritti fondamentali nel sistema CEDU e nelle tradizioni costituzionali dei singoli Stati – 4. Conclusioni – 5. Note riassuntive sul ciclo di paper dedicato alla tutela dei diritti fondamentali nella lotta al terrorismo.
1. Contrasto al terrorismo, norme della CEDU e giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Per quanto concerne i Paesi aderenti alla Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), l’istaurazione di uno stato emergenziale al fine di fronteggiare (anche) la minaccia terroristica non incontra soltanto la problematica del rispetto di limiti alle compressioni dei diritti posti da norme legislative e giurisprudenza interna, ma deve tener conto anche dei vincoli che derivano da suddetta fonte regionale.
Nel dettaglio, gli Stati in parola sono vincolati dall’art. 15 CEDU che consente loro, solo a particolari condizioni, di adottare misure derogatorie di alcuni obblighi previsti dal suddetto testo normativo, quando e se ciò sia necessario per affrontare una guerra o un altro pericolo pubblico minacciante la vita della nazione.[1]Una norma analoga è prevista dall’art. 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, il quale dovrebbe essere vincolante per la generalità degli Stati membri dell’ONU.
In particolare, l’art. 15 CEDU prevede che in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ciascuno Stato possa prendere misure che derogano agli obblighi della Convenzione, limitatamente alla misura in cui lo richieda la situazione e a condizione che tali misure non siano in contrasto con altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. Non è comunque consentita alcuna deroga all’articolo 2 (diritto alla vita) tranne che nel caso di decesso conseguente a legittimi atti di guerra, né agli artt. 3 (proibizione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti), 4 para. 1 (proibizione della schiavitù) e 7 (principi di legalità e irretroattività in materia penale).
Per poter esercitare il diritto di deroga, lo Stato deve tenere pienamente informato il Segretario generale del Consiglio d’Europa riguardo alle misure prese e i motivi della loro scelta, nonché della data in cui queste misure hanno cessato di essere in vigore così da consentire alle disposizioni della Convenzione di riacquistare piena applicazione. La dottrina internazionalista[2]ritiene che la previsione di questa norma miri a evitare sia un ricorso indiscriminato al principio per cui lo stato di necessità opera come limite generale agli obblighi internazionali, sia il rischio che gli Stati membri si ritirino dalla Convenzione al sopravvenire di una delle condizioni che legittimano il ricorso all’articolo in parola.
Tuttavia[3], l’art. 15 non dovrebbe essere concepito come autorizzazione per gli Stati a prevedere deroghe a norme costituzionali al di fuori dei casi in cui queste lo consentano, neppure in quegli ordinamenti nazionali in cui la CEDU è stata incorporata a livello di fonti costituzionali (Austria, Paesi Bassi, Svizzera) o ad un livello super-legislativo (ad es. Francia, Belgio, Spagna, Portogallo), e neanche in quei sistemi costituzionali che vietino comunque deroghe alle norme costituzionali o in quegli ordinamenti in cui manchino norme costituzionali o legislative in materia. Peraltro, proprio sulle norme di quelle Costituzioni che prevedono espressamente casi di instaurazione di stati d’emergenza o stato di guerra incidono alcune importanti dichiarazioni e riserve apposte da alcuni stati all’art. 15 della Convenzione.
Si consideri[4] ad esempio la riserva apposta dalla Francia il 3 maggio 1974, al momento del deposito della sua ratifica, al fine di non intralciare l’applicabilità degli strumenti d’emergenza costituzionalmente previsti che abbiamo avuto modo di analizzare a suo tempo [5]. Dal gennaio al giugno 1985 venne infatti comunicata l’istaurazione dell’état d’urgence nel territorio d’oltremare della Nuova Caledonia, mentre a seguito degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 le autorità francesi hanno informato il Consiglio d’Europa dell’intenzione di ricorrere nuovamente all’art. 15 CEDU.[6]
Ancora, si può tener conto le riserve di Andorra e della Turchia, secondo le quali le circostanze e le condizioni di deroga previste dall’art. 15 dovrebbero essere interpretate alla luce delle norme delle loro costituzioni, le quali sembrano però prevedere deroghe ai diritti fondamentali più ampie rispetto a quelle previste dall’articolo in parola. In particolare, la Turchia ha presentato a cadenza periodica e ravvicinata nel tempo la richiesta di deroghe con riferimento allo stato d’emergenza e alle misure adottate contro i movimenti separatisti curdi, portando a un notevole contenzioso con la Corte di Strasburgo.
E ancora, la Grecia tentò di legittimare lo stato d’eccezione indetto dal regime dei Colonnelli nel 1967: la richiesta fu rigettata così da costringere il Paese a sospendere la sua adesione al Consiglio d’Europa fino all’entrata in vigore della costituzione democratica del 1974.[7]
Altro esempio è la dichiarazione apposta dalla Spagna il 4 ottobre 1979, al momento della ratifica: essa afferma che le norme dell’art. 15 CEDU hanno l’effetto di permettere l’adozione delle misure derogatorie sospensive (individuali e generalizzate) previste degli artt. 55 e 116 della Costituzione spagnola. La dottrina internazionalistica[8]ha espresso dubbi sulla legittimità di tali riserve e dichiarazioni, considerando che la Convenzione fa divieto di apporre riserve di carattere generale[9]. Nel caso della Turchia, fu la stessa Commissione europea per i diritti dell’uomo ad opporsi.[10]Ciononostante, esse sono indizio della tendenza degli Stati democratici a considerare, in casi di emergenza, il diritto internazionale recessivo rispetto a quanto consentito dalle loro Costituzioni.
Meritevole d’attenzione è anche il caso del Regno Unito,[11] il quale in molte occasioni ha presentato comunicazioni relative a deroghe ex art. CEDU con riferimento alla legislazione antiterrorismo in Irlanda del Nord. È inoltre necessario ricordare che proprio rifacendosi all’art. 15 CEDU, l’art. 1 c. 2 dello Human Rights Act del 1998 prevede che i diritti previsti dalla Convenzione siano soggetti a designated derogation, e cioè che deroghe alle norme della Convenzione possano essere poste da una ordinanza del Segretario di Stato che ne decreti la necessità e l’urgenza. Peraltro, il 19 febbraio 2001 il Regno Unito ritirò le comunicazioni di deroga seguite all’entrata in vigore di alcune norme del Prevention of Terrorism Act del 1989, poi sostituite dalle norme del nuovo Terrorism Act del 2000.
Dopo gli attentati dell’undici settembre, il Regno Unito si avvalse dell’art. 15 con riferimento all’estensione dei termini di arresto e detenzione degli stranieri sospettati di atti di terrorismo, in applicazione dell’Anti-Terrorism, Crime and Security Act 2001.[12]Il 16 marzo 2005 la dichiarazione di deroga venne ritirata perché due giorni prima quelle disposizioni legislative avevano cessato la loro applicazione che fin dall’origine era stata configurata dalla legge come temporanea.
2. I principi elaborati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di lotta al terrorismo e tutela dei diritti fondamentali
Per comprendere il rapporto tra emergenza, terrorismo e norme della CEDU è indubbiamente necessario analizzare la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo relativamente a ricorsi individuali di soggetti che lamentavano lesioni ai loro diritti fondamentali in applicazione delle norme nazionali derogatorie emergenziali.
È stato detto[13]che tale produzione giurisprudenziale sembra aver sopperito all’occasionalità e ai limiti intrinseci dei controlli di costituzionalità a livello nazionale su aspetti così delicati. La Corte ha pertanto elaborato una serie di principi relativi proprio alla sospensione dei diritti dovuta alla necessità di contrastare il terrorismo. Essi sono: 1) inevitabilità delle sospensioni qualora rimedi ordinari si siano rivelati inefficaci; 2) assicurazione del diritto di difesa e di idonei controlli giurisdizionali sulle misure adottate e soprattutto per quelle limitative della libertà personale; 3) informativa agli organi della Convenzione; 4) possibile controllo della Corte europea.
Uno studio di questa giurisprudenza è in grado di individuare alcuni aspetti fondamentali del cosiddetto “nucleo duro” dei principi fondamentali e delle libertà costituzionalmente garantite che devono essere in ogni caso rispettati, anche durante gli stati d’eccezione.
In primo luogo, la dottrina internazionalista già richiamata[14]dà un’interpretazione restrittiva del concetto di “guerra” come evento legittimante l’attivazione dell’articolo 15 CEDU: posto che gli artt. 8-11 consentono già alcune limitazioni a taluni diritti in caso di pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza, si deve ritenere che l’art. 15 si riferisca a situazioni di una gravità eccezionale tale da autorizzare non delle semplici limitazioni, ma delle vere e proprie deroghe. Infatti, già la prima volta che la Corte di Strasburgo dovette occuparsi di una deroga ex art. 15, relativamente alla legislazione irlandese, la Commissione affermò che i presupposti indicati nell’articolo in parola designano “una situazione di crisi e di pericolo eccezionale e imminente che sovrasta l’insieme della popolazione e costituisce una minaccia per la vita organizzata della comunità che compone lo Stato”.[15]
Da ciò può ricavarsi[16]la conclusione che i provvedimenti adottati non dovrebbero avere finalità di mera prevenzione dell’aggravamento di una situazione in atto, ma soltanto quella di rimediare a un pericolo attuale o comunque imminente e concreto nonché dotato di una intensità tale da poter costituire una minaccia per tutta la popolazione.
