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Pubbl. Sab, 20 Apr 2019

Rapporto tra causalità della condotta e causalità della colpa: gli errori dei medici

Mauro Giuseppe Cilardi
AvvocatoUniversità degli Studi di Bari


Pur afferendo a due piani strutturali differenti, la causalità della condotta e la causalità della colpa presentano punti di interferenza, da cui derivano rilevanti conseguenze nell´ambito degli errori dei medici succeduti nel trattamento sanitario del paziente.


Sommario: 1. Natura e accertamento della causalità della condotta; 2. I requisiti della colpa; 3.1. Punti di contatto tra causalità materiale e causalità della colpa nei reati commissivi; 3.2. (segue) e nei reati omissivi; 4. Un’applicazione delle coordinate tracciate: gli errori dei medici; 5. Riflessioni conclusive.

Sommario: 1. Natura e accertamento della causalità della condotta; 2. I requisiti della colpa; 3.1. Punti di contatto tra causalità materiale e causalità della colpa nei reati commissivi; 3.2. (segue) e nei reati omissivi; 4. Un’applicazione delle coordinate tracciate: gli errori dei medici; 5. Riflessioni conclusive.

1. Natura e accertamento della causalità della condotta.

La causalità della condotta o causalità materiale esprime la partecipazione oggettiva del reo al fatto illecito, rappresentando il punto di collegamento tra la condotta e l'evento offensivo. Essa costituisce un requisito strutturale sul cui accertamento si sono stratificate nel tempo diverse teorie di matrice dottrinale e giurisprudenziale, a causa della lacunosa disciplina normativa.

Il codice penale si limita, infatti, ad enunciare la causalità in due norme, senza tuttavia definirne né il contenuto né le modalità di verifica. In particolare, l’art. 40, comma 1 c.p. consacra la necessità, ai fini punitivi, che l’evento, da cui dipende l’esistenza del reato, si ponga come conseguenza della condotta realizzata in rerum natura, precisando poi, al comma 2, che è possibile addebitare l’evento alla condotta, anche laddove quest’ultima si sia sostanziata nella mera inerzia, purché sia violativa di uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento posto in capo al consociato. Nella medesima ottica, poi, l’art. 41 c.p. sancisce l’irrilevanza ad escludere il rapporto di causalità da parte delle concause precedenti, concomitanti o successive, a meno che queste ultime non siano state da sole sufficienti a produrre l’evento.

Appurata, dunque, la necessità di elaborare un criterio di accertamento causale, la dottrina e la giurisprudenza hanno da tempo aderito alla teoria condizionalistica, anche detta della condicio sine qua non, in virtù della quale una condotta può dirsi causa dell’evento soltanto se, eliminata mentalmente dal decorso causale nei reati commissivi o supposta come commessa nei reati omissivi, l’evento non si sarebbe verificato. Tale teoria, tuttavia, lungi dall’essere risolutiva, si presta a plurime obiezioni ed inconvenienti pratici.

Se portata alle estreme conseguenze, infatti, essa legittimerebbe la cosiddetta regressione all’infinito, conducendo a colpevolizzare del reato di omicidio anche i genitori dell’assassino, in quanto la nascita del reo potrebbe, astrattamente, essere inserita nella sequenza causale che conduce alla commissione del delitto, con conseguenze eticamente inaccettabili. Inoltre, la tesi in parola non è idonea a spiegare i processi causali atipici, durante i quali intervengono fattori alternativi a cui è logicamente possibile ricondurre l’evento prodotto: si parla, al riguardo, di causalità alternativa ipotetica e causalità addizionale, per far riferimento ai casi in cui, rispettivamente, un edificio esplode non per la dinamite posizionata nelle vicinanze, ma per un incendio divampato accidentalmente da una proprietà adiacente e la vittima muore in seguito all’assunzione di una sostanza avvelenata prima da un soggetto e poi da un altro in successione. Infine, la teoria della condicio sine qua non è priva di utilità, qualora non sia possibile, allo stato dell’arte, ricondurre l’evento ad uno specifico antecedente fenomenico.

Per superare tali obiezioni, allora, gli studiosi del diritto hanno elaborato diverse teorie, che correggono la rigidità applicativa della teoria condizionalistica.

