Pubbl. Ven, 10 Mag 2019
Diniego di riconoscimento della cittadinanza per la commissione di un reato
Modifica paginaNota a Consiglio di Stato, sentenza n. 1837 del 20 marzo 2019 - Pres. Lipari, Est. Noccelli.
Sommario: 1. Premessa; 2. Brevi cenni in materia di cittadinanza; 3. Il caso di specie; 4. Conclusioni.
1. Premessa.
La Pubblica Amministrazione, nel riconoscere la cittadinanza ai sensi dell’art. 9 della l. n. 91 del 1992 (cd. per naturalizzazione), deve porre in essere un’accurata valutazione circa l’effettiva integrazione dello straniero nella società italiana e non può limitarsi, pur nel suo ampio apprezzamento discrezionale, ad un giudizio sommario, superficiale ed incompleto, ristretto alla mera considerazione di un fatto risalente, per quanto sanzionato penalmente, senza però contestualizzarlo. Occorre, dunque, compiere un’ampia e bilanciata disamina che tenga conto anche dei legami familiari del richiedente, dell'attività lavorativa svolta, del suo reale radicamento al territorio e, più in generale, della sua complessiva condotta che, per quanto non perfettamente specchiata sul piano morale, deve comunque mostrare, perlomeno ed indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento di cui si chiede di far parte con la domanda di concessione della cittadinanza, a partire dai principi personalistico e solidaristico.
Questa è la massima che è possibile ricavare dalla lettura della sentenza n. 1837 del 20 marzo 2019 resa dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato.
La fattispecie che ha stimolato l’intervento del Supremo Consesso Amministrativo trae origine dalla presentazione, da parte di un cittadino iracheno munito di permesso di soggiorno di lungo periodo UE, di un’istanza volta alla concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9 comma 1 lett. f della l. n. 91 del 1992. Questa, però, veniva respinta sulla base di una precedente condanna del richiedente per guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di stostanze stupefacenti o psicotrope ex art. 187 comma 1 d.lgs. 30.4.1992 n. 385 (cd. codice della strada).
Avverso il diniego, lo straniero ricorreva innanzi al T.A.R. Lazio – sede di Roma, il quale respingeva il ricorso.
Avverso la sentenza di primo grado, l’interessato proponeva allora appello, il quale veniva successivamente accolto sulla scorta di diverse e convincenti argomentazioni condensate nella massima sopra riportata.
2. Brevi cenni in materia di cittadinanza.
Prima di analizzare più da vicino il decisum del Giudice d’Appello Amministrativo, e ai fini di una migliore intelligenza della sua pronuncia, appare opportuno ricostruire, seppur brevemente, la disciplina prevista nel nostro ordinamento in materia di concessione e revoca della cittadinanza.
Per definizione, la cittadinanza è uno status cui la Costituzione riconnette una serie di diritti e di doveri[1].
Nel novero dei primi rientrano i diritti politici (quali l’elettorato attivo e passivo ex art. 48 Cost.; il referendum ex art. 75 Cost.; la libertà di organizzazione dei partiti ex art. 49 Cost.; il diritto di petizione ex art. 50 Cost.; il diritto di accedere ai pubblici uffici ex art. 51 Cost.), ossia quei diritti che permettono ad un soggetto di partecipare alla vita politica del proprio Paese collaborando con gli altri consociati alla formazione di decisioni che interessano e coinvolgono l’intera comunità. In tal modo viene compiutamente realizzato il principio d’ordine generalissimo della sovranità popolare di cui all’art. 1 comma 2 Cost. .
Si noti che la Costituzione riserva questi diritti ai soli cittadini, seguendo in ciò la tradizione che lega la titolarità dei diritti politici allo status di membro della collettività (il c.d. status activae civitatis)[2]. Occorre tuttavia subito precisare che, nel corso degli ultimi anni, la costante e sempre maggiore apertura del nostro sistema giuridico a quello sovrananzionale (internazione e, soprattutto, europeo) ha messo in crisi tale classico assunto, con l’inevitabile conseguenza dell’estensione di alcuni diritti politici anche a soggetti che, sebbene non cittadini italiani, godono di particolari posizioni giuridiche (quali i cittadini di altri Stati membri dell’Unione Europea, rectius i cittadini europei).
