Pubbl. Mar, 11 Giu 2019
Il fenomeno del mobbing e la sua sussumibilità nel reato di maltrattamenti
Modifica paginaE´possibile risalire agli elementi che permettono di ricondurre il mobbing all’art.572. La linea concettuale della nozione di maltrattamenti sembra infatti condividere con quella del mobbing non solo la configurabilità fenomenica, ma anche la serialità degli atti pretestuosi.
Sommario: 1. Il mobbing. – 2. Mobbing e maltrattamenti.- 3. Il requisito della para-familiarità nel delitto di maltrattamenti verso familiari e conviventi.
1. Il mobbing
Il fenomeno del mobbing merita particolare attenzione poiché recentemente dottrina e giurisprudenza ne hanno sostenuto, seppur con qualche isolata posizione contraria, la sussumibilità nel delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi.
Il termine mobbing venne utilizzato per la prima volta dall’etologo Konrad Lorenz nel 1971 per descrivere “il comportamento di gruppi di uccelli di piccola taglia nell’atto di respingere un rapace loro predatore”, o comunque, più genericamente, sempre riferendosi al comportamento animale, “l’aggressione di un gruppo di animali a danno di un loro esemplare”[1] .
La sociologia e psicologia del lavoro hanno successivamente mutuato tale termine per indicare “una serie di comportamenti, singolarmente legittimi o illegittimi, perpetuati in modo continuo e sistematico, assunti tra colleghi o tra superiori e dipendenti, con i quali la persona attaccata è costantemente messa in una posizione di debolezza psicologica al fine di emarginarla e/o estrometterla dal luogo di lavoro o comunque per arrecarle un danno psicofisico ”.
Da questa definizione, che è una sintesi di tutte quelle che, appunto, sono state fornite dalla sociologia e psicologia, emergono i tratti caratterizzanti tale fenomeno: si tratta di comportamenti che vengono messi in atto sul luogo di lavoro e poiché presi singolarmente possono anche costituire condotte lecite, l’antigiuridicità di questi atti è data proprio dalla loro serialità, nonché dall’intento vessatorio e dall’effetto pregiudizievole, tutti elementi che li rendono un unicum[2].
Sono anche state individuate diverse tipologie di mobbing: una verticale, quando a porre in essere la condotta mobbizzante è il superiore gerarchico; una orizzontale, quando i comportamenti lesivi sono messi in atto dai colleghi di pari grado della vittima.
Vi è anche il mobbing strategico, teso ad avvicendare la vittima che, quindi, ricopre spesso ruoli di vertice, e il mobbing di genere, caratterizzato da discriminazioni di natura sessuale, principalmente rivolto a donne, alle quali è solitamente richiesta una maggiore presenza in famiglia per la cura dei figli o per l’assistenza ad anziani e/o malati, o anche semplicemente a seguito di matrimonio[3].
Il Parlamento europeo, con la Risoluzione A5-0283/2001 del 20 settembre 2001, ha dimostrato di prendere atto della sempre maggiore diffusione del fenomeno, data probabilmente anche dall’aumento delle forme di lavoro precario che in qualche modo agevolano la messa in atto di pratiche vessatorie.
Dopo essersi soffermato sugli effetti devastanti che tale pratica ha sulla salute fisica e psichica delle vittime e delle loro famiglie, “esorta gli Stati membri a rivedere e, se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nonché a verificare e ad uniformare la definizione della fattispecie del “mobbing”, raccomanda agli Stati membri di imporre alle imprese, ai pubblici poteri nonché alle parti sociali l’attuazione di politiche di prevenzione efficaci, l’introduzione di un sistema di scambio di esperienze e l’individuazione di procedure atte a risolvere il problema per le vittime e ad evitare sue recrudescenze; raccomanda, in tale contesto, la messa a punto di un’informazione e di una formazione dei lavoratori dipendenti, del personale di inquadramento, delle parti sociali e dei medici del lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico; ricorda a tale proposito la possibilità di nominare sul luogo di lavoro una persona di fiducia alla quale i lavoratori possono eventualmente rivolgersi ”.
Nonostante ciò a livello nazionale il fenomeno continua a non essere disciplinato. Si sono avute diverse leggi regionali[4] che hanno provato ad affrontare il problema.