Nel caso di una minaccia che appaia limitata a una determinata zona del territorio, la giurisprudenza CEDU ha ritenuto[17]che le deroghe ai sensi dell’art. 15 si possano applicare solo a quel territorio circoscritto. Occorre inoltre che si tratti di situazioni limitate nel tempo. Per questo le reiterate dichiarazioni di deroga che la Turchia consegnò fino al 1985 finirebbero per privare di significato l’adesione di un Paese alla CEDU: in tal caso altri paesi possono chiedere agli organi di Strasburgo di sindacare la legittimità della prassi. Non a caso, proprio nel 1985 cinque Paesi europei presentarono alla Commissione ricorso contro la Turchia, il quale venne poi risolto con un regolamento amichevole tra le parti.[18]
Un ragionamento analogo potrebbe essere fatto con le ripetute dichiarazioni di deroga presentate dal Regno Unito a partire dal 2001 per via della nuova legislazione antiterrorismo. Alcuna dottrina internazionalista[19]ha ipotizzato che essendosi tali fatti verificati negli Stati Uniti, la Corte EDU potrebbe considerarsi nella stessa posizione valutativa delle autorità britanniche. Altri hanno osservato[20]che comunque la dichiarazione britannica del 2001 di deroga sarebbe viziata da sviamento di potere perché avrebbe consentito al Regno Unito di aggirare il divieto di trattamenti inumani e degradanti dell’art. 3 CEDU.
Ancora, vi è chi ha replicato[21]che la teoria del “margine di apprezzamento” consente a ogni Stato di essere l’unico soggetto capace di valutare non tanto la portata del pericolo, quanto piuttosto l’impatto concreto nell’ordinamento giuridico interno in considerazione del modo di essere di quest’ultimo e del grado di “assorbimento” del pericolo garantito dagli strumenti ordinari.
“Il margine di apprezzamento”[22] è appunto quello spazio di discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella valutazione sulla sussistenza di un pericolo pubblico che minacci la vita della nazione e nella valutazione su quali siano le misure necessarie per affrontare in concreto la situazione. Ciò perché le autorità degli Stati sono costantemente e maggiormente in contatto con i bisogni del momento, tenuto anche conto della indeterminatezza di concetti come “emergenza” o “necessità”.
La procedura di comunicazione e l’obbligo di tenere informate le autorità del Consiglio d’Europa riguardo a metodi e motivi delle deroghe ex art. 15 CEDU sono gli unici oneri posti a carico degli Stati, poiché è giurisprudenza della Corte di Strasburgo[23]che non sia possibile attivare implicitamente tale norma, né garantire effetti retroattivi della dichiarazione rispetto a eventi verificatisi prima della data di presentazione della dichiarazione.[24]
Per il resto, un eventuale controllo da parte della Corte può essere soltanto successivo all’adozione delle misure da parte degli Stati, perché nel caso in cui l’esercizio della deroga sia contestato, la Corte dovrà verificare la conformità dell’operato del Paese ai suoi obblighi internazionali: in tal caso, l’onere della prova della sussistenza di tutte le condizioni indicate dall’art. 15 spetta al singolo Stato. Così, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di un pericolo pubblico e di una minaccia reale per la sicurezza dello Stato in rapporto alle autorità terroristiche svolte dall’IRA in Irlanda e dal PKK in Turchia[25]
Al contrario, nel già menzionato caso dello stato d’emergenza attivato dal regime dei Colonelli in Grecia, la Commissione dichiarò che non era stata raggiunta la prova del pericolo di un possibile colpo Stato e al contrario affermò che lo stato d’emergenza in questione era soltanto la conseguenza del comportamento antidemocratico del Governo greco, cosa che rendeva ingiustificabile l’eventuale mancato rispetto degli obblighi internazionali.[26]
È stato prima menzionato il concetto di “nucleo duro dei diritti”: a esso consegue un principio di rispetto degli altri obblighi dello stesso Stato derivanti dal diritto internazionale.[27]La dottrina afferma che attraverso tale norma di rinvio, l’art. 15 CEDU da una parte configura il sistema della Convenzione come uno standard minimo e dall’altro consente implicitamente di sindacare sul rispetto di eventuali ulteriori e più penetranti e inderogabili obblighi internazionali.
Va sottolineato che a essere inderogabili non sono soltanto le norme indicate nell’art. 15 CEDU (diritto alla vita, divieto di tortura e di schiavitù, principio di tassatività e irretroattività della legge penale) ma anche l’abolizione della pena di morte[28], il diritto a non essere punito o giudicato due volte[29], il diritto alla personalità giuridica[30], la libertà di pensiero, di coscienza e di religione[31], il divieto di privare un individuo della libertà a causa di un adempimento contrattuale[32], nonché il principio di non discriminazione[33] Vi sono poi altri diritti fondamentali che diventano inderogabili per via delle Convenzioni internazionali in vigore in quello stesso Stato.
È inoltre importante tener conto dei principi di proporzionalità e di necessità, elaborati dalla giurisprudenza CEDU.
Infatti,[34] il governo che si avvalga dell’art. 15 deve fornire prove di proporzionalità tra le misure adottate e la gravità della situazione, nonché dimostrare la necessità di ricorrere alle misure adottate per tutelare il ben definito interesse generale: la vita della nazione.[35] Il relativo scrutinio della Corte può essere piuttosto penetrante in concreto, perché si è spesso domandata se le misure derogatorie oggetto del suo esame potessero essere considerate una risposta necessaria ed efficace per affrontare l’emergenza e perché le leggi ordinarie fossero invece inadeguate in tali circostanze.
In particolare, la Corte ha concluso che, tenuto conto del fatto che le indagini anti-terrorismo mettono le autorità di fronte a problemi speciali[36], deve essere concesso ad esse un certo margine di apprezzamento riguardo l’adeguatezza e l’esperibilità di misure alternative rispetto a quelle derogatorie[37]
In secondo luogo, poiché la deroga deve avere una durata limitata alla durata dello stato d’emergenza, La Corte afferma che nell’art. 15 vada implicitamente rinvenuto l’obbligo per lo Stato di tenere sotto controllo costante tutte le misure eccezionali adottate per verificare la necessità di una loro riconsiderazione al fronte di una mutazione della situazione concreta.[38]
La determinazione da parte della giurisprudenza CEDU di un nesso di proporzionalità ha dato rilevanza decisiva alla previsione, a livello nazionale, di “adeguate garanzie giuridiche contro possibili abusi nell’applicazione delle misure derogatorie”.[39]
Lo stesso Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, riferendosi alla deroga comunicata dal Regno Unito nel 2001 per la coeva legislazione antiterrorismo, ha affermato che il controllo parlamentare e le garanzie di giurisdizione rappresentano garanzie essenziali contro la possibilità di totale arbitrio da parte dell’Esecutivo e la conseguente implementazione sproporzionata delle misure.[40] Controllo parlamentare e garanzie giurisdizionali costituirebbero pertanto un ulteriore “nucleo duro” che non può mai mancare nell’elaborazione e applicazione delle misure derogatorie.[41]
Possiamo affermare[42] che sotto il profilo di questi due summenzionati requisiti di tutela, tutti i sistemi costituzionali europei che consentono norme derogatorie o l’instaurazione di stati d’eccezione sono sostanzialmente adeguati, con la particolarità di tre ordinamenti nazionali (britannico, francese e irlandese) in cui è riscontrabile la mancanza di almeno uno dei due requisiti in parola.
Per via del principio di Parliamentary sovereignty, i giudici britannici non hanno potere di effettuare un controllo di legittimità costituzionale sulle leggi. L’art. 4 dello Human Rights Act del 1998[43] prevede che le Corti verifichino che la legislazione nazionale non contrasti con le norme della CEDU, pur potendo essi soltanto pronunciare una declaration of incompatibility che non incide sulla validità né sulla applicabilità della norma esaminata: è il Governo a doversi poi attivare proponendo al Parlamento i necessari emendamenti alla disciplina legislativa, sicché l’ultima parola sulla decisione spetta comunque al Parlamento.