Secondo i sostenitori della tesi della causalità adeguata, è necessario selezionare, tra tutti gli antecedenti ricavati dal giudizio controfattuale ex post, solo quelli idonei secondo un giudizio di idoneità ex ante e in concreto. E’ possibile, cioè, considerare cause penalmente rilevanti soltanto quelle azioni od omissioni che, secondo un giudizio di prevedibilità condotto alle luce delle regole di esperienza sulla scorta delle conoscenze possedute dall’agente, risultino idonee a cagionare l’evento concreto. Tale corrente ermeneutica si espone, tuttavia, a rilievi critici, laddove utilizza, come parametro di accertamento causale, quello relativo alla prevedibilità della verificazione dell’evento, fortemente legato al piano soggettivo dell’imputabilità, con conseguente indebita commistione tra piano oggettivo e sostrato psicologico.

Si è, pertanto, fatto ricorso alla teoria della causalità umana, ascrivendo capacità eziologica unicamente a quei fattori che l’uomo è in grado di controllare in forza dei propri poteri di signoria e di dominio, escludendo, dunque, dal novero degli antecedenti rilevanti gli accadimenti connotati da eccezionalità. Pur sostituendo il concetto di prevedibilità con quello di eccezionalità, tuttavia, anche questa tesi non è esente dalla medesima critica evidenziata a proposito della precedente teoria, in quanto è evidente lo sconfinamento dal piano prettamente materiale, su cui il nesso di causalità fattuale impone di soffermarsi.

La più recente dottrina e giurisprudenza, pertanto, memori della fallacia delle suesposte linee di pensiero, hanno formulato una serie di correttivi alla teoria condizionalistica, per superare le incongruenze operative evidenziate.

Innanzitutto, la c.d. regressio ad infinitum può essere evitata mediante il ricorso alla colpevolezza e, quindi, all’addebitabilità psicologica del fatto di reato al suo autore. È possibile, inoltre, evitare le difficoltà applicative legate alle ipotesi di causalità alternativa ipotetica e causalità addizionale, collocando l’evento dannoso o pericoloso nella precisa dimensione spaziale e temporale in cui si è verificato; si suole, a tal proposito, parlare di evento hic et nunc. In terzo ed ultimo luogo, nell’ipotesi in cui non si disponga di conoscenze scientifiche sufficienti per spiegare con certezza assoluta la derivazione causale dell’evento, si afferma che il giudice può ricorrere a leggi di copertura scientifica a carattere probabilistico. Quest’ultima osservazione merita di essere approfondita, in quanto rappresenta sicuramente l’aspetto più attuale e di portata operativa più importante nell’operazione di accertamento del nesso causale materiale.

Invero, come asserito nella storica sentenza Franzese delle Sezioni Unite del 2002, per spiegare il legame causale tra due accadimenti naturali, il giudice deve primariamente individuare la legge scientifica di copertura, non potendo egli stesso elaborare ex novo un legame derivativo tra i fenomeni, pena il rischio di indebite derive soggettivistiche del processo. Considerato, però, che non tutte le relazioni di causa-effetto possono essere spiegate con un grado prossimo o equivalente alla certezza, i giudici di legittimità si mostrano sensibili al ricorso a leggi scientifiche di carattere statistico, che spiegano il nesso fenomenico secondo criteri di probabilità. La Cassazione precisa, al tempo stesso, che percentuali maggiori o minori di verificazione dell’evento non sono decisive, in quanto il criterio dirimente che deve orientare l’opera del giudice in tale fase processuale è quello della probabilità logica o della credibilità razionale. In particolare, una volta appurato che un dato antecedente cagioni un determinato evento in una percentuale significativa o meno di casi, si deve accertare l’eventuale incidenza concreta di fattori causali alternativi, che abbiano spezzato il legame naturalistico tra la condotta ascritta all’imputato e l’evento hic et nunc. E solo l’esito negativo di tale iter ricostruttivo può condurre all’affermazione del nesso causale diretto tra l’azione o l’omissione penalmente rilevante e l’evento e, quindi, dell’imputabilità oggettiva del fatto di reato all’autore.

2. I requisiti della colpa.

L’accertamento della causalità materiale non soddisfa l’esigenza garantistica propria del diritto penale moderno. Per poter, invero, affermare la responsabilità penale del soggetto, è necessario che venga accertato il legame psicologico tra l’autore e il fatto posto in essere, in virtù del carattere personale della responsabilità penale, sancito dall'art 27, comma 1, Cost. A tal riguardo, particolarmente dibattuti in dottrina e in giurisprudenza sono i rapporti tra la causalità materiale e la causalità della colpa, che costituisce uno degli elementi costitutivi dell’elemento soggettivo de quo, individuato dalla dottrina e dalla giurisprudenza sulla base dell’art. 43, comma 2, c.p.