Passando ai doveri, invece, si usa normalmente fare differenza tra principi astratti, non immediatamente convertibili in specifiche regole comportamentali (quali il dovere di solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2 Cost.; il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società ex art. 4 comma 2 Cost.; il dovere di fedeltà alla Repubblica ex art. 54 comma 1 Cost.) e doveri che, al contrario, sono già ben delineati e tratteggiati all’interno del testo costituzionale (quali il sacro dovere di difendere la Patria ex art. 52 Cost. e quello di concorrere alle spese pubbliche in ragione delle proprie capacità contributive ex art. 53 Cost.).
Nonostante l’indubbia baricentricità del concetto di cittadinanza, non solo per il nostro ma per ogni moderno Stato di diritto, ad esso si riferisce espressamente solo una disposizione della Carta Fondamentale, ossia l’art. 22, il quale esclusivamente prescrive, tra le altre cose, che nessuno può essere privato della cittadinanza per motivi politici. Per il resto, Essa tace sul punto.
Le modalità d’acquisto e perdita della cittadinanza, i suoi caratteri e le prerogative ad essa connesse sono infatti disciplinate dalla l. 5 febbraio 1992 n. 91 e successive modificazioni, recante “nuove norme sulla cittadinanza”. Tale peculiare organizzazione sistematica ha portato parte della dottrina (Porena; Cuniberti) ha mettere in evidenza che mentre, da un lato, la modifica di alcune posizioni soggettive legate al possesso della cittadinanza (come il diritto di voto) richiede il ricorso alla procedura aggravata ex art. 138 Cost., in quanto la disciplina delle stesse alberga nella Costituzione, dall’altro, la modificazione, per esempio, dei requisiti richiesti per l’ottenimento dello status di cittadino è affidata agli ordinari procedimenti legislativi in balia, a loro volta, della mutevole maggioranza parlamentare e di Governo[3]. Il ché può apparire, sotto certi aspetti, quasi paradossale se si pensa che è più semplice intervenire, attraverso rimodulazioni e rettifiche, sul presupposto logico-giuridico invece che sui suoi effetti.
Tra le modalità d’acquisto della cittadinanza, quella che più ci interessa, in relazione al caso sottoposto alla nostra attenzione, è quella per cd. naturalizzazione ex art. 9 l. 91/92.
La cittadinanza italiana per naturalizzazione può essere concessa allo straniero residente legalmente nel territorio italiano per un periodo variabile in relazione alle qualità o agli status posseduti.
Si tratta di un provvedimento altamente discrezionale, a differenza di quanto previsto per il caso di acquisto della cittadinanza per matrimonio (cd. per iuris communicatio) che, di contro, è considerato un atto dovuto in presenza dei requisiti richiesti dalla legge ed in assenza dei motivi ostativi.
L’Amministrazione, come peraltro affermato più volte dal Consiglio di Stato, ha il dovere di effettuare una valutazione, oltre che dei requisiti previsti dalla legge, anche della conformità all'interesse pubblico della naturalizzazione: quindi non si valuta il solo interesse del richiedente. Nella valutazione dell'interesse pubblico particolare rilievo assume quindi la condotta tenuta dall’interessato, il livello di integrazione nel tessuto sociale, la posizione reddituale e l’assolvimento dei correlati obblighi fiscali e infine la volontà inequivocabile di entrare a far parte della comunità italiana.
La cittadinanza viene concessa con decreto del Capo dello Stato, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'Interno[4]. La relativa domanda, indirizzata al Presidente della Repubblica, deve essere presentata alla Prefettura-Ufficio territoriale di Governo della provincia di residenza.