Anche la sentenza del 16 dicembre 2004 pronunciata dai Law Lords della House of Lords, la quale ha affermato l’illegittimità dell’Anti-Terrorism Act del 2001 nella parte in cui consentiva la detenzione a tempo illimitato di stranieri, ha portato a delle conseguenze soltanto per via della particolare duplice funzione legislativa e giudiziaria che ancora allora svolgeva la House of Lords, la quale nel 2005 costrinse la Camera dei Comuni e il Governo a modificare più volte il disegno di legge di riforma della legislazione antiterrorismo per rimediare alle criticità che la House of Lords stessa aveva segnalato con la sentenza del 2004 di cui sopra. Come conseguenza, nel 2005 venne emanato il Prevention of Terrorism Act, secondo il quale il ministro dell’Interno sotto il controllo giurisdizionale può emanare non derogating orders e derogating control orders.
Per quanto riguarda la Francia[44], il ruolo del controllo parlamentare è “mortificato” nel caso di uso di poteri eccezionali ex art. 16 Cost.[45] Per giunta, durante lo stato d’assedio il Parlamento si limita ad autorizzare una proroga. Anche il controllo giurisdizionale appare indebolito sia perché il ruolo del Giudice costituzionale sui poteri eccezionali presidenziali è meramente consultivo, sia perché il giudice ordinario deve astenersi dal sindacare l’opportunità della deroga adottata.
Nel caso dell’Irlanda[46], il ruolo parlamentare è esaltato nell’approvazione della legge che indica i diritti derogati e le modalità di deroga. Ma qualsiasi controllo di legittimità costituzionale è escluso dalla clausola di insindacabilità della speciale legge parlamentare derogatoria.
3. Emergenza e tutela dei diritti fondamentali nel sistema CEDU e nelle tradizioni costituzionali dei singoli Stati
Conviene ora osservare esempi di giurisprudenza della Corte EDU relativi a diritti fondamentali identificati come inderogabili non solo dal sistema CEDU, ma da dalle tradizioni costituzionali comuni ai paesi democratico-sociali aderenti alla Convenzione.
Per quanto riguarda il diritto alla vita, l’articolo 2 CEDU consente l’uso della forza delle armi da fuoco soltanto quando sia finalizzato a tutelare tale diritto, al punto che l’esigenza di proteggere la vita degli innocenti può portare al sacrificio di altri interessi significativi, come la cattura di persone sospettate di terrorismo che non abbiano però manifestato comportamenti violenti o pericolosi per la vita di terzi.[47]
In secondo luogo, il diritto alla vita comporta l’obbligo da parte dei pubblici poteri di adottare misure preventive e repressive nei confronti di atti terroristici che rispettino comunque la vita delle persone sospettate o condannate per terrorismo.[48] Poiché il diritto alla vita è previsto come inderogabile dall’art. 2 CEDU (nonché dall’art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici), la giurisprudenza CEDU ha sottolineato che il godimento di esso deve essere sempre garantito dagli Stati all’interno del loro territorio, da una parte astenendosi dal compiere atti che mettano in pericolo la vita dell’individuo, dall’altra attuando un sistema che offra adeguata protezione anche nel caso in cui i pericoli provengano non dallo Stato ma da terzi. [49]
Ciò si configura in due profili distinti: da un lato come limite alle misure adottabili in situazioni di emergenza e nella repressione del terrorismo, dall’altro come fondamento personalista delle stesse misure preventive e repressive poste a tutela delle persone coinvolte da situazioni emergenziali o lese o nella minaccia terrorista.
Per quanto riguarda l’uso legittimo della forza letale da parte dei pubblici poteri nei confronti di persone sospettate di terrorismo, occorre segnalare che dal diritto internazionale sarebbe ricavabile[50]la conclusione che anche nel caso di un individuo sospettato di atti terroristici, lo Stato non deve mai usare la forza in modo arbitrario e sproporzionato, poiché al momento dell’arresto il soggetto ha il diritto a che sia usato solo quel livello di forza strettamente e assolutamente necessario ad effettuare l’arresto e proporzionato alla pericolosità del sospettato. Nel caso della CEDU, l’art. 2 consente l’uso della forza da parte dei pubblici poteri, anche con effetti letali, qualora sia assolutamente necessario per garantire la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale o per eseguire un arresto legale o per impedire un’invasione di una persona legalmente detenuta o per reprimere legalmente una sommossa o un’insurrezione.[51]
La giurisprudenza della Corte europea sull’argomento della repressione letale di atti di terrorismo si è sviluppata grazie a casi avvenuti nel territorio del Regno Unito, della Turchia e della Federazione Russa. Così, a partire dal 1995 la Corte EDU ha affermato alcuni criteri interpretativi fondamentali riguardo l’uso legittimo della forza letale.[52]
Prima di tutto, l’art. 2 co. 2 CEDU non definisce le situazioni in cui può essere inflitta intenzionalmente la morte, ma descrive casi in cui è possibile il ricorso alla forza che può condurre a causare la morte in modo involontario.
In secondo luogo, è sempre necessario interpretare in maniera restrittiva i casi in cui l’uso legittimo della forza possa considerarsi lecito, in considerazione del bene primario della vita.
Il ricorso alla forza deve risultare in concreto assolutamente necessario. È dunque necessario usare un criterio di necessità più stretto di quello normalmente impiegato per determinare se l’intervento dello Stato sia necessario nelle ipotesi in cui è consentito alle leggi degli stati di prevedere limiti ai diritti tutelati dagli artt. 8, 9, 10, 11 CEDU; inoltre, le autorità nazionali non possono godere di alcun margine di apprezzamento, poiché il divieto di tortura e il diritto alla vita sono valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa.
Ancora, la forza utilizzata deve essere strettamente proporzionata al perseguimento delle finalità indicate nel par. 2 dell’art. 2 CEDU, ma la valutazione sulla legittimità e proporzionalità dell’uso della forza deve tener conto delle circostanze nelle quali si trovavano gli agenti al momento della decisione sull’uso della forza, anche se tali valutazioni si rivelassero poi errate. In caso contrario, gli agenti sarebbero gravati da un carico irrealistico che rischierebbe di essere di detrimento per la vita loro e degli altri. Tuttavia, la Corte esige un equilibrio tra fine perseguito e mezzi utilizzati.[53]
Nel dettaglio, la proporzionalità deve essere valutata in funzione della natura e dello scopo perseguito, del pericolo per le vite umane e per l’integrità fisica inerente alla situazione, nonché dell’entità del rischio che la forza impiegata faccia vittime[54], così che ad esempio una folla che lanci oggetti contro una pattuglia di soldati con pericolo per gli stessi di subire gravi ferite può considerarsi sommossa contro la quale può essere lecito aprire il fuoco per ristabilire l’ordine, purché vengano usati esclusivamente proiettili di caucciù[55]e non armi da fuoco di notevole potenza come una mitragliatrice - come appunto avvenne in Turchia[56] - o bombe aeree che richiedano di evacuare la popolazione civile dai territori bersagliati, come è avvenuto in Cecenia per proteggere la vita degli abitanti di un villaggio contro la violenza illegale di un gruppo terroristico che aveva preso degli ostaggi.[57]
Nei tre casi avvenuti nella regione russa, infatti,[58] la Corte è stata unanime nel riconoscere una violazione dell’art. 2 della CEDU, tanto in ragione dell’obbligo che gravava sullo Stato di proteggere il diritto alla vita dei ricorrenti e dei loro familiari, quanto in ragione del mancato svolgimento da parte delle autorità statali di un’indagine adeguata ed effettiva rispettivamente sulle circostanze della morte dei familiari e sulle operazioni di bombardamento. Infatti, ogni Stato deve comunque vietare un uso arbitrario della forza e deve prevedere un controllo effettivo e indagini idonee alla legittimità dell’uso della forza da parte dei propri organi.
Le indagini in questione non devono essere lacunose[59], devono avvenire in modo accurato ed effettivo su tutte le circostanze del fatto e devono essere effettuate dalle autorità non appena siano venute a conoscenza del fatto e a prescindere dall’avvenuta presentazione di una richiesta.[60] La Corte EDU così conferma che la Convenzione europea resta applicabile anche in situazioni di conflitto armato interno qual è quello in atto in Cecenia, perché altrimenti si vanificherebbe l’art. 15, par. 1, che autorizza le misure di deroga in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, consentite peraltro nel rispetto degli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale, ivi comprese le norme del diritto umanitario con riguardo alle “persone protette”.
Va inoltre menzionato che nessuna deroga era stata notificata dalla Russia al Segretario generale del Consiglio d’Europa ai sensi dell’art. 15, par. 3 e perciò la situazione cecena doveva essere considerata, come precisa la stessa Corte, all’interno di un “contesto giuridico normale”.[61]
Ancora,[62] la Corte ha esplicitato che la legittimità della forza prescinde dalla responsabilità penale o meno dei soggetti direttamente o indirettamente coinvolti.
Inoltre, per determinare se la morte sia giustificabile è necessario valutare non soltanto gli atti compiuti dagli agenti statali, ma anche l’insieme delle circostanze del caso di specie, tra cui la preparazione e il controllo degli atti in questione, ad es. seguire tutte le precauzioni necessarie per minimizzare i rischi dell’uso della forza omicida per la popolazione del luogo e per i terroristi stessi.