Emblematico è il caso della legge della Regione Lazio 16/2002, intitolata “Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro ” , dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza Corte Cost. 359/2003 per contrasto con l’art. 117, comma 2, lett. g) ed l), e comma 3 Cost. .
Tale legge dichiarava all’art. 1 comma 1 " la Regione, in attuazione dei principi costituzionali enunciati negli articoli 2, 3, 4, 32, 35, 37 della Costituzione, nel rispetto della normativa statale vigente e nelle more dell'emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia, interviene con la presente legge al fine di prevenire e contrastare l'insorgenza e la diffusione del fenomeno del mobbing nei luoghi di lavoro”.
L'articolo 2, che reca la rubrica "definizione del mobbing", stabilisce al comma 1 che "ai fini della presente legge per mobbing s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale ".
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale legge, in quanto “non esclude che le Regioni possano intervenire, con propri atti normativi, anche con misure di sostegno idonee a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze.
Deve, viceversa, ritenersi certamente precluso alle Regioni di intervenire, in ambiti di potestà normativa concorrente, dettando norme che vanno ad incidere sul terreno dei principi fondamentali, che è quanto si è verificato nel caso di specie”.
Mancando una disciplina legislativa di riferimento, la giurisprudenza ha dovuto prendere atto della grande diffusione del fenomeno.
Di vessazioni sul luogo di lavoro si è occupata prevalentemente la giurisprudenza civile e del lavoro. Le prime sentenze in materia risalgono al 1999 e ne offrono una chiara definizione giuridica.
In particolare nella sentenza del Tribunale di Torino del 16 novembre 1999, i giudici, dopo aver qualificato genericamente il mobbing come le “gravi e reiterate distorsioni ( del sistema gerarchico esistente in fabbrica ) , capaci di incidere pesantemente sulla salute individuale ”, lo ravvisa “allorché il dipendente è oggetto ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino suicidio”.
In un passo successivo, dopo aver ritenuto fornita la prova del nesso di causalità tra la patologia insorta nella lavoratrice e l’ambiente di lavoro, afferma che di tale fatto “deve indubbiamente essere chiamato a rispondere il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., essendo questi tenuto a garantire l'integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti ”[5].
Questo orientamento ravvisa dunque una responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. in capo al datore di lavoro, sebbene non manchi chi parla di una responsabilità extracontrattuale in base all’art. 2043 c.c. .
In particolare la Cassazione[6] sostiene che si deve ritenere proposta la azione ex art. 2043 c.c. qualora non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell'azione contrattuale, quando chiede genericamente il risarcimento del danno senza però dedurre una specifica obbligazione contrattuale, o, chiaramente, tutte le volte che il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana.
In questo caso la cognizione apparterrà al giudice ordinario poiché il rapporto di lavoro non è altro che una mera occasione per la realizzazione del comportamento illecito.
L'azione di responsabilità contrattuale sarà invece proposta, con conseguente giurisdizione del giudice del lavoro, quando la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sull'inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti al rapporto di impiego[7].
La giurisprudenza civile ha avuto modo recentemente di tornare sull’argomento affinando la definizione di mobbing. Con tale termine si intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio” [8].
2. Mobbing e maltrattamenti
Di mobbing si è occupata anche la giurisprudenza penale.
Non esiste una autonoma fattispecie criminosa che cataloghi come reato la condotta del datore di lavoro tesa a vessare moralmente e fisicamente il lavoratore nell’ambito del rapporto di impiego.
Per evitare, però, vuoti di tutela, i giudici hanno cercato di ricondurre tali condotte in fattispecie via via diverse che, però, non sempre son sembrate idonee a fotografare compiutamente il fenomeno. Tuttavia questo procedimento incontra non poche difficoltà soprattutto con riferimento al rispetto dei principi di legalità e tassatività e al divieto di analogia in malam partem[9].
La fattispecie a cui più di tutte la giurisprudenza ha fatto ricorso è sicuramente il delitto di maltrattamenti in famiglia[10].
