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Pubbl. Mer, 26 Giu 2019

Codice della crisi d´impresa e dell´insolvenza e procedure di allerta

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Maria Giulia Lugli


Criticità e profili di incostituzionalità delle procedure di allerta introdotto dal nuovo codice della crisi di impresa e dell´insolvenza.


Sommario: 1. Criticità relative agli articoli 12 e 13 C.c.i.; 2. Profili di incostituzionalità relativi all'art. 41, comma I della Costituzione; 3. Profili di incostituzionalità relativi all'art. 45, comma II, Cost..

Come è noto, con l’approvazione del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 12 gennaio 2019, n° 14), in attuazione della L. 19 ottobre 2017, n° 155, il legislatore ha voluto dare vita ad una riforma organica delle procedure concorsuali idonea a regolare lo stato di crisi e di insolvenza di qualsiasi debitore.

Tra le principali innovazioni introdotte dal predetto Codice (“C.c.i.”), rispetto alla disciplina precedente, vi rientrano sicuramente le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, regolate dagli articoli da 12 a 25, C.c.i..

 1. Criticità relative agli articoli 12 e 13 C.c.i.

La disciplina relativa alle procedure di allerta si applica solo alle piccole e medie imprese, con esclusione delle grandi imprese e degli altri soggetti indicati ai commi IV e V dell’art. 12, C.c.i.[1]

Tale esclusione è stata giustificata, da un lato, dal fatto che le dimensioni e il contesto regolamentato in cui operano tali enti fanno ritenere che essi abbiano già implementato autonomamente gli adeguati assetti organizzativi richiesti dal C.c.i., grazie ai loro livelli di organizzazione interna e alla presenza di procedure, di strumenti gestionali e di trasparenza. Dall’altro, i controlli interni ed esterni a cui sono sottoposti sono considerati astrattamente sufficienti a prevenire la crisi e, dunque, sarebbe superflua ed ultronea l’applicazione del meccanismo degli strumenti di allerta nei loro confronti[2].

È facile obiettare, però, che tali controlli si sono spesso rivelati inidonei e poco puntuali nella prevenzione di situazioni di dissesto economico: si prenda, come esempio recente, la grave crisi che ha coinvolto diverse banche italiane[3].

Pertanto, sorge spontaneo chiedersi se sia opportuna l’esclusione delle grandi imprese dall’applicazione dei citati strumenti d’allerta, soprattutto per le conseguenze – di gran lunga peggiori – che il crollo finanziario di queste comporta rispetto a quelle di piccole dimensioni.

L’individuazione dei soggetti a cui applicare la disciplina predetta, poi, è stata oggetto di un’importante modifica, che ha avuto luogo durante la fase finale di incubazione della normativa, dove la lista degli “esclusi” è stata notevolmente ampliata.  Ciò è frutto di una modifica “dell’ultima ora”, ossia opera di una volontà politica volta ad escludere determinati enti (alcuni di grande rilevanza economica) dall’ambito di applicazione degli strumenti di allerta[4].

L’applicazione delle procedure alle sole piccole e medie imprese, con esclusione delle grandi, costituisce, dunque, una vera e propria discriminazione a discapito delle prime.

Tra l’altro, gli adempimenti imposti dalla normativa comportano, per tale categoria di imprese, gravosi oneri e costi dovuti anche all’abbassamento delle soglie per la nomina dell’organo di controllo o del revisore, rispetto a quelle previste in precedenza dall’art. 2477 c.c.[5]

Un ulteriore aspetto problematico riguarda gli indicatori della crisi e gli indici di cui all’art. 13 C.c.i.

La formulazione della norma è stata, già in sede di formazione, argomento di ampio dibattito e di aspre critiche[6].

A questo riguardo, il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ed esperti contabili ha osservato che, ai fini degli indicatori, dovrebbe assumere rilevanza una situazione di “non sostenibilità” del debito per i sei mesi successivi e di “assenza di prospettive” di continuità aziendale, e non viceversa. L’attuale formulazione della norma, infatti, potrebbe incrementare significativamente il numero dei c.d. “falsi positivi”, conducendo a pericolose conseguenze, che vanno dalla scarsa capacità discriminatoria in relazione al default degli indicatori proposti, al rischio di trascinare davanti all’Organismo di composizione della crisi d’impresa (“OCRI”) soggetti che non sono realmente in crisi (a cui si aggiunge, evidentemente, l’ulteriore minaccia del c.d. “effetto domino”, vale a dire quello di trascinare in tale meccanismo ulteriori imprese sane), oltre alla più che probabile incrinazione della credibilità delle imprese coinvolte in questo sistema.