Inoltre, la Corte precisa che in caso di ferite e di morte di persone detenute l’onere della prova si sposta a carico dello Stato e, in mancanza di spiegazioni plausibili fornite dallo Stato circa la scomparsa o la morte di persone in sua custodia, vi è una forte presunzione di causalità.[63]
Infine, la Corte osserva che ogni Stato non può nemmeno limitarsi a versare un indennizzo, dovendo piuttosto garantire l’identificazione e la punizione dei colpevoli anche attraverso una indagine effettiva.[64]
Con il Protocollo n. 6 alla CEDU del 1983,[65] gli Stati hanno convenuto di abolire la pena di morte in tempo di pace. Si pone comunque il problema se gli Stati membri siano liberi di non estradare o non espellere dal proprio territorio una persona condannata o accusata di reati di tipo terroristico verso un paese in cui rischia di essere sottoposta alla pena capitale. A tal riguardo va ricordato che i trattati contro il terrorismo non prevedono alcuna esplicita possibilità di rifiutare l’estradizione nel caso di applicazione della pena di morte. Tuttavia, è proprio sulla base delle citate norme dei protocolli addizionali che la Corte europea conclude a favore dell’impossibilità per gli Stati membri di metter una persona in condizione di essere privata della vita in un altro Paese per un delitto che nel proprio ordinamento non è punito con la pena di morte.[66]
Tuttavia tale divieto non è da intendersi in senso assoluto, perché lo Stato ha comunque la facoltà di procedere all’estradizione verso un Paese in cui è prevista la pena di morte, a condizione che lo Stato verso cui il soggetto dovrebbe essere estradato dia idonee garanzie che la pena non sarà inflitta o non sarà applicata: a tal fine occorre analizzare la struttura costituzionale dello Stato terzo per valutare se le assicurazioni fornite siano tali da scongiurare che la pena capitale sia inflitta o eseguita. Ad esempio, la Commissione di Strasburgo ha ritenuto che la struttura costituzionale degli USA non dia una garanzia sufficiente, neanche nei casi in cui la pena di morte (in uno degli Stati che la prevede) possa venir richiesta solo dal Procuratore e costui abbia garantito sotto giuramento che non la chiederà[67].
Similmente, la Corte costituzionale italiana dichiarò l’incostituzionalità della legge 26 maggio 1984, n. 225 nella parte in cui dava esecuzione all’art. IX del Trattato di estradizione tra Italia e USA del 13 ottobre 1983[68]. Secondo la Corte in questione, il divieto della pena di morte (anche) in tempo di pace previsto dall’art. 27 comma 4 della Costituzione si configura nel sistema costituzionale come proiezione accordata al bene fondamentale della vita, ossia il primo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione.
Per quanto riguarda l’ammissibilità della pena di morte in tempo di guerra, l’abolizione di tale forma di punizione in tutti i casi è prevista dal Protocollo n. 13 alla CEDU. Per ricollegarci al nostro Paese, va inoltre ricordato che, come già detto nel precedente capitolo, la legge costituzionale 1/2007 ha modificato l’articolo 27 Cost. in modo da escludere l’applicabilità della pena di morte anche in guerra. Per quanto concerne la giurisprudenza CEDU, è da menzionare la sentenza Öcalan[69], in cui la Corte ha affermato che, sebbene la pena di morte sia ancora ammissibile, un provvedimento di allontanamento di una persona verso un altro Stato nel quale il soggetto possa essere sottoposto a esecuzione capitale, in base a un procedimento sommario e arbitrario, sarebbe comunque una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti previsto dall’art. 3 CEDU.
Pertanto, l’attuazione della pena di morte nei confronti di una persona che non ha avuto un giusto processo non può essere ammessa, poiché significherebbe sottoporre il soggetto a un ingiusto timore di essere giustiziato, da cui consegue un significativo livello d’angoscia.
Passando appunto al divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, esso costituirebbe un “nucleo duro” illimitabile della libertà personale, comune ai sistemi costituzionali democratici nonché all’intera comunità internazionale.[70]Tale divieto è previsto dall’articolo 3 CEDU e 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici ed è stato nel tempo rafforzato e reso assoluto nella comunità internazionale e tra i paesi membri del Consiglio d’Europa.
La nozione dei trattamenti vietati è ormai applicata e interpretata in modo progressivamente crescente, così da ricoprire una rosa di pratiche sempre più ampia e differenziata rispetto al semplice obbligo di astenersi dal prevedere punizioni corporali o metodi di estorsione delle informazioni che portino a mutilazioni o vessazioni fisiche o psicologiche.[71]Inoltre, la Convenzione internazionale contro la tortura del 1984 - come abbiamo avuto modo di vedere[72]- impone agli stati aderenti di prevedere specifiche fattispecie. A tale obbligo, come sappiamo, il nostro Paese si è adeguato solo molto recentemente. In ogni caso, si tratta di un divieto che non ammette eccezioni, così come riaffermato anche dall’art. 2 della summenzionata Convenzione.
Anche la Corte EDU ha ribadito che si tratta di un divieto inderogabile in qualsiasi caso[73], pur essendo comprensibili le difficoltà che derivano dalla necessità di fronteggiare il terrorismo, e indipendentemente dalla condotta del soggetto passibile di tortura.[74]Quattro mesi prima degli attentati dell’11 settembre 2001 la Corte ripeteva che anche di fronte a terroristi riconosciuti ogni Stato ha comunque l’obbligo di applicare le procedure repressive in modo da minimizzare ogni minaccia alla vita[75].
Oggi sembra che la Corte europea faccia proprie le definizioni di tortura e trattamento inumano e degradante previste dalla succitata Convenzione ONU del 10 dicembre 1984: qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute o psichiche, al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da una qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale dolore non si estende al dolore e alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate.[76]
Questi requisiti coincidono (anche se non totalmente) con quelli identificati dalla giurisprudenza della Corte EDU, la quale ha comunque operato su una norma molto più generica (l’art. 3 CEDU) e pertanto ha ricompreso una serie di misure che in astratto non rientrano nella nozione della Convenzione ONU.
In primis, un comportamento o una pena, per rientrare nel divieto dell’art. 3, devono raggiungere una soglia minima di gravità, la cui valutazione è relativa in quanto dipendente dalle circostanze della causa, come la durata del trattamento, i suoi effetti fisici e piscologici e, in alcuni casi, il sesso, l’età e lo stato di salute della vittima.[77]
Alcune pratiche, come l’attesa in un carcere prima che sia data esecuzione di una condanna a morte e il ricorso alla forza fisica nei confronti di una persona arrestata o detenuta, sono di per sé considerate violazioni dell’art. 3 a seconda del luogo in cui si svolgono (un istituto penitenziario o un posto di polizia), nel quale la persona è già privata della sua libertà personale. Ad esempio, nella sentenza Soering c. Regno Unito la Corte affermò che il lungo periodo passato nel corridoio della morte con la costante angoscia del momento dell’esecuzione, nonché le circostanze personali del ricorrente (come il suo stato mentale o la sua età al momento del reato) rendevano l’estradizione verso gli Stati Uniti un rischio per il possibile superamento degli standard dell’articolo 3 CEDU.
A ciò va aggiunto che il legittimo scopo perseguito con l’estradizione poteva essere conseguito tramite uno strumento differente senza determinare una sofferenza di tale eccezionale intensità e durata[78]. La gravità della violazione, cioè della sofferenza inflitta, è ciò che consente anche di distinguere tra tortura e trattamento disumano o degradante, tracciando una scala che va dal più grave e maggiormente meritevole di stigma morale[79] (la tortura) al meno grave (il trattamento inumano).
Un esempio di comportamento riconosciuto come tortura dalla Corte EDU è il recentissimo caso Cirino and Renne v. Italy[80]: nel 2004 i ricorrenti, detenuti in un carcere ad Asti, dopo un alterco con delle guardie hanno subito pestaggi ripetuti e sistematici dal personale della struttura e sono stati costretti a restare nudi all’interno di celle spoglie anche dei servizi essenziali come quello igienico.[81]La Corte ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 CEDU nei suoi aspetti formali e sostanziali.[82]
La pena o i trattamenti sono disumani o degradanti, anche tenendo conto della loro durata o premeditazione, a seconda che essi provochino una sofferenza fisica o mentale ovvero siano tali da aumentare nelle vittime un senso di paura, angoscia o umiliazione. L’intenzione dell’autore non è rilevante ai fini della condotta: perché una pena o un trattamento sia inumano o degradante, la sofferenza o l’umiliazione deve andare oltre quella inevitabilmente connessa con qualsiasi tipo di legittima pena o trattamento.[83]
In diversi casi, la Corte ha considerato trattamento inumano o degradante alcune pratiche adottate dalle forze di polizia inglesi e francesi nella repressione del terrorismo. Ad esempio, sono state considerate tali le tecniche di disorientamento o privazione sensoriale che erano state adottate come pratica costante dalla polizia britannica durante gli interrogatori nei confronti dei terroristi nordirlandesi (incappucciamento per tutto il periodo della detenzione, stazionamento contro il muro in piedi per molte ore, privazione del sonno, somministrazione di dosi ridotte di cibo, sottoposizione a rumori intensi)[84].
