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Pubbl. Lun, 26 Ago 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

La successione delle leggi penali nel tempo e il tempus commissi delicti in relazione ai diversi tipi di reato

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Ileana Pussini


Dopo aver esaminato il tema della successione delle leggi penali nel tempo e le questioni esegetiche ad esso relative, anche alla luce di alcune importanti pronunce della Cassazione, si procede all´analisi della connessa tematica relativa all´individuazione del tempus commissi delicti, con uno sguardo alla recente pronuncia delle Sezioni Unite 2018


Sommario: Abstract [ENG]; 1. Premessa; 2. Il principio costituzionale di irretroattività della legge penale e la retroattività della lex mitior; 3. La successione delle leggi penali nell’art. 2 c.p. e le questioni interpretative sorte in relazione ad esso; 3.1. Criteri di applicazione dei commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p. anche alla luce della sentenza Giordano del 2003: abolitio criminis, successione ed abrogazione parziale; 3.2. L’abrogatio sine abolitio nella sentenza Rizzoli del 2009; 3.3. La successione delle norme integratrici della legge penale alla luce della sentenza Magera del 2007 e Niccoli del 2008; 4. Il tempus commissi delicti nei vari tipi di reato; 5. Il tempus commissi delicti nei reati ad evento differito, in rapporto alla successione delle leggi penali nel tempo, in ossequio alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 40986/2018.


This topic analyses the sequence of criminal laws over time, which is one of the most current and discussed matter, because of continuous regulatory production that exists in Italian legal system.

At the beginning, the topic examines the main theme of sequence of criminal laws and exegetical issues that have been suggested by legal Doctrine and Jurisprudence and that have been solved by some important sentences of the Court of Cassation. 

Particularly it analyses the rule of the constitutional principle of no-retroactivity and its corollaries (e.g. the retroactivity of more favourable laws, the relationship between simple succession and abrogation, the effect of an hypothetical modification of a supplementary rule on criminal law, etc.), that are included in Article 2 of the Italian Criminal Code and that have been subject of discussion among the interpreters for several years.

After that, the topic analyses the connected problem of identifying the moment in which criminal offence is over (so-called tempus commissi delicti), in relating to different types of crimes, particularly referring to postponed event crimes, about which an important judgement of the Cassation Court (S.U. n. 40896/2018) solved all the interpretative linked quarrels.

1. Premessa. 

La successione delle leggi penali nel tempo rappresenta una tematica molto attuale, alla luce del continuo succedersi delle leggi nel nostro ordinamento giuridico, oltre ad essere una tematica affrontata, e recentemente anche rivisitata, dalla Giurisprudenza e dalla Dottrina.

Per quel che concerne le fonti normative della successione delle leggi penali, la norma che rappresenta il riferimento principale è sicuramente l’articolo 25 comma 2 della Costituzione, che però, a differenza di quanto accade per gli altri sotto-principi del principio di legalità, non esaurisce la tematica della successione, in quanto in esso si afferma unicamente il principio dell’irretroattività delle leggi penali. I principi e i criteri finalizzati alla risoluzione delle ipotesi relative alle leggi penali più favorevoli di quella vigente al momento della commissione del fatto, o più in generale quelli preposti a disciplinare la successione nel tempo delle leggi penali, trovano invece il loro principale riferimento normativo nell’articolo 2 del codice penale.

2. Il principio costituzionale di irretroattività della legge penale e la retroattività della lex mitior.

Il primo aspetto saliente relativo alla successione delle leggi penali nel tempo riguarda il principio costituzionale di irretroattività delle leggi sfavorevoli, fissato, come detto, nell’articolo 25 comma 2 della Costituzione. Si tratta di un principio molto importante all’interno dell’ordinamento giuridico e che al contempo rappresenta anche un fondamentale principio di civiltà, in quanto prevede che la norma penale sfavorevole non possa essere applicata rispetto a fatti che siano stati commessi prima della sua entrata in vigore e dunque afferma che rispetto ad un fatto commesso in un determinato momento storico, non sia possibile applicare una successiva disciplina penale sfavorevole. Il principio di irretroattività risponde dunque ad una ratio di garanzia, più che di certezza del diritto, ossia è preordinato alla necessità di assicurare all’individuo la preventiva valutabilità delle conseguenze penali della propria condotta, garantendo perciò effettività alla libertà di auto-determinazione della persona.

Il disposto del comma 2 dell’articolo 25 Cost. dunque fa un passo ulteriore rispetto a quanto previsto ai sensi dell’articolo 2 comma 1 del codice penale, il quale si limita ad affermare che non possa essere punito un fatto che, secondo la legge penale del tempo in cui fu commesso, non costituisce reato[1].

Se relativamente all’irretroattività delle leggi penali sfavorevoli l’affermazione costituzionale è più forte e decisa di quella codicistica, non può dirsi altrettanto della retroattività della legge penale più favorevole, principio non presente nell’articolo 25 Cost. e dunque non costituzionalizzato, ma inserito unicamente nel comma secondo dell’articolo 2 del codice penale. 

In relazione all’affermazione del principio di retroattività della lex mitior si è più volte espressa, anche di recente, la Corte Costituzionale, ribadendo in diverse occasioni che alla retroattività stessa non venga riconosciuta la tutela privilegiata di cui all’articolo 25 comma 2 Cost. e che, in presenza di una sufficiente ragione giustificatrice, sia contemplabile la possibilità di eventuali deroghe a questo principio da parte della legislazione ordinaria, laddove sia necessario far prevalere il principio di uguaglianza e di parità di trattamento di cui all’articolo 3 della Costituzione[2]. Infatti, se di regola facendo riferimento all’articolo 3 Cost., risulta irragionevole punire un fatto previsto come reato nel momento in cui è stato commesso, ma non più qualificato come tale nel momento in cui viene giudicato, perché vi sarebbe una disparità di trattamento contrastante proprio con il principio di uguaglianza, la violazione dell’articolo 3 Cost. non sembra invece essere riscontrabile quando la diversità di trattamento trovi in concreto una ragione giustificatrice apprezzabile.

3. La successione delle leggi penali nell’art. 2 c.p. e le questioni interpretative sorte in relazione ad esso.

Se dunque il principio di irretroattività, caratterizzante la legge penale rispetto agli altri rami dell’ordinamento, nei quali invece vige il principio del tempus regit actum[3], è affermato nell’articolo 2 comma 1 c.p. e ribadito con forza nell’articolo 25 comma 2 Cost., per cui non sembra destare particolari problemi interpretativi, diverse sono invece le ipotesi che necessitano di analisi riguardanti tutti gli altri possibili aspetti della successione delle leggi penali nel tempo. In particolare si vuol fare riferimento all’abolitio criminis di cui al comma 2, alla mera successione modificativa di cui al comma 4, all’abolitio criminis  parziale, ai casi in cui oggetto del fenomeno successorio siano i decreti legge non convertiti o convertiti con emendamenti di cui all’ultimo comma del medesimo articolo 2 c.p., alle ipotesi di successione mediata delle fattispecie incriminatrici (anche definita successione di leggi integratrici della norma penale) ed infine alla c.d. abrogatio sine abolitio, tutte ipotesi che sono state affrontate dalla dottrina, nonché dalla giurisprudenza, la quale ha indicato in alcune importanti sentenze, soprattutto della Corte di Cassazione, le linee guida da seguire in presenza di questa svariata casistica relativa al fenomeno successorio penale.  