Oltre a quanto sopra esposto, diverse piattaforme e agenzie di gestione di dati hanno già avviato una serie di ricerche – basate sugli indici ritenuti maggiormente “predittivi” della crisi di impresa – volte ad individuare, seppur in via approssimativa, il numero di soggetti che presumibilmente dovranno ricorrere agli strumenti di allerta a seguito di segnalazione.

È emerso che un’elevatissima quantità di imprese farebbe scattare l’obbligo di segnalazione da parte degli organi a ciò preposti.

In conclusione, l’imposizione del rispetto dei summenzionati indici può compromettere seriamente la salute di imprese che, sebbene “sane”, possono essere considerate in stato di crisi per il semplice fatto di far scattare uno degli indici interni, o per la mancata conformità ad un indicatore esterno.

2. Profili di incostituzionalità relativi all'art. 41, comma I della Costituzione

La norma costituzionale citata stabilisce che “L’iniziativa economica privata è libera”.

Secondo la tesi più diffusa, il significato di iniziativa economica coinciderebbe con quello di “impresa” intesa come esercizio professionale di un’attività economica organizzata al fine della produzione o scambio di beni e servizi, ai sensi dell’art. 2082 c.c.

Coerentemente con tale impostazione, si ritiene che il contenuto della libertà economica si componga di una serie di facoltà e poteri, tra i quali la facoltà di organizzarsi per il perseguimento del fine economico prescelto e il potere di gestire autonomamente l’attività prescelta[7].

A questo proposito, la giurisprudenza costituzionale ha sempre ritenuto illegittimi i condizionamenti e i vincoli che costituiscono un grave ostacolo all’esercizio della libera iniziativa economica, oltre a quelli che interferiscono gravemente sull’iniziativa personale dell’imprenditore e quelli che, in generale, determinano una compressione dell’iniziativa economica privata eccessivamente penetrante[8].

A causa delle nuove disposizioni del C.c.i., le imprese dovranno modellare le proprie strutture organizzative e gestionali sugli obblighi che la normativa stessa impone (i quali costituiscono solamente un costo e un’inutile burocratizzazione dei processi interni, senza l’ottenimento di alcun corrispettivo economico a favore dell’azienda), con preferenza rispetto alle esigenze di produzione o scambio di beni e servizi.

Di conseguenza, buona parte delle risorse dell’impresa dovranno essere destinate prevalentemente al soddisfacimento dei predetti adempimenti, con il rischio di sottrarre tali mezzi alle necessità “vitali” dell’impresa stessa e, cioè, quelle economiche, finanziarie e produttive[9]. Con le ovvie conseguenze che la carenza di fondi da investire in tali ultimi ambiti comporta.

3. Profili di incostituzionalità relativi all'art. 45, comma II, Cost.

L’art. 45, comma II, Cost., afferma che “La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”.

Si coglie facilmente il favor della norma costituzionale per questa forma di impresa: esso è da ricercarsi, in particolar modo, nell’articolazione e diffusione del potere economico che essa consente, traducendo – sul terreno dell’economia – i principi di democrazia, libertà, eguaglianza e solidarietà[10].

Il nostro ordinamento, in particolare, considera l’impresa artigiana come un soggetto meritevole di tutela e sviluppo e, pertanto, a sostegno di essa, la Costituzione impone interventi legislativi di protezione, promozione e incremento volti, da un lato, a stimolare la creazione di nuove unità produttive e, dall’altro, diretti a potenziare quelle già esistenti.

Inoltre, l’art. 45, comma II, Cost., promuove la tutela dell’impresa artigiana come impresa di piccole dimensioni, la cui protezione è idonea a favorire la diversificazione delle strutture produttive, aumentando la flessibilità del sistema economico. In particolare, la protezione di tale categoria economicamente e socialmente più debole consente di preservare determinati valori culturali legati ad un certo modo di produzione e che si pongono, dunque, al di fuori del sistema produttivo della grande impresa capitalistica[11].