In seguito, la Corte identificò come trattamenti inumani e degradanti i maltrattamenti inflitti ad un sospetto terrorista dalla polizia dopo il suo arresto (schiaffi, calci, pugni, gomitate, sputi, minacce con un’arma, permanenza in piedi completamente nudo davanti a una finestra) e affermò appunto l’inderogabilità della protezione dovuta alla integrità fisica della persona anche di fronte alla lotta contro il terrorismo.[85]
Il rispetto dell’articolo 3 comporta anche degli obblighi positivi per gli Stati aderenti, come prevedere degli istituti penitenziari che non riducano il detenuto in condizioni inumane e degradanti. Un esempio di condizione detentiva che, secondo la Corte, può configurarsi in un trattamento inumano o degradante è la mancanza di spazio vitale derivante dal sovraffollamento carcerario, associata alla lunghezza del periodo durante il quale la persona è stata detenuta in tali condizioni.
Esempi di condanne per tali inadempimenti riguardo al sistema carcerario sono la sentenza Dougoz v. Greece nonché numerose pronunce nei confronti dell’Italia, come la Sulejmanovic c. Italia (Ricorso n. 22635/03) riguardate un detenuto che dichiarava di aver condiviso con altre cinque persone una cella di 16,20 metri quadri, fatto che per la Corte ha “inevitabilmente causato disagi e inconvenienti quotidiani al ricorrente, costretto a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal CPT.”
Pertanto, secondo la Corte, “la flagrante mancanza di spazio personale di cui il ricorrente ha sofferto è, di per sé, costitutiva di un trattamento inumano o degradante.”[86] Mentre rileva che la sola circostanza di non aver ottenuto di poter lavorare in carcere “non può costituire un trattamento contrario all’articolo 3 della Convenzione.”[87]
Analogamente a quanto osservato sul divieto di pena di morte, anche nel caso del divieto di tortura e trattamenti inumani è previsto un divieto di espulsione, allontanamento o estradizione di una persona (cittadina o straniera) verso un paese in cui potrebbe essere sottoposta a tali pratiche o in cui comunque non sarebbe protetta dal rischio di subirle, come oggi prescrive l’articolo 3 della Convenzione internazionale contro la tortura.
La Corte ha infatti affermato che il provvedimento di allontanamento o respingimento può in alcuni casi violare gli artt. 3 e 8 della Convenzione laddove vi siano dei fondati motivi per ritenere che la persona, se allontanata, incontri un rischio reale di essere sottoposta a tortura o a pena e trattamento inumano o degradante nel Paese in cui sarà inviata. In tal caso, è lo Stato di rinvio il responsabile[88].
La Corte ha precisato inoltre che l’art. 3 si applica anche nel caso in cui la causa del rischio non derivi da azioni compiute da autorità pubbliche, ma da persone o gruppi di persone private, come un’organizzazione criminale. Sarà comunque necessario dimostrare che si tratti di un rischio effettivo e che le autorità dello Stato di destinazione non siano in grado di evitarlo garantendo la protezione adeguata.[89]La condizione per cui l’atto di allontanamento possa rilevare ai sensi dell’art. 3 è che siano dimostrati substantial grounds, cioè motivi di una certa rilevanza.[90]
Occorre quindi che il ricorrente presenti delle argomentazioni che devono essere fondate, non essendo sufficienti delle semplici supposizioni o delle mere possibilità: occorrono prove e fatti che rendano plausibile il rischio invocato. Elementi utili al giudizio della Corte possono essere l’aver fatto parte di movimenti politici oggetto di persecuzione nello Stato di origine o l’essere stato oggetto in passato di torture o maltrattamenti in generale.
Non di rado la Corte prende in esame rapporti redatti da organismi internazionali e organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch, pur non impiegandoli come dato decisivo ai fini della valutazione. Poiché, inoltre, il divieto di tortura è inderogabile, non rilevano le ragioni dello Stato circa le attività terroristiche del soggetto che possa subire tali trattamenti nel Paese verso cui dovrebbe essere estradato.[91]
Per quanto riguarda il principio di non discriminazione e gli strumenti giurisdizionali per la tutela del diritto ad un giusto processo, va premesso[92] che per quanto ogni persona sospettata di terrorismo come di qualsiasi altro crimine dovrebbe poter godere sempre delle stesse garanzie di un giusto processo e poter altresì contestare la legittimità della propria detenzione di fronte a un giudice imparziale con adeguate garanzie di difesa (l’habeas corpus di cui abbiamo già parlato[93]), è anche vero che tali diritti e garanzie sono derogabili dagli Stati nei casi di emergenza ai sensi dell’art. 15 CEDU, nonché in quegli ordinamenti costituzionali (come quello Statunitense) che consentano di derogare a tali diritti o di instaurare lo stato d’emergenza.
Al contrario, il principio di non discriminazione sulla base della appartenenza razziale, religiosa, nazionale o politica, pur non essendo espressamente previsto come inderogabile anche durante periodi eccezionali in base all’art. 15 CEDU, lo è comunque sulla base del richiamo fatto in quest’ultima norma al rispetto di altri obblighi internazionali, tra i quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici, che considera questo principio come inderogabile.
Nel Regno Unito, proprio l’illegittimità della deroga al divieto di discriminazione previsto dall’art. 14 CEDU è stata il motivo del ricorso accolto dei Law Lords della House of Lords contro l’Anti-Terrorism, Crime and Security Act 2001 (sect. 21, 23) che attribuiscono al Segretario di Stato il potere di certificare gli stranieri che egli ritenga conniventi con la rete del terrore in quanto “sospetti terroristi”, perché stranieri sospetti di essere coinvolti in attività od organizzazioni legate al terrorismo internazionale. Questi soggetti potevano essere sottoposti a un regime detentivo potenzialmente indefinito, senza essere ricevere un regolare giudizio (come invece accade per i cittadini britannici accusati di terrorismo), qualora e fino a quando la loro espulsione, giustificata da motivi di sicurezza nazionale, non risulti concretamente possibile in quanto costoro rischiano di essere sottoposti a persecuzione o tortura nel Paese di destinazione.
Va prima di tutto ricordato[94] che il Parlamento britannico nel 2001 approvò la decisione governativa di avvalersi dell’art. 15 CEDU, in rapporto all’art. 5 para. 1 lettera f) CEDU, per attuare limitazioni alla libertà personale nei confronti di uno straniero al fine di eseguire un legittimo provvedimento di espulsione o estradizione, tenendo conto della giurisprudenza della Corte europea secondo la quale tale norma, pur non stabilendo un termine massimo alla durata della detenzione, consente la detenzione dello straniero fino a quando un procedimento di estradizione o espulsione continui con la dovuta diligenza.[95]
Per il Governo britannico, la detenzione senza incriminazione formale dei sospetti di terrorismo si renderebbe necessaria appunto per evitare che quegli stessi soggetti subiscano violazioni all’art 3 CEDU venendo rimpatriati in Paesi in cui non è assicurata la tutela dei diritti fondamentali, Al fine di garantire il rispetto dei vincoli alla derogabilità previsti dall’art. 15 CEDU, l’art. 30 commi 2 e 5 dell’ATCA prevede che i detenuti possano contestare la legittimità delle deroghe che essi ritengano vietate dalla CEDU.
Al fine di verificare i reclami in questione, la legge prevede una commissione speciale, la Special Immigration Appeals Commission (SIAC), composta da tre giudici della High Court, adibita esclusivamente all’esame dei casi dei sospetti terroristi. Gli elementi in base ai quali è tenuto il processo non sono rivelati né agli stranieri né ai loro avvocati: il solo a poterlo sapere è un avvocato di fiducia del Governo, al quale è affidata la rappresentanza di ogni soggetto.
In un giudizio del 30 luglio 2002 la SIAC aveva deciso l’illegittimità dei poteri di detenzione perché li aveva giudicati contrari al divieto di discriminazione di cui all’art. 14 CEDU, norma nei confronti della quale il Regno Unito non aveva presentato alcuna dichiarazione di deroga. La Corte d’Appello annullò la decisione sostenendo che non vi fosse stata una irragionevole discriminazione in quanto i cittadini britannici avevano il diritto di restare nel loro Paese, mentre gli stranieri legittimamente espellibili hanno solo il diritto a non essere allontanati dal territorio finché il provvedimento espulsivo costituisca un serio rischio alla loro incolumità.