3.1. Criteri di applicazione dei commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p. anche alla luce della sentenza Giordano del 2003: abolitio criminis, successione ed abrogazione parziale.

Volendo passare ad un breve esame della disciplina dettata dall’articolo 2 c.p., che per l’appunto regola la successione delle leggi penali nel tempo, e di conseguenza alle problematiche ad esso collegate, va detto innanzitutto che ad occuparsi dell’ipotesi opposta a quella di cui al comma 1, ossia quella in cui un fatto, che nel momento in cui è stato commesso, costituiva reato, ma che secondo la legge vigente al momento del giudizio, non rientra più in una fattispecie incriminatrice e quindi non costituisce più reato, è il comma 2, ove si stabilisce che in questo caso il fatto non possa essere punito. Si tratta quindi di un’ipotesi di abolitio criminis, rispetto alla quale viene dunque affermato il principio di retroattività della legge penale favorevole e rivive il principio del tempus regit actum. Il comma 2 dell’articolo 2 c.p. aggiunge inoltre che in caso vi sia stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali e quindi l’efficacia della nuova norma può dirsi iper-retroattiva, in quanto capace di travolgere anche il giudicato penale.

Collegato ai primi due commi dell’articolo 2 c.p., il comma 4 detta invece la regola vigente nel caso in cui vi sia una mera ipotesi modificativa in senso favorevole, ossia quando la legge del tempo in cui fu commesso il reato e quelle successive siano diverse. In questa ipotesi di successione modificativa in melius, si applica la legge le cui disposizioni siano più favorevoli al reo, con il limite però della sentenza passata in giudicato, nel qual caso la disposizione più favorevole non può essere applicata.

La regola di cui al comma 4 articolo 2 c.p. ha dato luogo ad una serie di dibattiti e di questioni abbastanza complesse, perché per poterla applicare è necessario innanzitutto stabilire se vi sia stata abrogazione della fattispecie incriminatrice o mera successione di leggi in senso favorevole al reo, ed inoltre individuare quale sia effettivamente la legge più vantaggiosa.

In ordine a questo secondo aspetto, giurisprudenza e dottrina[4]sembrano ormai concordi nell’affermare che siano due i criteri su cui si debba fondare tale valutazione: in primo luogo l’individuazione della fattispecie più favorevole va effettuata considerando la normativa nel suo complesso e non mettendo insieme parti di norme diverse, secondo poi l’indagine deve essere svolta in concreto[5]ed in modo oggettivo, prescindendo quindi da quello che può essere l’interesse dell’imputato, condizionabile da contingenze personali.

In ordine al primo aspetto, per stabilire se ci si trovi in presenza di un’abrogazione o di una successione modificativa e quindi se la disciplina da applicare sia rispettivamente quella di cui al comma 2 o 4, si sono contrapposti nel tempo a livello giurisprudenziale (finché le Sezioni Unite della Corte di Cassazione non hanno dato un’indicazione vincolante in tal senso) due criteri[6]: il primo c.d. di continuità del tipo di illecito, in virtù del quale vi sarebbe continuità e quindi mera successione modificativa, quando il nucleo dell’illecito, riferibile essenzialmente all’interesse protetto e alle modalità dell’offesa, resta uguale[7]; il secondo c.d. della continenza o strutturale o formale, in virtù dl quale si dovrebbe ravvisare continenza, e di conseguenza successione e non abrogazione, quando la nuova fattispecie più favorevole, di carattere specializzante, sia interamente contenuta nella precedente e quindi, non potendo vigere entrambe contemporaneamente, si deve applicare la fattispecie speciale, ai sensi dell’articolo 15 c.p.[8].

Se il primo criterio è stato più volte criticato per il fatto di non fornire risultati certi, trattandosi di un criterio meramente valutativo, ad assicurare maggiore incisività al criterio strutturale e ad imporlo come regola da utilizzare nella disamina dei casi di successione di leggi penali nel tempo, è stata la Corte di Cassazione con una ormai famosa sentenza delle Sezioni Unite, la sentenza Giordano del 2003[9], in cui appunto la Corte, dopo aver esaminato, in modo articolato, gli aspetti teorici della questione, stabilì che, per individuare quale sia la legge più favorevole da applicare al caso concreto, sia necessario utilizzare il criterio c.d. strutturale, a cui si affida anche la risoluzione della questione relativa al riconoscere e distinguere le ipotesi di abrogazione o successione meramente modificativa.

Nel caso in cui dal fenomeno successorio derivi abrogazione della fattispecie incriminatrice anteriore, va applicata la disciplina di cui al comma 2 dell’articolo 2 c.p., trattandosi di fatti non più punibili. Viceversa, restano punibili come reati i fatti commessi sotto la vigenza della fattispecie precedente e che tuttavia rientrino anche nelle disposizioni più recenti, con conseguente applicazione del comma 4, in virtù del quale la valutazione da farsi sarà quella relativa a quale delle due discipline sia la più favorevole, sulla base dei criteri in precedenza esposti.

Dalla sentenza Giordano emerge dunque come i commi 2 e 4 dell’articolo 2 c.p. operino congiuntamente e questo rapporto, unitamente all’applicazione del criterio strutturale, serve anche a risolvere i casi in cui dalla successione di leggi penali nel tempo, derivi un’abrogazione parziale della fattispecie incriminatrice, detta appunto abolitio criminis parziale. Si tratta di una fenomenologia verificantesi laddove ad una fattispecie incriminatrice di ampia portata e quindi a carattere generale, faccia seguito una fattispecie speciale, che parzialmente abroghi la precedente, non prevedendo più come reati alcuni fatti qualificati come tali dalla prima. In questo caso opera un doppio regime: vi è infatti abrogazione parziale dei fatti non più previsti come reati dalla fattispecie speciale, con conseguente applicazione della disciplina di cui al comma 2, mentre vi è mera successione per i fatti che costituiscono reato sia ai sensi della nuova che della precedente normativa, con conseguente applicazione della disciplina della legge più favorevole di cui al comma 4[10].

3.2. L’abrogatio sine abolitio nella sentenza Rizzoli del 2009.

Altra questione molto importante, inerente al fenomeno successorio e ai rapporti tra fattispecie incriminatrici succedutesi tra loro, analizzata dalla casistica giurisprudenziale e anche in questo caso finita al vaglio delle Sezioni Unite della Cassazione, è quella della c.d. abrogatio sine abolitio.