Ragionando in astratto è possibile risalire agli elementi che permettono di ricondurre il mobbing all’art.572. La linea concettuale della nozione di maltrattamenti sembra infatti condividere con quella del mobbing non solo la configurabilità fenomenica, ma anche la serialità degli atti pretestuosi, la sistematicità e corrispondente strumentalità degli stessi in relazione all'effetto pregiudizievole perseguito e, non da ultimo, il dato dell'intenzionalità del contegno attuato, caratterizzato da un intento di persecuzione ed emarginazione.
Con riferimento, invece, al profilo dei soggetti passivi del reato, la giurisprudenza di legittimità, in numerose pronunce, ha rilevato come la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, tradizionalmente concepita in un contesto familiare, sia stata dal legislatore del 1930 estesa anche a rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia nonché a rapporti professionali e di prestazioni d'opera.
Quella che può essere considerata la prima sentenza della Cassazione penale in tema di mobbing è certamente Cass. Pen., sez. VI, 12 marzo 2001, n. 10090. La vicenda riguarda un datore di lavoro ed il suo preposto che, in concorso fra loro, avevano sottoposto i propri subordinati (incaricati di vendite porta a porta) a varie vessazioni, accompagnate da minacce di licenziamento e di mancato pagamento delle retribuzioni pattuite, al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro intensissimi.
I giudici di legittimità hanno, innanzitutto, sottolineato la sussumibilità del mobbing nella fattispecie prevista dall’art. 572 c.p. .
In primo luogo, il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, poiché caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del subordinato, pone quest’ultimo nella posizione, specificamente prevista dalla disposizione, di “ persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte ".
Inoltre, in questa ipotesi, la norma non richiede la coabitazione o convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo, ma solo un rapporto continuativo dipendente da cause diverse da quella familiare.
Addirittura nel caso di specie il rapporto interpersonale che legava autore del reato e vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un'assidua comunanza di vita.
In particolare l’imputato aveva ridotto i suoi dipendenti in uno stato di sottomissione e umiliazione, a causa delle sue ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, quali schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali, nonché ricorrenti minacce di troncare il rapporto di lavoro senza versare le retribuzioni pattuite, “ ne risulta, dunque, una serie di atti volontari, idonei a produrre quello stato di abituale sofferenza fisica e morale, lesivo della dignità della persona, che la legge penale designa col termine di maltrattamenti ”.
I giudici di legittimità hanno poi ritenuto compiutamente dimostrata nella sentenza impugnata della Corte d’Appello di Milano la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, dichiarando, quindi, infondato il motivo di ricorso, secondo il quale mancherebbe un elemento costitutivo del reato, perché il rapporto di lavoro non può essere assimilato al rapporto di convivenza familiare previsto dall'art. 572 cod. pen., e non sarebbe stato provato il dolo, perché gli isolati episodi di violenza sarebbero stati commessi con dolo d'impeto.
Inoltre il datore di lavoro è stato ritenuto colpevole del reato di violenza privata[11] continuata in applicazione dell'art. 40 cod. pen., secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Infatti l’imprenditore era tenuto, sulla base dell'art. 2087 cod. civ. "ad adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", per cui, omettendo di porre fine alle vessazioni attuate dal capogruppo sui lavoratori dipendenti, se ne rese corresponsabile.
Per quanto poi riguarda il dolo i giudici di merito, afferma la Cassazione, hanno ben spiegato che il ricorrente era perfettamente consapevole delle vessazioni messe in atto dal capogruppo ( ed anzi le condivideva, poiché anch’egli era interessato a raggiungere il massimo sfruttamento dei propri dipendenti ) e, sebbene ripetutamente sollecitato dalle vittime a intervenire, non aveva fatto nulla per porre fine e reprimere la condotta del capogruppo.
3. Il requisito della para-familiarità nel delitto di maltrattamenti verso familiari e conviventi
Recentemente si è sviluppata una corrente di pensiero che tende a limitare l’applicabilità dell’art. 572 al fenomeno del mobbing.
Si riporta un passo della sentenza Cass. Pen., sez. VI, 12571/2012 che lo riassume compiutamente: “ è vero che l’art. 572 c.p. ha allargato l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello solo endo-familiare in senso stretto. Ma pur sempre la fattispecie incriminatrice è inserita nel titolo dei delitti della famiglia ed indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli sicché non può ritenersi idoneo a configurarla il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione.