I Law Lords confutarono all’unanimità la decisione della Corte d’Appello sostenendo che, al contrario, l’ATCSA comportava una discriminazione a danno dei detenuti stranieri e invitando il Governo a prendere provvedimenti. È importante sottolineare che i Law Lords dichiararono che la decisione era viziata da un errore di diritto, non per il fatto che non sussistesse una situazione d’emergenza: semplicemente, il potere di arrestare e di detenere stranieri venne considerato irrazionale e discriminatorio.[96]
Un’altra pronuncia della Corte EDU importante per le conseguenze giurisprudenziali che ne sono derivate è la A. and others c. United Kingdom del 19 febbraio 2009. Con essa, la Corte decreta l’incompatibilità di alcuni aspetti della normativa antiterroristica britannica con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.[97]
La prima questione affrontata riguarda la denunciata violazione dell’art. 3 della CEDU, che secondo i ricorrenti sarebbe stata determinata da un regime di reclusione preventiva ad essi applicato. La corte nega che vi sia un’infrazione poiché l’Anti-Terrorism, Crime and Security Act (ATCSA), consente ai detenuti di contestare la legittimità della propria detenzione. I giudici fanno riferimento al precedente Kafkaris c. Cipro[98], in cui la violazione dell’articolo 3 era stata riscontrata perché la detenzione risultava assimilabile a una irreducible life sentence, definizione non applicabile a questo caso.
Tra le contestazioni presentate dagli appellanti viene menzionata anche l’intollerabile sofferenza causata dalle condizioni di detenzione, punto su cui la Corte non si pronuncia. Essa, piuttosto, riscontra il contrasto tra regime di carcerazione preventiva disposto dall’ATCSA e l’art. 5 della CEDU. Viene infatti respinta l’argomentazione del Governo, che riteneva che il comma 1 dell’art. 5 consentisse di effettuare un bilanciamento tra il diritto dell’individuo alla libertà personale e l’interesse dello Stato alla protezione dei cittadini dalla minaccia del terrorismo.[99]
Mentre la deroga alla Convenzione effettuata dal Regno Unito viene ritenuta pienamente legittima, seppur in assenza della previsione di un limite temporale.[100]Ciò in ragione di una discrepanza tra il parere della Commisione per i diritti umani delle Nazioni Unite, secondo cui ogni deroga deve essere eccezionale e di durata limitata, e la giurisprudenza della Corte EDU, che non presenta precedenti in cui sia previsto esplicitamente il requisito della temporaneità dell’emergenza: vi sarebbero, al contrario, alcuni casi relativi soprattutto alle vicende dell’Irlanda del Nord, che dimostrano come la Corte consideri “emergenziali” situazioni che si protraggono anche per molti anni.[101]
Per quanto riguarda la gravità della minaccia, la Corte non conviene con la opinione dissenziente del Law Lord Hoffman, affermando piuttosto che perché si possa parlare di emergenza non è indispensabile che vi sia una minaccia reale e imminente per l’essenza democratica dell’ordinamento, ma possono essere tenuti di conto altri fattori che influenzano la natura e il grado di pericolosità della minaccia.[102] La deroga, seppur legittima, è però ritenuta sproporzionata dalla Corte, la quale concorda su questo con i Lords: le misure introdotte comportano una discriminazione ingiustificata tra cittadini e non cittadini.[103]
Per quanto riguarda la coerenza della detenzione preventiva con il comma 4 dell’art. 5 della CEDU, la Corte distingue caso per caso, constatando la violazione per quattro degli appellanti e negandola per gli altri cinque.[104]
È interessante vedere anche come, nonostante in casi analoghi i giudici CEDU abbiano riconosciuto il diritto di persone detenute illegittimamente a ottenere un risarcimento per i danni, questa volta si sia deciso di attribuire ai ricorrenti una cifra quasi simbolica. Tale decisione è dovuta allo stato di necessità in cui versa l’ordinamento, il quale è tenuto a proteggere la popolazione dalla minaccia del terrorismo internazionale. Alla luce di ciò, il regime di detenzione esaminato nella sentenza è considerato frutto di una decisione presa in buona fede, considerata la più funzionale al fine di proteggere la collettività. Secondo i giudici, le misure introdotte sono state concepite con l’obiettivo di ottenere un equo bilanciamento tra esigenza di prevenire il perpetrarsi di atti terroristici e quella di rispettare gli obblighi scaturenti dall’articolo 3 della CEDU.[105]
In sintesi,[106] l’importanza di questa sentenza sta nel rigore con cui la Corte EDU riafferma il prevalere della Convezione sulla discrezionalità degli Stati a svincolarsi da essa ove il rispetto delle prerogative sancitevi contrasti con gli interessi interni. In particolare, la constatazione della portata discriminatoria delle misure antiterrorismo e l’asserzione della assoluta inammissibilità delle differenze di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza, si traduce in un segnale al Governo britannico che funge anche da monito agli altri Stati.
Si riafferma quindi l’intransigenza del sistema CEDU sull’integrità della sfera individuale, quale valore profondo della Convenzione e obiettivo che i contraenti si sono posti firmandola. Dunque, la salvaguardia della sfera più intima della libertà personale prevale in linea di massima su necessità di ordine politico e istituzionale che un ordinamento è chiamato ad affrontare per mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza.
Dunque, queste esigenze derivanti da una minaccia grave e straordinaria, come quella del terrorismo, devono essere considerate sottoposte a opportuno bilanciamento perché l’interesse generale sottostante non riguarda solo la comunità, ma la sopravvivenza stessa delle istituzioni democratiche. Di conseguenza, anche nel caso in cui durante il periodo di vigenza della deroga le minacce di violenza non si concretizzino, la Corte non reputa censurabile lo scrupolo adottato dalle istituzioni verso il possibile verificarsi del rischio. Non si può infatti pretendere che uno Stato non agisca e resti in attesa che avvenga il peggio, salvo poi agire solo a danno fatto. Oltretutto, l’effettiva sussistenza del pericolo, nel caso del Regno Unito, si è rivelata con gli attentati di Londra del 2005.
La Corte giustifica l’atteggiamento del Regno Unito anche rispetto alla facoltà di tenere segreti gli elementi probatori a carico degli imputati nei processi di fronte alla Special Immigration Appeals Commission, ma soltanto a meno che ciò non ostacoli o renda inefficace il diritto alla difesa dell’accusato. Nel caso specifico, non sono stati rilevati impedimenti tali da legittimare la pubblicazione di informazioni utili all’attività di intelligence.
4. Conclusioni
La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha consentito di specificare meglio i criteri di attuazione e conduzione della deroga ad alcuni diritti prevista dall’articolo 15 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, con particolare attenzione al tema del “margine d’apprezzamento” lasciato ai singoli Stati nella loro valutazione sull’opportunità di invocare tale articolo, essendo essi le entità più vicine alla realtà emergenziale da dover affrontare.
Importanti sono state, poi, quelle pronunce che hanno specificato i caratteri di determinate condotte che costituiscono violazioni dei diritti umani ed enucleato principi e criteri interpretativi indispensabili alla individuazione dei casi in cui certi comportamenti degli stati possano considerarsi legittimi e non in violazione di alcuni diritti considerati irrinunciabili dalla Convenzione, come il diritto alla vita e a non subire tortura o trattamenti inumani e degradanti.
5. Note riassuntive sul ciclo di paper dedicato alla tutela dei diritti fondamentali nella lotta al terrorismo
Con il presente articolo si conclude questo ciclo di elaborati editi dalla rivista giuridica online Cammino Diritto, consistenti in estratti dalla tesi di laurea magistrale in Diritto Pubblico Comparato discussa dallo scrivente autore nel novembre 2017 alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università La Sapienza di Roma e intitolata "La tutela dei diritti fondamentali dinnanzi alla minaccia del terrorismo internazionale".
Nel corso dei vari paper è stata esposta una analisi comparata degli strumenti legali impiegati dai maggiori Stati occidentali per affrontare l’odierna minaccia del terrorismo internazionale. Contestualmente, sono state esposte nel dettaglio problematiche di natura etico-giuridica sollevate dall’applicazione di tali leggi e provvedimenti antiterrorismo nel loro impatto sui principi basilari dello stato di diritto e sui diritti garantiti a livello costituzionale e internazionale.
Nello specifico, è stato affrontato il tema della difficile definizione politica e giuridica di cosa sia “terrorismo”[107], presentando un excursus storico nonché opinioni di filosofi, giuristi ed esperti di sicurezza e ancora dati normativi tanto italiani quanto internazionali ed esteri. In particolare, si è affrontata anche la figura del foreign fighter, molto discussa nella cronaca giudiziaria contemporanea.
Si è così giunti alla conclusione che, posto il carattere “globalizzato” comune ai movimenti terroristi contemporanei più importanti, pur essendo possibile individuare molteplici forme di terrorismo che differiscono per finalità dei suoi perpetratori ed estensione geografica (nazionalista, fondamentalista, interno a un singolo stato, internazionale), una nozione unitaria di questo fenomeno non può essere rintracciabile in una sola fonte legale, ma richiede piuttosto un articolato lavoro di esegesi da più fonti (nazionali, internazionali, giurisprudenziali) il quale, comunque, non sembra poter arrivare a un risultato univocamente accettabile: ciò per via della poliedricità dell’argomento in questione nonché dell’inevitabile coinvolgimento, nella sua determinazione, di scelte politiche da parte di quegli Stati che si sono trovati storicamente o si trovano nel presente a doverlo affrontare.