Si parla di abrogatio sine abolitio quando la formale abrogazione di una disposizione incriminatrice o di una sua porzione, non comporti l’integrale o parziale abolizione della rilevanza penale delle condotte in essa tipizzate. Ne consegue dunque che l’abrogazione, in questo caso, sia un fenomeno meramente formale, stante la persistente illiceità penale di tutte o solo di alcune delle tipologie di condotte punite dalla previgente disposizione. In sintesi i fatti previsti come illeciti dalla fattispecie abrogata, non vengono eliminati, aboliti appunto, dall’ordinamento.

Di norma questo fenomeno presuppone un rapporto di genere a specie tra le due fattispecie oggetto della successione e nel momento in cui interviene l’abrogazione della norma speciale, si riespande la portata applicativa della norma generale, ricomprendendo anche i fatti tipici riconducibili alla norma speciale abrogata. Si produce dunque un fenomeno di successione modificativa riconducibile alla disciplina del comma 4 dell’articolo 2 c.p., in cui la norma generale, già esistente durante la vigenza della norma speciale, ma non applicabile alla luce del principio della specialità di cui all’articolo 15 c.p., diviene applicabile alla vicenda da giudicare solo successivamente, a seguito dell’abrogazione della legge speciale.

Questa tematica dell’abrogatio sine abolitio è stata oggetto di un’importante sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, la c.d. sentenza Rizzoli del 2009[11], in cui la Corte ha fissato, quale regola di principio, la necessità di valutare non solo se il testo di legge sia stato abrogato, ma anche di verificare, sempre sulla base del criterio strutturale, che nel sistema non vi sia un’altra norma di portata più generale che possa riespandere il proprio campo di applicazione. A seguito di questa analisi, secondo la Corte, si dovrà optare per una vera e propria abolitio criminis, laddove le due fattispecie siano strutturalmente eterogenee, con conseguente applicazione del comma 2, o per una abrogatio sine abolitio, rientrante nella disciplina del comma 4, quando le due fattispecie siano in rapporto perfetto di genere a specie.

3.3. La successione delle norme integratrici della legge penale alla luce della sentenza Magera del 2007 e Niccoli del 2008.

Infine, una tematica specifica nell’ambito del più generale fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, anche questa vagliata più volte dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è quella della successione di leggi integratrici della norma penale, che a detta di almeno una parte degli interpreti, è più opportuno definire successione mediata di fattispecie incriminatrici o successione di leggi richiamate dalla norma penale, in quanto non tutte le norme richiamate dalla norma penale possono anche definirsi integratrici, bensì solo quelle che incidono sulla struttura della stessa o sul giudizio di disvalore in essa contenuto, in questo modo provocandone un cambiamento laddove esse stesse siano oggetto di modifica.

Come accennato, dal momento che per sua natura la norma penale necessita spesso di richiami esterni ad altre norme, penali ed extra-penali, tale questione è stata più volte oggetto di dibattito e la giurisprudenza ha fornito nel corso del tempo svariate soluzioni (in base al caso concreto) alla problematica scaturente da questo fenomeno, ossia quella dell’incidenza dell’eventuale modifica della norma richiamata su quella penale richiamante. In particolare, legato al fenomeno della successione delle leggi penali, si è posto il problema del cambiamento in senso favorevole, se non addirittura abrogativo dei fatti previsti e ci si è chiesti se, nel caso di modifica della norma richiamata, in virtù della quale modifica un fatto previsto come reato non sia più tale, si debba applicare l’articolo 2 c.p., come se il cambiamento avesse riguardato la norma incriminatrice, o si tratti invece di un cambiamento relativo ad un elemento esterno ad essa e di conseguenza l’articolo 2 c.p. non possa trovare applicazione.

La molteplicità di versioni giurisprudenziali si è ad un certo punto incanalata in un’univoca soluzione alla questione, fornita anche in questo caso dalla Cassazione con la fondamentale sentenza delle Sezioni Unite del 2007, c.d. Magera[12], nella quale la Suprema Corte ha affrontato in maniera organica (come già fatto, ed anche in piena sintonia con essa, nella sentenza Giordano) la tematica, fornendo un’indicazione di soluzione per il futuro, in modo da svincolare la giurisprudenza di merito dall’analisi caso per caso.

Prendendo le mosse dalla sentenza Giordano appunto, nella sentenza Magera (il cui caso concreto riguardava fatti di reato commessi da un cittadino rumeno che all’epoca degli stessi era extra-comunitario e come tale quindi assoggettabile alle disposizioni del T.U. sull’Immigrazione[13]e che in seguito all’entrata della Romania nell’Unione Europea era diventato invece cittadino comunitario), le Sezioni Unite hanno innanzitutto nuovamente affermato la necessità di adottare il criterio strutturale astratto nel cercare la soluzione a questo tipo di problematiche, respingendo per l’ennesima volta con fermezza il criterio del fatto concreto, portando a sostegno della propria posizione tutta una serie di esempi derivanti dalla casistica giurisprudenziale, in cui l’applicazione del criterio del fatto concreto porterebbe a soluzioni paradossali, dal momento che esso non tiene conto del fatto che il fenomeno successorio vada spiegato alla luce dell’avvicendamento delle fattispecie astratte[14]

In ossequio a questa impostazione, le Sezioni Unite hanno ribadito appunto la necessità di fare riferimento alla fattispecie astratta per verificare se la norma extra-penale modificata, svolga un ruolo tale da far ritenere, pur essendo la norma incriminatrice richiamante la stessa rimasta immutata, che la fattispecie risultante dal collegamento tra le due sia cambiata e, alla luce di ciò, il fatto non sia in parte più previsto come reato. Si tratterebbe di un’ipotesi assimilabile all’abrogazione parziale della fattispecie incriminatrice, la quale però può ritenersi operante solo nel caso in cui la norma extra-penale richiamata possa essere considerata integratrice della norma penale stessa. Cosa che invece, nel caso di specie, non è stato ritenuto essere avvenuto dalla Suprema Corte, la quale ha ravvisato nelle modifiche normative derivanti dalla ratifica del trattato di adesione della Romania all’Unione europea, il mero mutamento di una situazione di fatto, incidente sullo status del soggetto che prima di esse era extracomunitario e in seguito è diventato cittadino comunitario, senza che però fosse mutata la definizione di “straniero” e che quell’eventuale nuova norma definitoria fosse incorporata nella norma penale.

Nella sentenza Magera, la Corte di Cassazione quindi in linea di principio afferma innanzitutto come non tutte le norme richiamate dalla norma extra-penale possano definirsi integratrici e dunque quelle che non lo siano, non possano dar luogo ad un fenomeno di successione, come accade nel caso di specie, nel quale si può rinvenire solo un mero mutamento di una situazione di fatto e non un cambiamento della legge penale. 