Le condizioni previste dalla legge per la concessione della cittadinanza devono permanere fino al giuramento, che deve essere prestato entro 6 mesi dalla notifica del decreto di concessione della cittadinanza.
Il termine per la definizione dei procedimenti amministrativi per la concessione della cittadinanza per naturalizzazione è di quarantotto mesi dalla data di presentazione dell’istanza. Esso può essere sospeso per la necessità motivata di acquisire informazioni, o documentazione integrativa, non già in possesso dell'Amministrazione, né acquisibili presso altre Amministrazioni.
3. Il caso di specie.
Nel caso di specie, il ricorrente invocava a fondamento della relativa istanza l’intervenuta naturalizzazione per aver risieduto legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica Italiana. Siffatta istanza, come già preannunciato, veniva rigettata, dal Ministero dell’Interno prima e dal Tribunale di prime cure dopo, per essere stato il richiedente condannato ad una pena pecuniaria – un’ammenda di € 3.078,00 – irrogata per un risalente episodio di guida in stato di alterazione dovuta all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, ai sensi dell’art. 187 comma 1 del d.lgs. n. 285 del 1992.
Tale impostazione, però, veniva censurata in toto dal Giudice di secondo di grado, il quale, definitivamente pronunciando sull’appello e in totale riforma della sentenza di primo grado impugnata, annullava il decreto del Ministero dell’Interno.
Diverse sono le argomentazioni e le motivazioni, tanto in fatto quanto in diritto, addotte dal Consiglio di Stato a sostegno del proprio provvedimento giurisdizionale.
In primo luogo, va rilevato che la fattispecie di cui all’art. 187 comma 1 d.lgs. n. 285 del 1992, per la quale l’istante era stato in precedenza condannato, non rientra in alcuna delle ipotesi ostative al rilascio della cittadinanza indicate all’art. 6 comma 1 della l. 92/91, il quale espressamente recita che “precludono l’acquisto della cittadinanza: la condanna per uno dei delitti previsti nel libro secondo, titolo I, capi I, II e III, del codice penale; la condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione; ovvero la condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di una autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia; la sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”. La contravvenzione de qua, pertanto, non rientra, a ben vedere, in nessuna delle ipotesi specificamente menzionate dalla disposizione richiamata, di talché non può, quantomeno essa sola, impedire la concessione dello status civitatis richiesto: lo impedisce l’esegesi letterale-restrittiva della medesima.
Per di più, giova rammentare che è successivamente intervenuta, con riguardo a tale condanna, la riabilitazione e quest’ultima, giusto il disposto dell’art. 6 comma 3 l. 91/92, ne fa cessare gli effetti preclusivi, compresi anche quelli eventualmente legati all’impossibilità di concessione della cittadinanza. La riabilitazione, del resto, come la stessa Sezione aveva già in precedenza ricordato (Cons. St., sez. III, 30 luglio 2018, n. 4686), comporta l’accertamento del completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato (Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089).
Appare, poi, quantomeno generico il rilievo, contenuto della pronuncia censurata, per il quale “la condotta del richiedente è (rectius: sarebbe) indice di inaffidabilità e di una non compiuta integrazione nella comunità nazionale desumibile da un complesso di situazioni e comportamenti, posti in essere nel corso della permanenza nazionale – e, in particolare, nel decennio anteriore alla data di presentazione della domanda – idonei a fondare l’opportunità della concessione del nuovo status civitatis.