Nonostante le difficoltà menzionate, si è specificato che la dottrina è pressoché concorde nel ritenere di cruciale importanza, per Stati e Comunità Internazionale, la determinazione di una nozione univoca che consenta davvero di sviluppare una strategia comune di lotta a questo pericoloso fenomeno senza che essa colpisca individui e organizzazioni non ascrivibili al terrorismo o finisca per lasciare impuniti i veri responsabili.
Si è poi trattato brevemente il concetto di emergenza (tra cui quella terroristica) e di stato d’emergenza da un punto di vista filosofico, politico e giuridico, indicando alcune teorie sulla nozione generale di emergenza e gli effetti che essa ha sull’assetto normativo statale, con particolare attenzione al tema dei limiti opponibili al potere dell’“organo sovrano” (Esecutivo, Presidente) incaricato di gestire l’emergenza terrorismo.[108]
Si sono poi analizzati gli ordinamenti costituzionali di tre Paesi occidentali: Italia[109], Francia[110] e Stati Uniti d’America[111], valutando l’impatto che le misure emergenziali antiterrorismo hanno avuto o possono avere sulla tutela dei diritti fondamentali e sul mantenimento della divisione democratica tra i poteri dello Stato, secondo quanto esposto da diverse opinioni dottrinali sulle misure legislative prese in considerazione. Ampio spazio ha avuto la trattazione di vicende dal rilievo cronachistico oltre che giuridico, come il caso Abu Omar, il carcere di Guantanamo e il Travel Ban dell’amministrazione Trump.
Da questa analisi emergerebbe una preoccupante tendenza del legislatore a rendere perpetuo e stabile un diritto eccezionale pensato, appunto, per avere una durata limitata; a far retrocedere il momento della punibilità in determinate condotte; a ricorrere all’appartenenza etnica e religiosa come presupposto per la qualificazione della condotta criminosa come terroristica; nonché a proporre una visione “funzionale” di emergenza caratterizzata da vincoli deboli (se non completamente assenti) tra l’azione repressiva e il fatto scatenante l’adozione delle misure (cioè il terrorismo), in favore di un presunto bisogno generico di garantire l’ordine pubblico in qualsiasi caso, anche a detrimento di soggetti “non in odore di terrorismo”.
Lo studio delle norme limitative dei diritti si è accompagnato a quello della giurisprudenza di Corte Costituzionale italiana, del Conseil constitutionel e Conseil d’État francesi nonché della Corte Suprema degli Stati Uniti, al fine di comprendere quale approccio i giudici abbiano adottato nei confronti di controverse normative tendenti ad attribuire maggiore potere in mano all’Esecutivo e a limitare gli spazi di sindacabilità da parte del Giudiziario: ne è emerso un atteggiamento generalmente oscillante tra la deferenza e l’intenzione di arginare eventuali abusi e illegittime compressioni di diritti.
Si è successivamente affrontato il tema della lotta al terrorismo e dei contestuali strumenti di tutela dei diritti fondamentali sul piano dell’integrazione europea, presentando giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea[112]
Nel presente articolo, infine, si è analizzata la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al rapporto tra lotta al terrorismo e tutela dei diritti nonché, in generale, ai requisiti e alle modalità per la sospensione – da parte degli Stati membri – di alcune disposizioni della Carta EDU al fine di risolvere situazioni emergenziali.
L’indagine sull’operato di entrambe le Corti ci consente di cogliere i connotati che sta gradualmente assumendo la tutela dei diritti fondamentali nel contesto dell’integrazione europea. Emerge in particolare l’importanza crescente delle tutele procedurali dei diritti: esse da una parte costituiscono un elemento fondamentale della cultura giuridica comune a tutti gli attori nello scenario dell’integrazione europea (costituzioni statali, trattati e giurisprudenza comunitari, convenzione e giurisprudenza CEDU); dall’altra rappresentano una risorsa indispensabile per consentire al singolo, qualora ritenga che i suoi diritti siano stati ingiustamente intaccati, di difendersi esponendo le proprie ragioni affinché abbiano un peso sul processo decisionale sanzionatorio a livello internazionale, nazionale ed europeo.
Nel complesso, è possibile affermare che di fronte al duplice pericolo della violenza terrorista e della torsione in senso illiberale degli ordinamenti costituzionali nella lotta a tale fenomeno, gli Stati stessi, le organizzazioni internazionali europee e la Comunità Internazionale hanno sviluppato complessi sistemi di tutela che agiscono in un contesto “multilivello”, coinvolgendo tanto le istituzioni statali quanto quelle sovranazionali regionali e internazionali e contando soprattutto sul lavoro delle Corti finalizzato ad arginare l’accentramento di potere nelle mani dell’Esecutivo e garantire un livello essenziale di rispetto dei diritti fondamentali.
Posto il rischio che il legislatore ceda a una errata valutazione di proporzionalità con conseguenze dannose per l’ordinamento giuridico, va comunque sottolineato il ruolo centrale ormai assunto dal principio di proporzionalità nel lavoro interpretativo delle Corti (costituzionali, supreme e sovranazionali), al punto che ormai tale criterio ha abbandonato le sue caratteristiche di astrattezza e indeterminatezza per assurgere a vera e propria categoria costituzionale che, secondo alcuni, sarebbe il modo migliore per garantire prevedibilità e coerenza.
Tale approccio globale alla salvaguardia dei diritti (caratterizzato da una visione universalista per cui essi non possono essere relativizzati a seconda delle tradizioni nazionali e differenze regionali) è coerente con l’ambito ugualmente globale della risposta antiterrorista, cui va aggiunto l’importante aspetto delle garanzie procedurali: tutte le volte che sia necessario limitare i diritti, tali restrizioni devono essere bilanciate da procedure che consentano agli individui di difendersi davanti ad un organismo indipendente.
Note e riferimenti bibliografici
[1] P. Bonetti, op. cit., p. 227.
[2] G. Cataldi, Art. 15, Deroga in caso di stato d’urgenza, in Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. de Sena, V. Zagrebelsky, CEDAM, 2012, pp. 426-427.
[3] P. Bonetti, op. cit., p. 228.
[4] P. Bonetti, op. cit., p. 229.
[5] L. Mariani, Emergenza e legislazione emergenziale nel silenzio delle norme costituzionali italiane, in Riv. Cammino Dirit., 3, 2019]
[ 6Articolo di Le Monde del 27.11.2015
[7] P. Bonetti, op. cit., p. 230.
[8] G. Cataldi, op. cit., p. 440.
[9] CEDU, art. 57.
[10] Commissione CEDU, dec. 4 marzo 1991, Crysostomos, Papachrysostomou e Loizou c. Turchia.
[11] P. Bonetti, op. cit., pp. 230-231.
[12] F. De Sanctis, La deroga del Regno Unito alla Convenzione europea nell’ottica della giurisprudenza di Strasburgo, in Diritto Penale e Processo, n. 5, 2003, pp. 641-ss.
[13] P. Bonetti, op. cit., p. 231.
[14] G. Cataldi, op. cit., p. 429.
[15] Commissione europea dei diritti umani, rapporto 19 dicembre 1959, Lawless v. Ireland, para. 28.
[16] P. Bonetti, op. cit., p. 232.
[17] CEDU, sent. 26 novembre 1997, Sadik e altri c. Turchia.
[18] Commissione europea dir. Umani, rapp. 7 dicembre 1985, Francia, Norvegia, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi c. Turchia.
[19] P. De Sena, Esigenze di sicurezza nazionale e tutela dei diritti dell’uomo nella recente prassi europea, in Ordine internazionale e valori etici. Atti dell’VIII Convegno della società italiana di diritto internazionale, Napoli, Editoriale scientifica, 2004, p. 237.
[20] O. De Schutter, La Convention européenne des droits de l’homme à l’épreuve de la lutte contre le terrorisme, in Revue Universelle des Droits de l’Homme, 2001, p. 199.
[21] G. Cataldi, Le deroghe ai diritti umani in stato d’emergenza, in La tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, a cura di L. Pineschi, Milano, Giuffrè, 2006, p. 766.
[22] P. Bonetti, op. cit., p. 234.
[23] CEDU, sent 29 novembre 1988, serie A n. 145-B, Brogan e altri c. Regno Unito.
[24] CEDU, sent. 26 maggio 1993, Branningan e McBride c. Regno Unito, parr. 49-ss.
[25] CEDU, sent. 26 maggio 1993, Branningan e McBride c. Regno Unito; CEDU, sent. 26 novembre 1996, Aksoy v. Turkey.