In secondo luogo, altra affermazione importante derivante da questa sentenza è quella secondo cui il criterio strutturale vada applicato non solo in caso di successione di leggi penali, ma anche nel caso di successione di leggi richiamate dalla norma penale.

Infine, ulteriore considerazione degna di nota della Corte, è quella secondo cui, se è vero che per le norme penali di favore, la retroattività ex articolo 2 comma 2 c.p. rappresenta la regola, per le norme extra-penali, alla luce di quanto previsto dall’articolo 11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale, l’efficacia retroattiva deve rappresentare l’eccezione, applicabile alla norma extra-penale richiamata solo ove la stessa sia anche norma integratrice della fattispecie penale. A detta della Corte, laddove la modifica della norma extra-penale, di per sé non retroattiva, desse luogo ad un’abolizione della fattispecie di reato ai sensi dell’articolo 2 comma 2 c.p., la stessa abolizione si risolverebbe di fatto, nel caso di specie, in un trattamento uguale di situazioni diverse, andando così a contrastare il fondamentale principio di uguaglianza e parità di trattamento di cui all’articolo 3 Cost..

In riferimento alle modifiche di norme richiamate dalle leggi penali, va rammentato tra l’altro come le Sezioni Unite della Cassazione giungano alla medesima soluzione nell’ambito della sentenza Niccoli del 2008[15](relativamente alla modifica della definizione legale di piccolo imprenditore a seguito della Riforma dei reati societari di cui al Decreto Legislativo n. 5/2006). Si rileva quindi come la Corte abbia da allora mantenuto la sua posizione emersa dalla sentenza Magera, non curandosi delle critiche che sono state rivolte a quest’ultima pronuncia, apprezzata sì dal punto di vista teorico in quanto supportata da una motivazione molto convincente e strutturata, ma non altrettanto sotto il profilo delle conseguenze[16]. Resta comunque, ad oggi, un punto fermo della giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione del fenomeno successorio penale.

Diversamente dal caso analizzato relativamente alla sentenza Magera, ipotesi giurisprudenziali di modifiche mediate alla fattispecie incriminatrice che invece diano luogo a un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, sono rappresentate senza dubbio dalle norme penali in bianco, nelle quali, come noto, il precetto deve essere integrato da una norma extra-penale e quindi l’eventuale modifica in senso favorevole della stessa, comporta una parziale abolitio criminis della norma penale.

Allo stesso modo, anche nel caso la fattispecie incriminatrice faccia richiamo a disposizioni definitorie extra-penali.

Un ulteriore aspetto relativo alla successione delle leggi penali nel tempo riguarda la previsione di cui all’ultimo comma dell’articolo 2 c.p., che estende l’applicabilità delle disposizioni dei commi precedenti anche ai casi di decreti legge non convertiti o convertiti con emendamenti, norma dichiarata poi incostituzionale con sentenza n. 51/1985 per incoerenza con il vigente ordinamento costituzionale. 

La disposizione di cui all’ultimo comma aveva infatti ragione d’essere nel codice del 1930 in un sistema in cui i decreti legge non convertiti perdevano efficacia ex nunc, mentre una volta entrata in vigore la Costituzione, ai sensi dell’art 77 della medesima, si è previsto che i decreti legge non convertiti perdessero efficacia ex tunc

4. Il tempus commissi delicti nei vari tipi di reato.

Il fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo è collegato e viene in rilievo anche in relazione alla determinazione del tempus commissi delicti nei vari tipi di reato, soprattutto nei casi in cui vi sia discrasia temporale tra perfezionamento, riscontrabile quando il fatto di reato possa ritenersi tipico, antigiuridico e colpevole, e consumazione, ove per essa si intende che il reato già perfetto, abbia raggiunto la sua massima gravità, esaurendo integralmente l’offesa idonea a scaturire dallo stesso.

Seguendo un consolidato orientamento dottrinale, a cui ha aderito anche la giurisprudenza di legittimità[17], “l’individuazione del tempus commissi delicti non può essere delineata in termini generalizzanti, ma va riferita ai singoli istituti e ricostruita sulla base della ratio di ciascuno di essi e dei principi che li governano”. 

Il tema del tempus commissi delicti si collega a quello della successione delle leggi penali, perché in relazione ad esso (e non solo), genera dei problemi applicativi che sono stati oggetto di dibattito sia dottrinale sia giurisprudenziale.

Innanzitutto contrasti interpretativi si sono riscontrati in riferimento all’individuazione del tempo del commesso reato nei reati di mera condotta e in quelli di evento.

In tal senso le teorie che si sono fatte strada sono state principalmente tre: la prima, per individuare il momento della commissione del fatto di reato, utilizza il criterio della condotta, e quindi il segmento temporale in cui si è verificata l’azione o l’omissione; la seconda individua il tempus commissi delicti nel realizzarsi dell’evento; ed infine la terza, definita mista, per la quale il reato si considera commesso nel momento della condotta o dell’evento, a seconda di quale dei due sia più o meno favorevole al reo.

La dottrina sembra essere abbastanza concorde nel preferire, per la determinazione del tempo di commissione del reato, il criterio della condotta, in forza del quale, nel caso di successione di leggi penali diverse tra loro, il reato si considera commesso sotto la vigenza della legge in vigore nel momento in cui sono state poste in essere l’azione o l’omissione, essendo questo il momento in cui il soggetto si pone in contrasto con la norma penale; alla luce di ciò dovrebbe essere questa la legge applicabile a quel determinato fatto di reato.

La giurisprudenza maggioritaria non sembra invece essere concorde nel prediligere questo criterio per la determinazione del tempus commissi delicti, preferendo invece individuare nel verificarsi dell’evento, il momento in cui il reato si perfeziona e si consuma, criterio che ad avviso giurisprudenziale sarebbe in grado di offrire maggiore certezza[18].

A conferma di ciò, la giurisprudenza predilige il criterio dell’evento anche nella determinazione del tempus commissi delicti nei reati omissivi, ove la questione si pone soprattutto in ordine a quelli impropri, nei quali, a differenza di quelli propri, può essere meno agevole la determinazione del momento del perfezionamento e della consumazione. In essi, l’opinione giurisdizionale prevalente tende a far risalire il tempo del commesso reato al termine entro il quale il soggetto attivo del reato avrebbe dovuto adempiere all’obbligo giuridico di facere.

In tutti questi casi la determinazione del momento in cui il reato possa dirsi commesso è ovviamente ricollegabile al fenomeno successorio, proprio perché, nello stabilire quale disciplina applicare qualora vi sia successione di leggi diverse, è a quel momento che è necessario fare riferimento. 

Un ambito che ha interessato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale è stato quello attinente la distinzione dei reati istantanei e di durata.