Quale sia, però, questo «complesso di situazioni e comportamenti», tuttavia, non è dato desumere dal provvedimento ministeriale. Ciò a fronte, soprattutto, degli elementi rappresentati in sede procedimentale dall’appellante, che ha rappresentato di vivere da lunghi anni in Italia perfettamente integrato nel tessuto sociale, senza che tali elementi siano stati valutati e bilanciati expressis verbis nel provvedimento ministeriale. Non può dunque la pubblica amministrazione, nel denegare il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione richiesto ai sensi dell’art. 9 della l. n. 92 del 1991, fondare il proprio giudizio di mancato inserimento sociale sull’astratta tipologia del reato – la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope – e sulla sua pericolosità, astratta o presunta, senza apprezzare tutte le circostanze del fatto concreto e, benché la sua valutazione sia finalizzata a scopi autonomi e diversi da quella del giudice penale che ha concesso la riabilitazione del condannato, non per questo essa può esimersi da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore come anche della personalità del soggetto”[5].
In tal senso, allora, sarebbe stato indubbiamente più corretto, da parte del Giudice adito in prima istanza, tener conto, prima di pronunciarsi in ordine alla richiesta per cui fu causa, della situazione lavorativa dell’istante, dei suoi legami familiari e sociali così come del contesto economico e culturale nel quale egli era inserito; solo così sarebbe stato possibile desumere il concreto grado di adesione del soggetto ai valori fondamentali dell’ordinamento di cui egli chiedeva di far parte attraverso la presentazione della domanda di riconoscimento della cittadinanza, la cui concessione o diniego non può e non deve fondarsi su semplici, erronei e pregiudizievoli automatismi.
Peraltro, in quest’opera di valutazione complessiva della condotta del richiedente, non è possibile esigere dallo straniero “un quantum di moralità superiore a quella posseduta mediamente dalla collettività nazionale in un dato momento storico, sicché il giudizio sulla integrazione sociale dello straniero richiedente la cittadinanza italiana, sebbene debba tenere conto di fatti penalmente rilevanti, non può ispirarsi ad un criterio di assoluta irreprensibilità morale, nella forma dello status illesae dignitatis, o di impeccabilità sociale, del tutto antistorico prima che irrealistico e, perciò, umanamente inesigibile da chiunque, straniero o cittadino che sia.
Un simile criterio, nella sua aprioristica purezza e in una visione eticizzante dello Stato portatore di una morale superiore ed escludente, implicherebbe l’impossibilità di ottenere la cittadinanza per il sol fatto di avere compiuto un reato, anche se non avente una concreta – concreta, si noti, e non meramente astratta o presunta – carica di disvalore morale o di pericolosità sociale per l’ordinamento giuridico.
Si verrebbe a realizzare, in questo modo, un’irragionevole chiusura della collettività nazionale all’ingresso di soggetti che, pur avendo tutti i requisiti per ottenere la cittadinanza, si vedono privare di questo legittimo interesse, attinente anche all’esercizio di diritti fondamentali, in assenza di un effettivo, apprezzabile, interesse pubblico a tutela della collettività, e per mere fattispecie di sospetto in danno dello straniero”[6].
Il ché non appare tollerabile in un moderno Stato di diritto che pone, quale valore cardine dell’intero sistema giuridico, la dignità umana (art. 2 Cost.).
4. Conclusioni.
Sulla scorta di tutte le pregresse considerazioni, il Consiglio di Stato ha dunque accolto l’appello proposto dal cittadino iracheno, scardinando, sotto molteplici aspetti, le argomentazioni poste a sostegno della tesi sostenuta dal Giudice di primo grado. Per l’effetto, disponeva l’annullamento del decreto di diniego in precedenza emanato dal Ministero dell’Interno ed oggetto di contestazione, invitandoLo, nel contempo, a “rivalutare l’effettiva pericolosità dello straniero senza preconcetti e immotivati apriorismi in presenza di una qualsivoglia condanna penale”[7].
Note e riferimenti bibliografici
[1] R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto Costituzionale, XI Ed., Giappicchelli Editore, Torino, 2010, p. 24.
[2] Ivi, p. 561
[3] F. Del Giudice, Manuale di diritto costituzionale, XXXII Ed., Edizioni Giuridiche Simone, 2017, p. 16.
[4] Ivi, p. 17.
[5] Consiglio di Stato, sentenza n. 1837 del 20 marzo 2019.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.