Da qui la ragione dell’indicazione del requisito, del presupposto, della parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, che si caratterizza per la sotto posizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa ) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità ”.
E dunque, come afferma Cass. Pen., sez. VI, 16 aprile 2013, n. 19760 “ nelle imprese di una certa dimensione il rapporto tra dirigente e sottoposto, ancorché quotidiano, non è mai di tipo familiare, perché proprio quelle dimensioni marginalizzano i rapporti intersoggettivi esaltando l’aspetto gerarchico, tra soggetti che operano su piani differenti ”.
Il reato di maltrattamenti non può, cioè, configurarsi qualora le condotte mobbizzanti vengano poste in essere in aziende di grandi dimensioni, poiché queste ultime sono incompatibili con le nozioni di famiglia e convivenza e con le relazioni che caratterizzano la fattispecie incriminatrici.
Nei piccoli ambienti di lavoro il subordinato non è solo un semplice sottoposto, ma è parte di un rapporto diretto e personale, di fiducia, con il suo superiore, e un’adulterazione di tale rapporto ha la capacità di incidere in maniera profonda sulla dignità e sull’equilibrio psicologico del lavoratore.
Mentre nelle aziende di grandi dimensioni egli “ presta, sostanzialmente, solo il suo tempo e le sue capacità intellettuali e fisiche ad un soggetto impersonale ”, “ si tratta in ogni caso di un rapporto distaccato e formale, nel cui ambito il dipendente gode di un complesso di garanzie che gli consentono di reagire alle ingiuste offese di cui possa essere fatto segno ”[12].
In senso contrario all’orientamento ora espresso si deve segnalare, oltre a parte della dottrina[13], una recente sentenza della Cassazione che considera configurabili i maltrattamenti anche all’interno di imprese medio-grandi.
Afferma, infatti, Cass. Pen., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416: “la sussistenza ( o insussistenza ) di un rapporto di natura para-familiare non può essere desunta dal dato – meramente quantitativo – costituito dal numero dei dipendenti dell’impresa nell’ambito della quale siano commesse le condotte in ipotesi maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull’aspetto qualitativo, id est sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore.
Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para familiarità allorché ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare o comunque caratterizzata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare ”.
La Corte, dunque, pur ribadendo che per ritenere sussumibile l’ipotesi di mobbing nella fattispecie prevista dall’ art. 572 c.p. è indispensabile che il rapporto di lavoro sia caratterizzato dalla para-familiarità, riconosce la possibilità che tale requisito sussista anche nelle imprese medio-grandi, avuto riguardo alla natura del rapporto tra datore e lavoratore nel caso concreto.
Nonostante, in realtà aziendali di notevoli dimensioni difficilmente si potrà riscontrare una relazione caratterizzata dalla para-familiarità, non si può escludere che siffatto rapporto sussista nell’ambito dei singoli reparti e, dunque, tra il capo reparto e il singolo addetto.
Altro caso affrontato dalla Corte di Cassazione, in tema di rilevanza penale del mobbing all’interno aziende di grandi dimensioni, riguarda il ricorso proposto da una lavoratrice madre la quale, in servizio da molti anni presso un'azienda con oltre venticinque dipendenti operante nel settore dei prodotti chimici, lamentava di aver subito, al rientro dal periodo di maternità, una serie di comportamenti vessatori e discriminatori da parte del Presidente del C.d.A. e dell'Amministratore delegato della società, nello specifico consistenti nell'esclusione da alcune occasioni conviviali comuni ai lavoratori, nell'assegnazione a mansioni meno qualificanti rispetto a quelle cui era adibita nel periodo precedente il congedo e, infine, nell'adozione di taluni provvedimenti disciplinari, culminati nel licenziamento per giusta causa, già ritenuto illegittimo da parte del giudice del lavoro.
Il ricorso veniva proposto avverso la sentenza della Corte d'appello di Torino che, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva assolto gli imputati sul presupposto che fosse carente, nel caso di specie, il requisito della para-familiarità che deve sempre caratterizzare il rapporto di lavoro.