Nei reati c.d. istantanei, ossia quei reati in cui la condotta è per l’appunto istantanea e la sua attuazione determina la massima soglia dell’offesa, sicché il momento del perfezionamento e della consumazione vengono a coincidere, oltre a verificarsi in un arco di tempo breve e determinato, non sorgono particolari problemi. Altrettanto non può dirsi in ordine ai c.d. reati di durata, ossia quei reati che si manifestano in un periodo di tempo prolungato ed indeterminato e che sono classificabili in tre principali categorie: reati abituali, reati permanenti e reati a consumazione frazionata. Rispetto ad essi infatti, soprattutto in ordine alla tematica della successione delle leggi penali nel tempo, il dibattito interpretativo è stato vivace e in diverse occasioni la giurisprudenza ha affrontato la questione. 

Nei reati abituali, caratterizzati dalla reiterazione nel tempo di condotte analoghe o della stessa specie, la punibilità è subordinata al fatto che il soggetto attivo ponga in essere non un unico atto aggressivo del bene giuridico tutelato, ma più atti simili, reiterando in tal modo la condotta (ne costituiscono esempi tipici: i maltrattamenti in famiglia, il reato di stalking, ecc.). 

In riferimento alla determinazione del tempo di commissione del reato, per queste fattispecie l’impostazione teorica più seguita è quella che considera decisivo il momento in cui l’ulteriore condotta si aggiunge alle precedenti, spostando in avanti la consumazione al cessare di tale reiterazione.

Quanto ai problemi che possono sorgere riguardo ai reati abituali per un’eventuale fenomeno di successione temporale di leggi penali, la giurisprudenza non ha rilevato problematicità nel caso in cui al primo atto sopravvenga una norma abrogativa, in quanto in tal caso, in forza del principio di retroattività della legge favorevole (articolo 2 comma 2 c.p.), essa viene applicata anche alle fattispecie in cui l’ultimo atto reiterato sia stato posto in essere in vigenza della medesima norma abolitiva. 

Parimenti si escludono complicazioni nel caso di sopravvenienza di una norma meramente modificativa in melius, sotto la vigenza della quale si compia l’ultimo atto consumativo del reato.

Maggiori problemi invece possono porsi nel caso di sopravvenienza di una norma incriminatrice, poiché in queste ipotesi è necessario verificare in concreto a quali condizioni sia applicabile la nuova norma. Come asserito dalla giurisprudenza maggioritaria, in questi casi bisogna fare attenzione a non violare il principio di irretroattività rispetto a condotte che, nel momento in cui sono state poste in essere, non avevano rilievo penale o non rientravano in quel minimum di reiterazione richiesta, per la punibilità del reato abituale, dalla nuova norma incriminatrice sfavorevole.

Seconda categoria di reati di durata è rappresentata dai reati permanenti, ossia quei reati in cui la tipicità del fatto postula il perdurare in essere della condotta offensiva dell’agente ed in cui quindi la consumazione si protrae nel tempo, per volontà cosciente dell’agente stesso (esempio tipico: il sequestro di persona). 

Relativamente a questa categoria di reati, sotto il profilo della successione di leggi penali, si è posto il problema soprattutto circa l’applicabilità della norma sfavorevole dopo l’instaurarsi della situazione lesiva del bene giuridico tutelato.

La casistica giurisprudenziale in relazione ad essi è stata interessante soprattutto in ordine al tema dell’immigrazione e alle fattispecie di reato previste nell’omonimo T.U.[19]

I reati di immigrazione infatti sono fattispecie per lo più inerenti la trasgressione di un ordine amministrativo e la cui consumazione ha inizio allo scadere del termine previsto nel provvedimento stesso, per protrarsi fintanto che perdura la condotta e quindi l’atto dell’autorità pubblica non venga rispettato, in questi casi coattivamente, a seguito dell’arresto dei trasgressori. 

Riguardo a questi reati c.d. d’immigrazione, il problema si è posto nel momento in cui, da fattispecie contravvenzionali, nel 2004 il legislatore li abbia resi delitti, inasprendo conseguentemente le sanzioni. Si è verificata dunque un’ipotesi di successione di leggi penali, a fronte della quale, nei casi in cui i soggetti extra-comunitari avessero ricevuto l’ordine di allontanamento dal territorio italiano durante la vigenza della fattispecie contravvenzionale, per poi essere arrestati nel momento in cui il fatto veniva qualificato come delitto, si è posto il problema di quale delle due discipline andasse loro applicata, se quella che prevede la versione contravvenzionale del reato e che era vigente nel momento in cui ha avuto inizio la consumazione del reato stesso o se invece la disciplina che prevede la versione delittuosa del fatto, vigente al momento dell’arresto.

La giurisprudenza di Cassazione in tal senso è stata oscillante e la maggior parte delle sentenze, ai fini della determinazione del tempus commissi delicti e della conseguente disciplina applicabile, ha visto prevalere la versione delittuosa, sulla base del presupposto che, trattandosi di reato permanente, la consumazione definitiva dello stesso vada ravvisata nel momento dell’arresto, che determina la cessazione dello stato volontario di trasgressione della condotta punita. In conseguenza di ciò, la norma da applicare in questo caso non è quella contravvenzionale più favorevole, ma quella che prevede il trattamento di maggior rigore. Secondo questo orientamento giurisprudenziale, in tal modo non si andrebbe a violare il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole perché, se è vero che quest’ultimo vieta di applicare una norma peggiorativa ad un fatto commesso prima dell’entrata in vigore della nuova legge, in questo caso la norma sfavorevole sopravvenuta verrebbe invece applicata ad un fatto ancora in itinere nel momento in cui la nuova legge ha trovato applicazione.

Di diverso avviso invece parte della dottrina e una parte minoritaria della giurisprudenza della Cassazione, che in altre sentenze, ponendosi proprio il problema del rispetto del principio di irretroattività di cui all’articolo 25 comma 2 Cost., ha dichiarato applicabile la norma contravvenzionale e quindi il trattamento sanzionatorio più mite, sulla base del presupposto che, ai fini della determinazione del tempo del commesso reato, sia necessario considerare il momento in cui possa dirsi perfezionato lo schema legale del reato, e dunque, nel caso di specie, il momento in cui sia trascorso il termine fissato nel provvedimento amministrativo per l’allontanamento, quindi quello del perfezionamento della fattispecie, e non quello dell’arresto, in cui avviene la consumazione definitiva. In base a questa impostazione infatti in caso contrario si violerebbe il principio di irretroattività.

Infine, terza categoria di reati di durata è quella dei reati c.d. a consumazione/condotta frazionata, ossia quei reati in cui l’offensività è ripartita in singoli segmenti di condotta che, complessivamente intesi, integrano la lesione del bene giuridico tutelato, e che quindi si prestano ad una reiterazione nel tempo del mantenimento o aggravamento della situazione offensiva. Si ritiene, per opinione giurisprudenziale prevalente, che per stabilire il tempus commissi delicti, si debba fare riferimento all’ultimo atto, poiché è quest’ultimo a fissare il momento definitivo della condotta penalmente rilevante.