In particolare, la colpa rappresenta un elemento soggettivo addebitabile al reo solo nei casi espressamente previsti dal legislatore e si compone di quattro requisiti, di cui giova ricordare i caratteri essenziali.

Innanzitutto per colpa si intende la non volontarietà, seppur eventualmente affiancata dalla previsione, dell’evento cagionato ed è contrapposta all’elemento doloso, che si sostanzia, invece, nella volontà intenzionale, diretta od eventuale, di determinare l’evento hic et nunc. Dal punto di vista empirico, poi, la condotta colposa deve consistere in una violazione di norme di carattere precauzionale, che possono essere sia scritte e sia ricavabili dall’esperienza e, in quest’ultimo caso, enucleabili nei concetti di diligenza, prudenza e perizia. Essendo, inoltre, un criterio operante sul piano soggettivo, ai fini della sua integrazione è imprescindibile la valutazione positiva sulla concreta possibilità dell’agente di tenere il comportamento imposto dalla regola trasgredita: tale requisito è comunemente noto come esigibilità della condotta doverosa.

Infine, la formulazione letterale dell’art. 43, comma 2, c.p. evidenzia la necessità che l’evento concreto sia riconducibile alla violazione delle norme precauzionali ed in ciò si sostanzia l’ulteriore elemento della causalità della colpa. In particolare, al fine dell’addebito per colpa, non è sufficiente accertare che l’evento sia stato materialmente causato dal comportamento penalmente rilevante, ma è necessario provare che l’evento sia derivato dalla violazione della regola cautelare.

3.1. Punti di contatto tra causalità materiale e causalità della colpa nei reati commissivi

Secondo la dottrina e la giurisprudenza ormai prevalenti, l’accertamento della causalità della colpa va condotto secondo due parametri in sequenza successiva. Innanzitutto, il criterio della concretizzazione del rischio impone al giudice di verificare che l’evento prodotto sia ascrivibile nel novero degli eventi che la norma precauzionale aveva la finalità di prevenire. Tale esigenza deriva dalla circostanza che idonea a fondare la responsabilità colposa è la violazione non di qualsiasi norma penale, ma soltanto di quei precetti volti ad evitare la verificazione di determinati eventi lesivi mediante l’imposizione di una specifica condotta.

In secondo luogo, il giudice deve accertare, sempre nell’ambito della causalità della colpa, se la condotta descritta nella fattispecie penale violata sarebbe valsa, qualora fosse stata posta in essere, ad impedire quel determinato evento dannoso o pericoloso, secondo un giudizio di regolarità statistica. È evidente la comunanza di questo criterio con il giudizio controfattuale richiesto nei reati commissivi ai fini dell’accertamento del nesso causale materiale, dal quale diverge, tuttavia, per il quantum di certezza probatoria richiesta.

Invero, l’orientamento maggioritario sostiene che l’accertamento della causalità della colpa vada condotto prescindendo dalla ricerca della credibilità razionale o logica affermata dalle Sezioni Unite nell’ambito della causalità della condotta. E’ sufficiente, invece, assestarsi su parametri meno rigidi, che conducono all’affermazione della rilevanza causale della colpa nei casi in cui il comportamento alternativo lecito, laddove realizzato, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di impedire la verificazione dell’evento non voluto, secondo una regola statistica. Tale tesi si spiega alla luce della constatazione che la causalità della colpa è un requisito che accompagna la causalità materiale, nei cui confronti si pone come valutazione logicamente succedanea, nel senso che si può accertare l’idoneità causale della colpa solo dopo aver appurato che l’evento è materialmente riconducibile alla condotta.

3.2. (segue) e nei reati omissivi.

L’indagine sull’idoneità della condotta alternativa ipotetica ad evitare l’evento prevenibile si pone in rapporti di stretta affinità con il giudizio controfattuale che il giudice è tenuto ad operare nell’accertamento del nesso di causalità materiale nei reati omissivi.

Sul punto, deve precisarsi che l’accertamento del nesso di causalità materiale è differente a seconda che venga in rilievo un reato di tipo commissivo o di tipo omissivo.