[26] Commissione, rapp. 5 novembre 1969, Grecia c. Regno Unito.
[27] P. Bonetti, op. cit., p. 235.
[28] Protocollo n. 6 alla CEDU, art. 3.
[29] Protocollo n. 7 alla CEDU, art. 4.
[30] Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. 16.
[31] Ibid., art. 18.
[32] Ibid., art. 2.
[33] Ibid., art. 4.
[34] P. Bonetti, op. cit., p. 236.
[35] Commissione europea dir. Umani., rapp. 19 dicembre 1959, Lawless v. Ireland, confermata dalla sentenza CEDU 1 luglio 1961, Lawless v. the Government of Ireland.
[36] CEDU, sent. 26 novembre 1996, Aksoy v. Turkey, para. 78.
[37] Council of Europe, Office of Commissioner for Human Rights, Opinion 1/2002 of the Commissioner for Human Rights, Mr. Alvaro Gil Robles, on certain aspects of the United Kingdom 2001 derogation from article 5, par. 1 of the European Convention on Human Rights, 28 august 2002, CommDH (2002)7, para. 35.
[38] CEDU, sent. 26 maggio 1993, Branningan and McBride v. United Kingdom, para. 36.
[39] G. Cataldi, Le deroghe ai diritti…, cit., p. 754.
[40] Council of Europe, Office of the Commissioner for Human Rights, Opinion 1/2002, para. 8.
[41] P. Bonetti, op. cit., p. 237.
[42] P. Bonetti, op. cit., p. 238.
[43] L. Montanari, I diritti dell’uomo nell’area europea tra diritto internazionale e diritto interno, Giappichelli, 2002, p. 158.
[44] P. Bonetti, op. cit., p. 239.
[45] Sui poteri eccezionali del Presidente della Repubblica e sugli altri strumenti previsti dall’ordinamento francese per fronteggiare situazioni di emergenza, si rimanda a L. Mariani, Assedio, urgenza e poteri eccezionali: la lotta all'emergenza (anche) terrorista nell'ordinamento francese, in Riv. Cammino Dirit. 7, 2019.
[46] Ibid.
[47] CEDU, sent. 6 luglio 2005, Nachova e altri c. Bulgaria, para. 95.
[48] P. Bonetti, op. cit., p. 246.
[49] CEDU, sent. 9 giugno 1988, L.C.B. c. Regno Unito, para. 36.
[50] A. Cassese, I diritti umani oggi, Bari-Roma, Laterza, 2005, p. 200.
[51] P. Bonetti, op. cit., p. 247.
[52] CEDU, sent. 27 settembre 1995, serie A, n. 17, Mc Cann e altri c. Regno Unito, in particolare parr. 119,147,148,149,150,161,170,173,200.
[53] CEDU, sent. 27 luglio 1998, Glec c. Turchia., para. 71.
[54] CEDU, sent. 26 aprile 1994, Dìaz Ruano c. Spagna; Sent. 10 luglio 1984, Kathleen Stewart c. Regno Unito.
[55] CEDU, dec. 10 luglio 1984 su ricorso n. 10044/1982.
[56] V. nota 184.
[57] CEDU, sentt. 24 febbraio 2005, Khashiev e Akaieva c. Russia, ricorsi nn. 57942/00 e 57945/00; Issaieva c. Russia, n. 57950/00
[58] P. Bonetti, Diritto alla vita: anche contro il terrorismo e anche in Cecenia, in Quaderni Costituzionali, 2005, n. 3, p. 683.
[59] CEDU, sent. 19 febbraio 1998, Kaya c. Turchia, par. 78.
[60] CEDU, sent. 28 luglio 1998, Ergi c. Turchia, par. 82.
[61] P. Bonetti, Diritto alla vita…, cit., p. 685.
[62] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza…, cit., p. 249.
[63] CEDU, sent. 18 maggio 2000, Velikova c. Bulgaria; sent. 27 giugno 2000, Salman c. Turchia.
[64] CEDU sent. 2 settembre 1998, Yasa c. Turchia; sent. 24 febbraio 2005, Khashiev e Akaieva c. Russia (ricorsi nn. 57942/00 e 57945/00).
[65] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza…, cit., p. 251.
[66] CEDU, sent. 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, opinione concordante del giudice De Mayer.
[67] Commissione, dec. 20 gennaio 1994, Aylor Davis c. Francia.
[68] Corte cost., sent. 27 giugno 1996, n 223.
[69] CEDU, sent. 12 marzo 2003, Öcalan v. Turkey (Application n. 46221/99), parr. 19 e 22.
[70] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza…, cit., p. 253.
[71] Ibid., pag. 254.
[72] L. Mariani, Il peso dell'emergenza terrorismo sui diritti fondamentali e il problema della loro tutela: il caso dell'Italia, in Riv. Cammino Dirit., 5, 2019
[73] CEDU, sent. 28 luglio 1999, n. 25803/94, Selmouni c. Francia, para. 95; sent. 28 ottobre 1998, Assenov e altri c. Bulgaria, para. 93.
[74] CEDU, sent. 15 novembre 1996, Chahal v. the United Kingdom (Application n. 22414/93); CEDU, sent. 6 aprile 2000, Labita c. Italia, para. 119.
[75] CEDU, sent. 11 maggio 2001, Jordan e Kelly c. Regno Unito.
[76] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza…, cit., pp. 255-256.
[77] CEDU, sent. 6 aprile 2000, Labita c. Italia.
[78] CEDU, sent. 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, para. 111.
[79] CEDU, 23 maggio 2001, Denizci and others v. Cyprus (Applications nn. 25316-25321, 27207/95).
[80] CEDU, 26 ottobre 2017, Cirino and Renne v. Italy (Applications nos. 2539/13 and 4705/13)
[81] Ibid., parr. 10-20.
[82] Ibid., decisione, punti 3, 4.
[83] CEDU, sent. 6 aprile 2000, Labita c. Italia.
[84] CEDU, sent. 18 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito.
[85] CEDU, sent. 27 agosto 1992, Tomasi c. Francia, para. 115.
[86] CEDU, sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia (Ricorso n. 22635/03), para. 43.
[87] Ibid., para. 50.
[88] CEDU, sent. 20 febbraio 1991, Cruz Varas and others v. Sweden (Application n. 46/1990/237/307).
[89] CEDU, sent. 29 aprile 1997, H.L.R. v. France (24573/94), para. 39.
[90] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza…, cit., p. 259.
[91] CEDU, sent. 15 novembre 1996, Chahal v. the United Kingdom.
[92] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza…, cit., p. 271.
[93] L. Mariani, Il peso dell’emergenza terrorismo sui diritti fondamentali e il problema della loro tutela: il caso dell’Italia, in Riv, Cammino Dirit. 5, 2019, para. 3; diffusamente in L. Mariani, Lotta al terrorismo e tutela dei diritti nell’ordinamento degli Stati Uniti D´America: un gioco di pesi e contrappesi, in Riv. Cammino Dirit., 8, 2019.
[94] P. Bonetti, op. cit., p. 274.
[95] Chahal v. United Kingdom, para. 113.
[96] P. Bonetti, Terrorismo, emergenza… cit., p. 279.
[97] C. Bassu, Terrorismo e Costituzioni: Percorsi Comparati, G. Giappichelli Editore, Torino 2010, p. 156.
[98] CEDU, sent. 12 febbraio 2008, 21906/04, 2008, Kafkaris v. Cyprus, para. 95.
[99] A. and others v. UK, para. 171.
[100] Ibid., para. 178.
[101] Lawless v. Ireland (No. 3); Brannigan and McBride; c. the United Kingdom; Marshall v. the United Kingdom.
[102]C. Bassu, op. cit., p. 158
[103] A. and others v. UK, para. 190.
[104] Ibid., parr. 212-224.
[105] Ibid., para. 166.
[106] C. Bassu, op cit., pp. 159-160.
[107] L. Mariani, Le molteplici possibili definizioni di terrorismo e terrorismo internazionale (parte prima) e (parte seconda), in Riv. Cammino Dirit. 1, 2019.
[108] L. Mariani, Il rapporto tra terrorismo e stato di emergenza, in Riv. Cammino Dirit., 2, 2019
[109] L. Mariani, Emergenza e legislazione emergenziale nel silenzio delle norme costituzionali italiane, in Riv. Cammino Dirit. 3, 2019; L. Mariani, Il peso dell’emergenza terrorismo sui diritti fondamentali e il problema della loro tutela: il caso dell’Italia, in Riv. Cammino Dirit. 5, 2019.
[110] L. Mariani, Assedio, urgenza e poteri eccezionali: la lotta all’emergenza (anche) terrorista nell’ordinamento francese, in Riv. Cammino Dirit., 7, 2019.
[111] L. Mariani, Lotta al terrorismo e tutela dei diritti nell’ordinamento degli Stati Uniti D´America: un gioco di pesi e contrappesi, in Riv. Cammino Dirit., 8, 2019.
[112] L. Mariani