Alcuni problemi interpretativi sono sorti anche in ordine alla determinazione del momento di commissione del reato in riferimento ad altri tipi di fattispecie, come nel caso di reato continuato di cui all’articolo 81 cpv. c.p.. In tal caso, sembra prevalere la tesi secondo cui è necessario considerare singolarmente i vari reati in base al diverso tempus in cui sono stati posti in essere, poichè il medesimo disegno criminoso non comporta di per sé la natura unitaria dei vari fatti di reato[20].

5. Il tempus commissi delicti nei reati ad evento differito, in rapporto alla successione delle leggi penali nel tempo, in ossequio alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 40986/2018.

Infine va segnalato un recente intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 40986/2018, si sono espresse in merito alla questione del tempus commissi delicti nei reati c.d. ad evento differito in rapporto alla successione delle leggi penali.

Per reati ad evento differitosi intendono tutte quelle fattispecie in cui, tra la realizzazione della condotta tipica ed il verificarsi dell’evento, vi sia una significativa distanza temporale (esempi tipici sono quelli dei sinistri stradali in cui la morte della vittima avvenga dopo diversi mesi di agonia o quelli delle malattie professionali a cui faccia seguito la morte della persona a distanza di tempo).

La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite riguardava la necessità di stabilire quale fosse la disciplina da applicare, tra quella vigente al momento della condotta o quella vigente al momento dell’evento, qualora, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole, l’evento fosse intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, sia ove quest’ultima rappresentasse una nuova incriminazione, sia ove prevedesse l’inasprimento sanzionatorio di un fatto già previsto come reato dalla legge precedente.

In merito a questa questione, la giurisprudenza di legittimità aveva avuto un duplice orientamento: in alcune sentenze aveva ritenuto applicabile la legge penale sfavorevole in vigore al momento dell’evento, identificando in quest’ultimo il tempus commissi delicti; in altre, all’opposto, aveva fissato il tempo della commissione del reato nel momento della condotta, ritenendo fosse questa la migliore soluzione in conformità al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole.

Le Sezioni Unite, con la pronuncia del luglio 2018, hanno avvallato il secondo orientamento, affermando che rispetto alla questione di principio sollevata, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta. 

Nel caso di specie era stata emessa una sentenza di condanna a carico di un automobilista per aver causato l’investimento di un pedone, da cui era derivata la morte di quest’ultimo a distanza di alcuni mesi. All’autore del reato era stata però attribuita, anziché la disciplina vigente al momento dell’incidente, ossia quella dell’omicidio colposo aggravato dalla violazione del codice stradale, la commissione dell’omicidio stradale, con conseguente applicazione della relativa norma incriminatrice più severa, essendo questa disciplina entrata in vigore medio tempore, prima del verificarsi dell’evento lesivo della morte del pedone. Da qui il ricorso in Cassazione e la rimessione alle Sezioni Unite della questione.

A sostegno dell’applicazione del criterio della condotta ai fini della determinazione del tempus del reato, la Corte fa leva principalmente su due argomentazioni: innanzitutto ritiene debba guardarsi a quella che è la ratio di garanzia del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole che, come detto in precedenza, deve sostanziarsi in “un’istanza di preventiva valutabilità da parte dell’individuo delle conseguenze penali della propria condotta, istanza, a sua volta, funzionale a preservare la libera autodeterminazione della persona”, ed in tal senso individua nella condotta il momento più adeguato a garantire la “calcolabilità” delle conseguenze penali, quando invece riferire l’operatività del principio di irretroattività al momento del verificarsi dell’evento comporterebbe l’applicazione retroattiva della legge sopravvenuta sfavorevole, con il conseguente ed “inevitabile svuotamento dell’effettività della garanzia di autodeterminazione della persona” e della stessa “ratio di tutela del principio costituzionale di irretroattività[21].

In secondo luogo, secondo la visione offerta dalle Sezioni Unite in questa pronuncia, il criterio della condotta per la determinazione del tempus del reato andrebbe preferito anche in ragione delle funzioni della pena, rispettivamente quella general-preventiva, la quale può esplicarsi soltanto nel momento in cui il soggetto pone in essere la condotta appunto, e quella rieducativa.

Le Sezioni Unite sembrano poi cogliere l’occasione di questa pronuncia per chiarire, alla luce delle ragioni poste a fondamento dell’adesione al criterio della condotta ed a prescindere da quelli che possono essere stati gli orientamenti giurisdizionali precedenti, come debba essere individuato il tempus commissi delicti nei reati di durata o comunque nei reati caratterizzati da una proiezione dell’iter criminis nel tempo.

Relativamente al reato permanente, la Suprema Corte ribadisce che si debba avere riguardo alla cessazione della permanenza, in quanto il protrarsi della condotta sotto la vigenza della nuova legge più sfavorevole, assicura la calcolabilità delle conseguenze penali della condotta stessa, precisando però come sia necessario che sotto la vigenza della legge più severa si siano realizzati tutti gli elementi previsti dalla fattispecie incriminatrice per quel fatto.

Circa il reato abituale, le Sezioni Unite rilevano che in linea di principio si deve fare sì riferimento alla realizzazione dell’ultima condotta tipica integrante il fatto di reato, però in caso di nuova incriminazione, l’applicazione della sopravvenuta legge sfavorevole, debba essere subordinata al presupposto che, dopo l’introduzione della nuova fattispecie sfavorevole, si siano realizzati tutti gli elementi costitutivi del reato stesso[22].

L’importanza di questa pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione sta dunque innanzitutto nell’aver chiarito come la determinazione del tempus del reato debba essere messa in relazione con le specifiche finalità della disciplina della successione delle leggi penali nel tempo, riportate alla luce dalla Corte stessa attraverso le considerazioni, prima enunciate, che vedono il criterio della condotta legarsi alla stessa ratio dell’articolo 25 comma 2 Cost., al fine di garantire la calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali delle condotte degli individui.

In secondo luogo, la rilevanza della sentenza del 2018 si può rinvenire nell’aver chiarito con fermezza come la nozione di tempo del commesso reato non possa essere considerata unitaria, ma vada modulata a seconda, non solo della tipologia di reati in oggetto, ma anche della funzione degli istituti al quale deve essere applicato. Così, diversa sarà infatti l’individuazione del tempus commissi delicti ai fini ad esempio della prescrizione del reato piuttosto che della successione delle leggi penali nel tempo, in quanto diverse sono le ratio degli istituti stessi ed i principi ad essi sottesi.