Nei reati commissivi, infatti, l’accertamento si sostanzia in un giudizio ipotetico controfattuale monofasico, in forza del quale si elimina mentalmente la condotta posta in essere e si valuta se, senza tale condotta, l’evento si sarebbe verificato o meno. In altre parole, nei reati commissivi, sussiste il problema di risolvere l’incertezza del decorso causale, in quanto bisogna appurare quale sia il fattore eziologico che ha determinato l’evento offensivo.

Nei reati omissivi, al contrario, la causa della lesione è certa e non si pone il problema dei fattori causali alternativi. Rileva, tuttavia, la questione della condotta attiva omessa.

Di conseguenza, l’accertamento del nesso di causalità materiale ha carattere doppiamente ipotetico, in quanto deve procedersi prima all’eliminazione mentale dell’omissione e successivamente deve sostituirsi quest’ultima con la condotta attiva ipotetica, in modo da valutare, in base ad un giudizio probabilistico, se questa sarebbe stata idonea o meno ad impedire la verificazione dell’evento lesivo.

Si tratta, quindi, di un’indagine che rischia di sovrapporsi a quella richiesta dalla verifica della causalità della colpa, incentrata sull’idoneità eziologica della condotta alternativa ipotetica. Per superare l’evidente impasse, che condurrebbe ad una duplice verifica dal contenuto omologo, la giurisprudenza più recente, sulla base di un attento esame dell’ubi consistam della colpa, ne valorizza la dimensione personale, osservando che l’accertamento della causalità della colpa omissiva non può arrestarsi alla verifica della rilevanza causale della condotta alternativa ipotetica.

In particolare, rilevata la medesima, sarà necessario, altresì, valutare l’esigibilità della condotta alternativa, ossia indagare se, alla luce delle conoscenze di cui dispone l’uomo medio che si trova nelle stesse condizioni e svolge la medesima professione dell’agente, si poteva pretendere dal soggetto attivo la condotta alternativa. L’accertamento della rimproverabilità dell’omissione tenuta consente, dunque, di tenere opportunamente distinte le fasi della verifica causale materiale e dell’indagine sulla causalità della colpa, attenendo esse a due differenti elementi strutturali del reato, l’uno oggettivo e l’altro psicologico.

4. Un’applicazione delle coordinate tracciate: gli errori dei medici.

Così ricostruiti i rapporti tra causalità materiale e causalità della colpa, i maggiori punti di interferenza tra le medesime si sono registrati con riferimento all’ambito della responsabilità medica per errore nel trattamento diagnostico eseguito.

In particolare, la tematica è strettamente connessa all’incidenza causale sortita dalle concause successive da sole sufficienti a cagionare l’evento. Ai sensi dell’art. 41, comma 2, c.p., infatti, esse escludono il legame di causalità materiale tra condotta ed evento. La laconica disciplina codicistica è stata arricchita dall’intervento della dottrina e della giurisprudenza, le quali hanno individuato la nozione di concausa da sola sufficiente a produrre l’evento, elaborando tre tesi.

Secondo quella recessiva ed oggi largamente abbandonata, nota come teoria della causalità sorpassante, tale dev’essere considerata la concausa completamente avulsa dal decorso causale innescato dalla condotta posta in essere per prima. Tale corrente di pensiero è stata, tuttavia, ripudiata per una serie di ragioni. Innanzitutto, la norma parla testualmente di ‘concausa’, facendo evidentemente riferimento ad un fattore che si inserisce nella catena causale innescata dal comportamento del soggetto attivo. Inoltre, una tesi di tal fatta comporterebbe un’interpretazione abrogatrice della norma in questione, in quanto per giungere al medesimo risultato sarebbe sufficiente aderire alla teoria della condicio sine qua non.

E’ stata, pertanto, proposta la teoria della causalità adeguata o umana, in forza della quale la concausa, per escludere il nesso causale tra condotta ed evento, deve porsi come fattore assolutamente eccezionale, straordinario ed imprevedibile secondo un giudizio ex ante di regolarità statistica, rispetto all’operare causale innescato dalla condotta dell’agente. Laddove, quindi, il reo possa impedire la verificazione del fattore successivo, perché può prevederlo o per il potere di signoria che detiene sull’intera sequenza causale, la concausa non potrà recidere il nesso causale tra la condotta e l’evento, con conseguente esito positivo dell’accertamento della causalità materiale.