A ben vedere, questi presupposti possono ritenersi validi non solo per i soggetti che operano nel settore dell’artigianato, ma complessivamente per tutte le categorie di piccole e medie imprese.

In ragione di quanto sopra esposto, ci si chiede come il sistema concepito dal C.c.i. possa essere compatibile con i principi costituzionali appena indicati: da una parte, pare che, più che agevolare la nascita e lo sviluppo delle piccole e medie imprese (tra le quali rientrano quelle artigiane), finisca per affossarle, ponendo loro incombenze assai gravose e difficilmente sostenibili per realtà imprenditoriali così modeste.

Dall’altra, è evidente il favoritismo nei confronti delle grandi imprese (e, in generale, di tutti i soggetti menzionati dall’art. 12, commi IV e V, C.c.i.), per le quali è prevista l’esenzione dall’applicazione delle procedure di allerta.

Facendo riferimento a quanto già esposto in precedenza, si corre il serio pericolo che l’esposizione agli obblighi di segnalazione di molte piccole e medie imprese, sfoci in concordati preventivi o liquidazioni giudiziali.

L’inevitabile corollario di un simile scenario, è che una grande quantità di piccole imprese si trovi soggetta al rischio di dover “chiudere i battenti”: ciò provocherebbe un grave deterioramento del principale tessuto economico del nostro Paese (costituito, appunto, dalle piccole e medie imprese), a fronte di un ulteriore accrescimento del potere delle grandi imprese sul mercato.  E tutto ciò in contrasto con le logiche di tutela e protezione costituzionalmente garantite per le predette formazioni economiche, oltre che con i principi del libero mercato e della libera concorrenza economica.

Note e riferimenti bibliografici

[1] La norma prevede, al comma IV, che gli strumenti di allerta si applichino “ai debitori che svolgono attività imprenditoriale”, escludendo da tale categoria le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevante dimensione, le società per azioni quotate in mercati regolamentati, o diffuse fra il pubblico in misura rilevante secondo i criteri stabiliti dalla Consob.

Al comma V vengono indicate altre categorie di soggetti escluse dall’applicazione della disciplina relativa alle procedure di allerta: appartengono ad esse, in generale, tutte le imprese appartenenti al settore bancario, assicurativo, fiduciario e quelle che di regola sono sottoposte ai procedimenti di liquidazione coatta amministrativa.

[2] cfr. A. Danovi e G. Acciaro (a cura di) “Crisi d’impresa”, Il Sole 24 Ore, vol. 2/7, 2019, pagg. 23 e ss.

[3] Ma si potrebbero citare molti altri casi: si pensi, sempre in via esemplificativa, agli scandali Cirio, Parmalat, Alitalia, ecc.

[4] cfr. S. Sanzo e D. Burroni (a cura di) “Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza”, Zanichelli Editore, I ed., 2019, pag. 46.

[5] L’art. 379, comma I, let. c), C.c.i., il quale stabilisce l’obbligatorietà della nomina dell’organo di controllo o del revisore se la società “ha superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: due milioni di euro; ricavi delle vendite e delle prestazioni: due milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: dieci unità”.

[6] L’art. 13, comma I, C.c.i., individua come indicatori della crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di inizio attività, rilevabili sulla scorta di appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata dell’esercizio al momento della valutazione sia inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. La norma dispone altresì che sono indici significativi ai predetti fini quelli che misurano la sostenibilità degli oneri dell’indebitamento con i flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi.

[7] cfr. S. Bartole e R. Bin (a cura di) “Commentario breve alla Costituzione”, II ed., 2008, pagg. 411 e ss.

[8] cfr., ex multis, Corte cost., sent. n° 78 del 16 dicembre 1958.

[9] Si ricorda, al riguardo, che oggetto di tutela costituzionale dell’art. 41, comma I, Cost., è proprio l’attività produttiva esercitata in forma d’impresa; cfr. S. Bartole e R. Bin (a cura di), op. cit., pag. 410.

[10] cfr. S. Bartole e R. Bin (a cura di), op. cit., pag. 463.

[11] cfr. S. Bartole e R. Bin (a cura di), op. cit., pag. 468.