Note e riferimenti bibliografici

[1]Sulla centralità del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole nel nostro ordinamento penale, quale garanzia inderogabile per i consociati nonché “fondamentale principio di civiltà giuridica”, la Corte Costituzionale si è espressa in diverse pronunce, tra le quali, le più importanti sono state: sent. n. 148/1983; sent. n. 364/1988; sent. n. 393 e 394/2006 e sent. n. 236/2011.

[2]Si fa qui riferimento, in particolare, alle recenti pronunce della Corte Costituzionale: sent. n. 393 e 394/2006; sent. n. 72/2008 e sent. n. 236/2011. 

[3]In virtù del principio del tempus regit actum, ogni atto è regolato dalla legge del tempo in cui esso si verifica e dunque l’effettività della legge è circoscritta al tempo in cui essa è in vigore. Tale brocardo, nel sintetizzare il principio appena enunciato, riunisce altresì i principi di irretroattività, secondo cui la norma giuridica non può essere applicata a fatti o rapporti sorti prima che la stessa entrasse in vigore, e di non ultrattività della legge, secondo il quale la norma giuridica non può trovare applicazione in relazione a fatti verificatesi dopo l’estinzione della medesima.

Tale principio ha particolare rilevanza in ambito processuale, poiché impone che una controversia giudiziale, non ancora passata in giudicato, debba essere decisa in base al diritto sopravvenuto in corso di causa.

[4]Per la Dottrina si veda tra tutti: PAGLIARO, La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. Pen., 1991, II, p. 1 e ss.; MANTOVANI, in Diritto penale, 1992, p. 87; per la Giurisprudenza di legittimità, si veda tra tutte, Cass., Sez. III, n. 4114/1996; Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2000.

[5]Al criterio secondo cui tale indagine debba essere svolta in concreto, si sono contrapposte le teorie in virtù delle quali la linea di demarcazione tra l’applicabilità del secondo e del quarto comma dell’art. 2 c.p. debba essere tracciata attraverso il confronto, da operarsi in astratto, tra le fattispecie normative considerate.

[6]Si tratta di criteri elaborati, nell’ambito della dottrina penalistica italiana, da Padovani nel 1982.

[7]Tra tutte le pronunce giurisprudenziali si veda: Cass., Sez. V, 21 maggio 2002, in Cass. Pen., 2002; Cass., 13 gennaio 2001, in Foro It. Rep., 2001, n. 32. 

[8]Per la Giurisprudenza di legittimità si veda, tra tutte: Cass., 10 febbraio 2000, in Foro It. Rep., 2000, n. 10; per la Dottrina, si veda: PADOVANI, Tipicità e successione di leggi penali. La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie incriminatrice e della sua sfera di applicazione nell’ambito dell’art. 2 commi 2 e 3, c.p., in Riv. it. dir. e procpen., 1982, p. 1354 e ss.; FIANDACA- E. MUSCO, in Diritto penale, parte generale, 2001, p. 72 e ss.

[9]Cass., Sez. Un., n. 25887 del 26 marzo 2003, Giordano.

[10]La sentenza Giordano del 2003 risolse il contrasto dottrinale e giurisprudenziale che si era generato in ordine al rapporto tra la precedente formulazione dell’art. 223 del R.D. n. 267/1042 e quella successiva alla riforma del reato di bancarotta fraudolenta commesso mediante reati societari, riforma attuata dal D. Lgs. n. 61/2002. 

Il caso concreto interessava infatti le modifiche apportate dalla riforma del 2002 all’art. 2621 c.c. e al sopracitato art. 223 L.F., che avevano fatto sorgere, in ambito dottrinale e giurisprudenziale, opinioni discordi in merito alla questione relativa al fatto che la vicenda modificativa potesse aver dato luogo ad un’abrogazione delle precedenti disposizioni o ad una mera successione di leggi nel tempo. Se infatti, in riferimento alla fattispecie di false informazioni sociali di cui all’art. 2621 c.c. (uno dei reati presupposti dell’illecito ex art. 223 L.F.), la Giurisprudenza aveva costantemente optato per la continuità normativa e quindi per rinvenire un fenomeno successorio, in relazione al reato di bancarotta (commessa mediante false informazioni sociali), si era invece aperto un ampio dibattito interpretativo in merito all’applicazione dell’art. 2 c.p., poiché se si fosse optato per la tesi dell’abrogazione, tutti i fatti di false comunicazioni sociali e di bancarotta commessi in ossequio alla disciplina vigente prima dell’entrata in vigore della riforma (di portata più ampia), con la vigenza della stessa non sarebbero stati più punibili; diversamente, optando per la tesi della successione di leggi penali, sarebbero rimasti punibili quei fatti commessi in precedenza suscettibili di rientrare anche nella disciplina dettata dalle nuove disposizioni incriminatrici, in quanto caratterizzati dagli elementi specializzanti previsti da queste ultime, essendosi venuto a creare tra le precedenti fattispecie e quelle post-riforma, un rapporto di genere a specie. 

Su questa questione dottrina e giurisprudenza si erano divise, nel senso che, secondo una prima opinione, la Riforma del diritto societario aveva modificato talmente tanto la normativa penale in materia societaria che si sarebbe creata una frattura netta tra il prima e il dopo, nel senso che la Riforma avrebbe avuto un effetto abolitivo delle precedenti fattispecie. Viceversa, secondo l’opinione opposta, si sarebbe trattato di un fenomeno di successione di leggi penali, in virtù del quale sarebbero rimasti punibili i fatti ricompresi anche dalle nuove fattispecie incriminatrici.

Le Sezioni Unite, al cui cospetto era stata rimessa la questione, peraltro a brevissima distanza temporale dall’entrata in vigore della Riforma del 2002, risolsero la medesima questione a favore dell’applicazione del criterio strutturale, concludendo per la continuità normativa, e quindi per il venire in essere del fenomeno successorio.

[11]Cass., Sez. Un., n. 24468 del 26 febbraio 2009, Rizzoli.

[12]Cass., Sez. Un., n. 2451 del 27 settembre 2007, Magera.

[13]D. Lgs. n. 286/1998.

[14]L’excursus argomentativo che portò le Sezioni Unite alle asserzioni di principio affermate nella sentenza in esame, partì dal caso di specie in cui al cittadino rumeno Magera era stato contestato il reato ex art. 14 comma 5 ter del D.Lgs. n. 286/1998, per non essersi allontanato dal territorio italiano a seguito dell’ordine emanato dal Questore ai sensi del comma 5 bis, nel momento in cui era cittadino extra-comunitario, per poi essere sottoposto a giudizio quando, a seguito dell’entrata della Romania nell’UE (e alla conseguente emanazione, da parte dell’Italia, della L. n. 16/2006 di ratifica del Trattato di adesione), era divenuto cittadino comunitario, ponendo quindi la questione interpretativa se dovesse trovare applicazione l’art. 2 c.p., con conseguente non punibilità del Magera o se invece la normativa penale fosse rimasta invariata, in virtù del fatto che il Trattato di adesione della Romania all’UE andasse considerato norma irrilevante ai fini penali.