Sul punto, tuttavia, non sono mancate voci giurisprudenziali dissenzienti, secondo cui l’adesione alla teoria anzidetta e la conseguente indagine sulla prevedibilità del fattore causale successivo comportano un’indebita commistione tra il giudizio su un elemento oggettivo, quale il nesso di causalità, con l’accertamento del requisito colposo, afferente al piano soggettivo. Per questo motivo, la giurisprudenza più recente ha elaborato una terza opzione ermeneutica, che attribuisce rilievo alla creazione, da parte della concausa successiva, di un nuovo rischio rispetto a quello originato dalla condotta imputata all’agente.

Applicando dette coordinate nell’ambito degli errori dei medici, che si susseguono autonomamente nella cura del medesimo paziente, va precisato innanzitutto che tale fattispecie si differenzia sensibilmente dall’ipotesi di lavoro in équipe, nella quale è preminente l’aspetto della cogestione del rischio, sufficiente ad integrare un’ipotesi di reato concorsuale, con tutte le implicazioni pratiche conseguenti ex art. 110 c.p.

Nel caso in cui, invece, il paziente inizi la terapia diagnostica con un medico e, successivamente, si rivolga ad altro operatore per proseguire o modificare la terapia precedentemente avviata, i medici che hanno colposamente cagionato la lesione o la morte del paziente sono responsabili ciascuno del reato in forma monosoggettiva, essendo intervenuti in tempi successivi e diversi.

La fattispecie descritta è, quindi, suscettibile di integrare un’ipotesi di rescissione del nesso causale da parte della concausa successiva da sola idonea a provocare l’evento.

Le incertezze applicative derivano dalla teoria a cui si ritiene di aderire: secondo la tesi dell’imprevedibilità della concausa il primo medico potrà andare esente da responsabilità penale solo se il secondo ha posto in essere una condotta eccezionale; in ossequio all’orientamento dell’eccentricità del rischio, l’irresponsabilità penale del primo medico postula che il secondo medico con la sua condotta abbia creato un rischio totalmente inedito per il paziente.

Sul punto, tuttavia, la dottrina si è mostrata critica, evidenziando come l’accoglimento del filone esegetico del rischio eccentrico produca come conseguenza l’accertamento della causalità tra condotta del primo medico e l’evento, nonostante l’intervento del secondo medico si ponga, all’interno della serie causale, come fattore assolutamente eccezionale e non prevedibile secondo il parametro dell’agente modello.

Inoltre la scarsa persuasività della tesi in parola emerge dal raffronto con la causalità della colpa. Invero, qualora le condotte dei due medici abbiano determinato due eventi lesivi connotati da caratteristiche differenti, l’azione o l’omissione del primo potrà essere considerata causalmente inefficiente sul piano della causalità della colpa, laddove si rilevi che l’evento in concreto cagionato non possa essere ricondotto tra gli eventi di cui la norma precauzionale violata dal primo era preordinata ad impedire la verificazione. Sarebbe, quindi, impropria l’elaborazione della teoria dell’eccentricità del rischio, sia perché condurrebbe a risultati inaccettabili dal punto di vista della giustizia sostanziale e sia perché di scarsa utilità pratica.

5. Riflessioni conclusive.

Conclusivamente, deve inferirsi che la causalità materiale e la causalità della colpa, seppur collocati l’una sul piano oggettivo e l’altra sul versante psicologico, possono porsi tra loro in un legame di interferenza, derivante essenzialmente dalla natura del giudizio di accertamento posto in capo al giudice.

La giurisprudenza tende, tuttavia, a distinguerle sia nei reati commissivi e sia nei reati omissivi. Per quanto riguarda i primi, i giudici sottolineano la differente intensità dell’accertamento processuale. Nei reati omissivi, invece, si evidenzia l’elemento strutturale dell’esigibilità della condotta nella colpa.

I punti di contatto tra i due nessi causali comportano, inoltre, precipitati applicativi rilevanti in settori sensibili, quale quello degli errori dei medici succeduti nel trattamento sanitario del paziente. Invero, la valorizzazione della causalità della colpa permette di dare risposta alla questione dell’efficacia eziologica esclusiva dell’operato pregiudizievole del secondo medico, mettendo in luce l’incongruenza della recente teoria giurisprudenziale dell’eccentricità del rischio a vantaggio della tesi tuttora dominante dell’eccezionalità della concausa successiva. 

Riferimenti bibliografici

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R. Garofoli, Manuale di diritto penale - Parte generale, Neldiritto, Roma, 2018

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