La sentenza di secondo grado aveva valorizzato, ritenendoli incompatibili con la costituzione di un clima affine a quello familiare, i seguenti elementi fattuali: il numero dei dipendenti dell'azienda, la durata del rapporto di lavoro, la non esclusività della condotta mobbizzante e, infine, la reazione della vittima[14].
Investita della questione, la sesta sezione penale della suprema Corte annulla con rinvio la decisione assolutoria di secondo grado, censurando l'illogicità della relativa motivazione, in particolare “laddove ha affermato l'insussistenza di un contesto interpersonale di natura para-familiare sulla base di argomentazioni contrarie a logica ed a comuni massime d'esperienza nonché a diritto”[15] e chiarisce, rifuggendo da considerazioni aprioristiche non di rado accolte nel recente passato, quali siano le circostanze di cui il giudice di merito deve tener conto per accertare la sussistenza del requisito della para-familiarità. In primo luogo la Corte afferma come la sussistenza o meno di un rapporto di natura para-familiare all'interno dell'azienda non può essere desunta dal dato meramente quantitativo, costituito dal numero dei dipendenti dell'impresa nell'ambito della quale sono commesse le condotte vessatorie, ma, al contrario, deve fondarsi sull'aspetto qualitativo, ossia sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore.
Tale relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare o comunque caratterizzata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, difficilmente potrà configurarsi in realtà aziendali di notevoli dimensioni, nell'ambito delle quali i rapporti fra i dirigenti e i sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati, non potendosi peraltro escludere, ad avviso della Corte, dinamiche para-familiari nell'ambito dei singoli reparti.
In caso di piccole o medie imprese, invece, sarà compito del giudice di merito svolgere un’attenta indagine sulle effettive dinamiche relazionali intercorrenti fra titolare e lavoratore, al fine di rilevare la sussistenza o meno di uno stato di soggezione.[16]
La Suprema Corte rileva, inoltre, come sia priva di ragionevole fondamento la regola d'esperienza applicata dal giudice di secondo grado, secondo cui l'anzianità di servizio del lavoratore sarebbe inversamente proporzionale alla potenzialità di diventare soggetto passivo del mobbing.
Infatti, contrariamente a quanto affermato dal giudice a quo, il rapporto para-familiare non può essere escluso in considerazione del fatto che il rapporto di lavoro si sia sviluppato per un ampio lasso temporale, in quanto “la sussistenza di una situazione para-familiare dipende dalla intensità e dalla natura della relazione interpersonale intercorrente fra datore di lavoro e dipendente più che dalla durata temporale della relazione stessa, potendo le condotte ostili e persecutorie del primo, tese alla mortificazione ed all'isolamento del lavoratore, essere tollerate per molti anni da quest'ultimo in ragione di una situazione di bisogno economico e in mancanza di alternative professionali”[17].
La pronuncia in commento precisa poi che la para-familiarità non può essere ritenuta insussistente in considerazione del fatto che l'atteggiamento discriminatorio non sia riservato alla sola persona offesa, ma costituisca, al contrario, una “prassi costante” applicata abitualmente dal datore di lavoro nei confronti di tutte le dipendenti rientrate in azienda dopo un periodo di congedo[18].
Invero, seguendo tale ragionamento si finirebbe con l'affermare che la reiterazione dell'atteggiamento discriminatorio e vessatorio nei confronti di una categoria omogenea di lavoratori sia idonea ad escludere in radice il crearsi di una situazione di subalternità e soggezione. Tale circostanza, anziché essere considerata come indicativa di una particolare intensità del dolo valutabile a carico del reo in sede di determinazione della pena, fungerebbe addirittura quale causa di non punibilità a favore dell'imputato, con conseguenze contrarie, prima che al diritto, alla logica comune.
Infine, parimenti illogico è stato considerato l'ultimo passaggio del percorso motivazionale della sentenza impugnata laddove esclude la sussistenza della condizione di subordinazione per avere la vittima reagito alle condotte mobbizzanti mediante la denuncia delle stesse all'Autorità giudiziaria, al sindacato ed ai media.