Nel concludere che la modifica normativa che aveva determinato l’acquisizione della cittadinanza europea da parte dei cittadini rumeni non avesse inciso sulla fattispecie di cui all’art. 14 co. 5 ter T.U. Immigrazione con effetto retroattivo, ma avesse dato luogo solamente ad una modifica della situazione di fatto esistente e non della legge penale, le Sezioni Unite affermarono una serie di principi di massima, già enunciati nell’elaborato, facendo riferimento alla precedente casistica giurisprudenziale a sostegno delle proprie tesi, nonché, in alcuni passaggi, procedendo anche a contrario al fine di evidenziare l’incongruità delle soluzioni opposte.

La Suprema Corte, nell’asserire che non tutte le norme richiamate dalla legge penale possano considerarsi integratrici della stessa e quindi dare luogo ad un fenomeno successorio, portarono come esempio l’abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p., il quale richiede che la condotta punibile venga esperita in violazione di legge o di regolamento, attuando un rinvio alquanto ampio e generico, motivo per cui, a detta delle Sezioni Unite, non sarebbe possibile ritenere che qualsiasi modifica concernente questi fonti normative si rifletta sulla fattispecie di cui all’art. 323 c.p., per la cui punibilità la violazione della legge o del regolamento, rappresenta un requisito del fatto di reato, il quale, in quanto tale, una volta accaduto, non può subire modificazioni. Parallelamente, le Sezioni Unite conclusero che anche nel caso di specie si sarebbe verificato un mutamento del dato di fatto (Magera divenuto cittadino UE) e non della legge penale.

Altro riferimento esemplificativo utilizzato dalla Suprema Corte nel passaggio della pronuncia in cui asserì che l’efficacia retroattiva possa essere attribuita alla legge extra-penale solo nel caso in cui si tratti di norma integratrice di quella penale, è stato quello della modifica della nozione di minore età, attuata dalla L. n. 39/1975, a seguito della quale il limite della stessa venne spostato dai 21 ai 18 anni, escludendo di conseguenza la configurabilità del reato di sottrazione di minore qualora i fatti fossero stati commessi nei confronti di una persona di età compresa tra i 18 e i 21 anni. In tal caso infatti, la norma definitoria, ad avviso della Suprema Corte, sarebbe norma incorporata in quella penale, il che giustificherebbe l’applicazione dell’art. 2 c.p., con conseguente non punibilità dei fatti, prima invece qualificabili come reati.

Al fine di rafforzare le proprie posizioni, le Sezioni Unite della Cassazione, in questa pronuncia optarono anche per un’argomentazione a contrario, come anzidetto, evidenziando il fatto che, sulla base di un’interpretazione di segno opposto, si sarebbe potuta legittimare una situazione paradossale in quanto, considerato che il processo di entrata nell’UE è scadenzato nel tempo e preceduto da una fase regolamentata di pre-adesione, destinata a cessare con l’adesione vera e propria, si sarebbero potute creare delle situazioni in cui un soggetto, conscio del fatto che il proprio Stato fosse in fase di pre-adesione, si sarebbe sentito legittimato a commettere fatti di reato (punibili se posti in essere da cittadini extra-comunitari), in quanto già consapevole del fatto che non sarebbe stato poi condannato in un giudizio tenutosi una volta già divenuto cittadino dell’UE. 

[15]Cass., Sez. Un., n. 19601 del 15 maggio 2008, Niccoli.

[16]Nella sentenza Niccoli del 2008, la questione che era stata sollevata riguardava infatti la modifica della Legge Fallimentare e della nozione di piccolo imprenditore ad opera della stessa. In particolare il problema interpretativo sollevato davanti alla Cassazione riguardava il quesito in virtù del quale, la persona dichiarata fallita in quanto non piccolo imprenditore (ma imprenditore commerciale), e che a seguito della modifica normativa non rivestisse più tale qualifica, dovesse rispondere o meno dei reati fallimentari che gli fossero stati ascritti. 

In questo caso, le Sezioni Unite, pur affermando che il giudice penale non possa sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, precludendo così allo stesso la possibilità di indagine circa la qualifica di imprenditore, condivisero però, dal punto di vista della successione delle norme richiamate dalla legge penale, la soluzione a cui era giunta la sentenza Magera del 2007, asserendo essere ingiustificata l’applicazione dell’art. 2 c.p. nei riguardi di norme extra-penali prive di effetti retroattivi.

[17]In questo modo: Cass., Sez. Un., n. 40986/2018.

[18]Così: Cass., n. 544/1985; Cass., n. 9501/1987; Cass., n. 3376/1995.

[19]D. Lgs. n. 286/1998, cit.

[20]Per una disamina più approfondita della classificazione delle tipologie di reato in relazione al fenomeno successorio delle leggi penali nel tempo, si veda, tra gli altri: V. CITRARO, La consumazione del reato. Reato istataneo, permanente, abituale o a consumazione prolungata, in www.deiurecriminalibus.altervista.org, del 22/04/2016; G. MAINAS, I reati di durata e il tempus commissi delicti, in www.camminodiritto.it, del 25/07/2017; F. GIUNTA, Il tempus commissi declicti, in www.salvisjuribus.it, del 22/02/2018.

[21]Cass., Sez. Un., n. 40986/2018, p. 19.

[22]Per un’analisi più dettagliata dei punti chiave della sentenza in esame, si veda anche: S. ZIRULIA, Le Sezioni Unite sul tempus commissi delicti nei reati c.d. ad evento differito, in www.penalecontemporaneo.it, del 04/10/2018.

Riferimenti bibliografici:

CITRARO. V., La consumazione del reato. Reato istantaneo, permanente, abituale o a consumazione prolungata, in www.deiurecriminalibus.altervista.org, 22/04/2016.

FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto PenaleParte generale, III ed., Zanichelli Ed., Bologna, 2001, p. 72 e ss.

GIUNTA F., Il tempus commissi delicti, in www.salvisjuribus.it, 22/02/2018.

PAGLIARO A., La legge penale tra irretroattività e retroattività, in Giust. Pen.,1991, II, p. 1 e ss.

MAINAS G., I reati di durata e il tempus commissi delicti, in www.camminodiritto.it, 25/07/2017.

MANTOVANI F., Diritto penale. Parte generale, III ed., Cedam Ed., Padova, 1992, p. 87.

PADOVANI T., Tipicità e successione di leggi penali. La modificazione legislativa degli elementi della fattispecie e della sua sfera di applicazione nell’ambito dell’art. 2 commi 2 e 3 c.p., in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, p. 1354 e ss.

ZIRULIA S., Le Sezioni Unite sul tempus commissi delicti nei reati c.d. ad evento differito, in www.penalecontemporaneo.it, 04/10/2018