Rileva la suprema Corte che «lo stato di subordinazione e di soggezione del lavoratore, quale condicio sine qua non per la sussumibilità del mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve sussistere all'atto delle condotte vessatorie e non può essere escluso – ex post – dal fatto che la vittima, dopo avere subito un sistematico e continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti affinché possano essere perseguiti».
Se così non fosse si giungerebbe all'illogica affermazione che il reato di maltrattamenti in famiglia sia configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le vessazioni subite, con la conseguenza che la successiva reazione della persona offesa sarebbe suscettibile di rendere penalmente irrilevante il comportamento criminale posto in essere, di tal che il reato di , così come larga parte delle incriminazioni in danno alla persona, soprattutto quelle procedibili a querela, verrebbe ad essere configurabile soltanto in astratto[19].
Significativo e meritevole di approfondimento risulta soprattutto il superamento, da parte della Corte di Cassazione, del requisito delle dimensioni dell'impresa.
Invero, secondo l'orientamento a lungo dominante la riconducibilità del mobbing al reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi tendeva ad incontrare delle restrizioni in ragione delle dimensioni del contesto lavorativo-aziendale di riferimento.
La giurisprudenza di legittimità partendo dall'assunto secondo cui tutti i rapporti richiamati dall'art. 572, comma 1, c.p. dovessero condividere una natura para-familiare giungeva infatti a ritenere che la relazione tra datore di lavoro e lavoratore fosse assimilabile al nucleo familiare vero e proprio, e dunque astrattamente rilevante ex art. 572 c.p., solo a fronte di realtà aziendali di ridotte dimensioni.
L'adesione alla predetta impostazione conduceva tradizionalmente ad un risultato perentorio: l'impraticabilità della via penale rispetto alle vessazioni realizzate ai danni di un lavoratore nell'ambito di un'azienda di dimensioni medio-grandi, con la conseguenza che la tutela penale poteva riguardare unicamente singoli comportamenti vessatori autonomamente considerati[20].
Un’impostazione criticata sia dalla giurisprudenza, incline a non escludere aprioristicamente la configurabilità del reato di maltrattamenti in presenza di imprese di medio-grandi dimensioni, sia dalla dottrina, che tendeva a valorizzare una valutazione casistica di tipo qualitativo.
Tali critiche risultano condivisibililaddove si consideri che «il rilievo decisivo attribuito ad un criterio esclusivamente numerico, darebbe luogo ad una discriminazione irragionevole, ben potendo, anche nel contesto di imprese di grandi dimensioni, svilupparsi strette relazioni abituali tra lavoratore subordinato e diretto superiore gerarchico»[21].
Un criterio meramente quantitativo non può costituire unica e sicura guida per l'interprete. Al contrario il giudice di merito dovrà accertare la sussistenza o meno di un rapporto di natura para-familiare tra le parti in causa sulla base di una valutazione fondata «sull'aspetto qualitativo, id est sulla natura dei rapporti intercorrenti tra datore di lavoro e lavoratore»[22].
La posizione assunta dalla Corte di Cassazione pare dunque scalfire la rigidità del criterio dimensionale a favore di un giudizio particolaristico, più rispettoso dei principi di legalità e ragionevolezza dell'intervento penale[23].
Il requisito numerico non trova alcuno specifico riferimento normativo. Attraverso il suo utilizzo l'interprete introduce discrezionalmente un elemento decisivo per la configurabilità della fattispecie di cui all'art. 572 c.p., in assenza di specifiche soglie di rilevanza penale a tal fine predisposte dal legislatore.
Tale requisito risulta peraltro carente sotto il profilo della necessaria determinatezza non essendo chiaro quale sia la precisa soglia numerica da prendere in considerazione.
Ben si comprende il monito indirizzato dalla suprema Corte al giudice di rinvio: accertare la sussistenza di un rapporto riconducibile ai contesti relazionali espressamente richiamati dall'art. 572 c.p., avendo riguardo, da un lato, alle “dinamiche relazionali in seno all'azienda e, nello specifico, a quelle intercorrenti fra la lavoratrice ed i datori di lavoro imputati”, nonché, dall'altro, alla concreta “esistenza o meno di una condizione di soggezione e subalternità della vittima”[24].
Note e riferimenti bibliografici
[1] l.grasso, Mobbing e maltrattamenti: il punto di vista del giudice, in Diritto di famiglia e delle persone, 2008, pag. 2083
[2] Parodi, C., Ancora su mobbing e maltrattamenti in famiglia, in penalecontemporaneo.it , pagg. 1-2.
[3] Beltrani, S., La rilevanza penale del mobbing, in Cass. Pen., 2011, III, pagg. 1-2.
Nel particolare caso del mobbing di genere, potrà trovare applicazione il d.l. 145/2005, trasfuso nel Codice delle pari opportunità d.l. 198/2006 che all’art.26 stabilisce essere discriminazioni “anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo ”, ponendo ai successivi artt. 36, 38 e 40 una serie di rimedi anche di carattere giudiziale, nonché un regime probatorio civilistico agevolato rispetto a quanto accade per le altre tipologie di mobbing.
[4] L. reg. Abruzzo 26/2004, L. reg. Umbria 18/2005, L. reg. Friuli Venezia Giulia 7/2005.
[5] L. Gulotta, La tutela penale in materia di mobbing, in www.filodiritto.com. Questo approccio alla questione risponde perfettamente ai nostri principi costituzionali, in quanto l’art. 32 Cost. sancisce il diritto inviolabile alla salute dell’individuo e della collettività ed il successivo art. 41, dopo aver posto il principio della libertà di iniziativa economica privata, stabilisce che la stessa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Degne di nota sono le disposizioni dello Statuto dei lavoratori ( legge 20 maggio 1970 n.300 ), in particolare l’art.9 salvaguarda il diritto del dipendente alla salute e dell’integrità fisica, l’art. 13 impedisce che allo stesso possano essere date mansioni di livello professionale inferiore a quello d’inquadramento, e l’art. 15 prescrive il divieto di atti discriminatori per motivi politici o religiosi.
Infine, il Decreto Legislativo 81/2008 stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di adottare le misure necessarie per la tutela della sicurezza, della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori.
[6] Cass. Civ. SS.UU., 4 maggio 2004, n.8438.
[7] R. Beninato, Il mobbing tra responsabilità da contratto ed illecito aquiliano, in www.altalex.it
[8] Cass. Civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785.
[9] L. Gulotta, La tutela penale in materia di mobbing, cit.
[10] Afferma chiaramente che la figura di reato più vicina ai tratti caratterizzanti il mobbing è quella descritta dall’art. 572. Cass. Pen., sez. V., 29 agosto 2007, n 33624.Pur non parlando e spressamente di mobbing, una delle prime sentenze della Cassazione a prospettare l’inquadrabilità di tale fenomeno nella condotta descritta dall’art. 572 è Cass. Pen., sez. VI, 18 marzo 1997, n. 2609.
[11] Con specifico riferimento alla possibilità di inquadrare il mobbing nella fattispecie di violenza privata si riporta la massima della sentenza Cass. Pen., sez. VI, 8 marzo 2006, n. 31413: “ E’ configurabile il reato di violenza privata, consumata o tentata, a carico di datori di lavoro i quali costringano o cerchino di costringere taluni lavoratori dipendenti ad accettare una novazione del rapporto di lavoro comportante un loro demansionamento, mediante minaccia di destinarli, altrimenti, a forzata ed umiliante inerzia in ambiente fatiscente ed emarginato dal resto del contesto aziendale, nella prospettiva di un susseguente licenziamento”. Nel caso di specie, quindi, oltre al fine persecutorio, si riscontra il fine di indurre la vittima a compiere atti specifici, poiché la condotta denigratoria ed intimidatoria del datore di lavoro non è fine a se stessa, ma appunto finalizzata ad indurre i dipendenti a dimettersi. Chiaramente l’elemento della violenza va inteso in senso lato, è cioè sufficiente l’impiego di qualsiasi mezzo che sia idoneo a privare coattivamente la persona offesa della libertà d’azione e di autodeterminazione. La violenza può essere, quindi, anche di carattere psicologico, non esclusivamente materiale.
G. De Falco, E’ violenza privata il mobbing per indurre i dipendenti a dimettersi, in Cass. Pen., 2008, I.
[12] GUP Milano, 30 settembre 2011, Giud. Manzi, imp. S. e altro.
[13] S, Beltrani, La rilevanza penale del mobbing, cit., pag. 1295.
R. Bartoli, Fenomeno del mobbing e tipo criminoso forgiato dalla fattispecie di maltrattamenti in famiglia, nota a Gup Milano, 30 settembre 2011, Giud. Manzi, imp. e altro, in penalecontemporaneo.it
Il Bartoli critica la conclusione a cui giunge la sentenza indicata nella nota precedente, in quanto non è tanto il criterio delle dimensioni dell’azienda ad essere dirimente rispetto al problema della riconducibilità del mobbing alla fattispecie di maltrattamenti, quanto quello della personalità-impersonalità del rapporto intercorrente tra il datore e il lavoratore.
C. Parodi ,Ancora su mobbing e maltrattamenti in famiglia, nota a Tribunale di Milano, sez. V penale, 30 novembre 2011, giud. Canali, in penalecontemporaneo.it .
Anche il Parodi, commentando la sentenza Tribunale di Milano, sez. V penale, 30 novembre 2011, giud. Canali, esprime favore per le conclusioni a cui giunge il giudice milanese che sceglie di non seguire l’orientamento restrittivo.
Innanzitutto il Tribunale di Milano non intende svolgere alcuna indagine circa la natura parafamiliare del rapporto tra datore e lavoratore, poiché ciò che rileva è la sussistenza di un rapporto d’autorità, rapporto specificamente preso in considerazione dall’art. 572.
Autorità da intendersi in senso giuridico, cioè la dipendenza di una persona da un’altra in forza di un vincolo di soggezione particolare, che non necessariamente – nell’economia della norma – deve avere natura familiare o parafamiliare.
Inoltre non rileva il fatto che il maltrattante sia il datore di lavoro o un superiore, se tra i due si instaura un rapporto personale diretto, “ Il lavoratore subordinato alle dipendenze di un datore di lavoro ‘impersonale’ cui ‘ ‘presta solo il suo tempo e le sua capacità intellettuali e fisiche’ può solo ‘affidare’ al superiore gerarchico con cui abbia una quotidiana, diretta e personale interazione la ragionevole pretesa di ‘serenità e rispetto’ nella dinamica del rapporto lavorativo che non può, proprio per la sua l’impersonalità ,‘affidare’ – se non in via mediata - al datore di lavoro l’interazione diretta e personale tra il lavoratore dipendente e la persona in posizione gerarchica superiore che eserciti su di esso il potere connesso alla sua autorità organizzativa e produttiva, sia condizione necessaria e sufficiente ( ove ricorrano gli estremi di condotte maltrattanti) ad integrare il reato i cui all’art. 572 c.p.”.
[14] L. Alfani, La rilevanza penale delle condotte di mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, Cass. Pen., fasc.1, 2016, pag. 213
[15] Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416, in Dir. &giust., 2014.
[16] In questo senso v. anche Sez. VI, 23 giugno 2015, n. 40320, in C.E.D. Cass., n. 7412, con nota di Piras, Il direttore di cardiochirurgia “preferisce” alcuni colleghi ad altri: è mobbing!, in Dir. &giust.,fasc.36,2015,p.32.
[17] Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416, cit
[18] L. Alfani, La rilevanza penale delle condotte di mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, Cass. Pen., fasc.1, 2016, pag. 213
[19] L. Alfani, La rilevanza penale delle condotte di mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, Cass. Pen., fasc.1, 2016, pag. 213
[20] L. Alfani, La rilevanza penale delle condotte di mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, Cass. Pen., fasc.1, 2016, pag. 213
[21] A. Zoli, Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili anche all'interno di imprese medio-grandi, 28 gennaio 2015, in penalecontemporaneo.it
[22] A. Zoli, Sulla rilevanza penale del mobbing: i maltrattamenti sono configurabili anche all'interno di imprese medio-grandi, cit.
[23] L. Alfani, La rilevanza penale delle condotte di mobbing nelle aziende di grandi dimensioni, Cass. Pen., fasc.1, 2016, pag. 213
[24] Sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 53416, cit.