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Pubbl. Mar, 9 Apr 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Dissenso informato alle emotrasfusioni e violenza privata ex art. 610 c.p.

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Tania Terranova


Il rifiuto religioso del sangue: quando la condotta del medico diventa penalmente rilevante.


Sommario: 1. Il caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Termini Imerese: sentenza 6 aprile 2018 (dep. 30 maggio 2018) Giud. Raimondo.- 2. La fattispecie di Violenza privata ex art. 610 c.p. Considerazioni introduttive.- 3. Le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza n. 465/2018: il reato di violenza privata nell’attività medica. – 4. Il consenso informato ai trattamenti sanitari.- 5. Lo stato di necessità.- 6. Conclusioni e problemi aperti.

1. Il caso sottoposto al vaglio del Tribunale di Termini Imerese: sentenza 6 aprile 2018 (dep. 30 maggio 2018) Giud. Raimondo.

Una giovane donna alla tredicesima settimana di gravidanza e aderente alla Congregazione dei Testimoni di Geova, veniva ricoverata presso l’Unità Operativa Complessa di Ostetricia del Presidio Ospedaliero di Termini Imerese per minaccia di aborto e squilibrio idroelettrico. La paziente, perfettamente cosciente e nel pieno delle sue capacità, consegnava, durante il ricovero avvenuto in data 6.11.2010, le “Direttive anticipate relative alle cure mediche con contestuale designazione di amministratore di sostegno”, con le quali faceva presente il rifiuto ai trattamenti emotrasfusionali in quanto Testimone di Geova[1].

La settimana seguente, dopo il ripristino dell’equilibrio idroelettrico e verificato il normale accrescimento del feto, veniva dimessa.

Successivamente, il 21.11.2010, la gestante, per l’insorgenza di dolori addominali e vomito, si recava nuovamente presso l’Unità Operativa di Ostetricia, dove veniva accertato un quadro clinico nella norma e la vitalità del feto. Tuttavia una contestuale ecografia addominale mostrava la presenza di calcolosi alla colecisti, pertanto veniva trasferita nel reparto di Chirurgia Generale, ove il giorno seguente veniva eseguito un intervento di colecistectomia per via laparoscopica.

Nel frattempo, a seguito di alcune complicanze sorte dopo l’intervento di colecistectomia, le condizioni della donna peggioravano e si rendeva, pertanto, necessario un intervento riparatore di redo-laparoscopia.

V’è da precisare che, contestualmente, veniva constatato con TAC addominale e successiva ecografia ostetrica, il decesso del feto, ma comunque, in considerazione del quadro clinico, l'esecuzione del raschiamento uterino non era ritenuta urgente.

Nelle ore a seguire, il personale sanitario, rilevato un decremento dell’emoglobina, riteneva di trasfondere la paziente, la quale opponeva fermo rifiuto in ossequio al suo credo religioso. Tuttavia, a seguito del rilevamento di un ulteriore decremento dell’emoglobina, il personale sanitario, in data 3.12.2010, illustrava il caso al Procuratore di turno per l’autorizzazione a trasfondere, rappresentando il pericolo di vita per la gestante e per il feto. A quel punto il magistrato presso la Procura della Repubblica di Termini Imerese, rispondendo di non essere l’autorità competente ad autorizzare un trattamento coattivo, informava il sanitario che in caso di intervento illegittimo avrebbe potuto rispondere sia in sede civile che penale, ma, ciò nonostante, il medico, dopo aver comunicato sia alla paziente che al personale di essere stato autorizzato alla trasfusione, ordinava l’esecuzione del trattamento contro la volontà della donna.

Conseguita la stabilizzazione, il 6.12.2010, la donna veniva sottoposta a raschiamento uterino e, quindi, il 9.12.2010 veniva dimessa.

Il Tribunale, analizzato il caso, aveva ritenuto di condannare il medico che aveva ordinato il trattamento trasfusionale, in quanto responsabile del reato di violenza privata ex art. 610 c.p., premettendo che la paziente non versava in una situazione di imminente pericolo di vita. La condotta del medico, non essendo scriminata dallo stato di necessità, configurava, pertanto, gli estremi del delitto di violenza privata.

2. La fattispecie di Violenza privata ex art. 610 c.p. Considerazioni introduttive.

Prima di affrontare compiutamente l’analisi della sentenza de qua, appare opportuno delineare i contorni della fattispecie di violenza privata.

Il delitto di violenza privata, rubricato all’art. 610 c.p. si configura come reato istantaneo, per la cui integrazione occorrerebbe che la violenza sia posta in essere con qualsiasi messo idoneo a privare coattivamente della libertà di determinazione l’offeso, il quale, sia costretto a fare, tollerare o omettere qualcosa contro la propria volontà[2].

Dunque, il bene tutelato dal Codice Penale in via principale è la libertà psichica della persona, contro qualsiasi voglia coartazione diretta ed indiretta, ossia l’interesse dello Stato è volto a garantire ad ogni individuo la libertà morale, ossia la facoltà di autodeterminarsi spontaneamente, secondo autonomi processi motivazionali, in modo che la sua libertà di volere o di agire  non sia coartata ad una certa azione, omissione o tolleranza.

In altre parole, la fattispecie in esame, tenderebbe a protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale della vittima, ovvero la libertà individuale come libertà di autodeterminazione e di azione da ogni aggressione alla libertà psichica e non fisica, in quest’ultimo caso verrebbe a configurarsi la diversa fattispecie di sequestro di persona. Secondo quanto affermato dalla Suprema Corte “Il delitto di violenza privata, preordinato a reprimere fatti di coercizione non espressamente contemplati da specifiche disposizioni di legge, ha in comune con il delitto di sequestro di persona l'elemento materiale della costrizione, ma se ne differenzia perché in esso viene lesa la libertà psichica di autodeterminazione del soggetto passivo”[3].

Il delitto de quo è di natura sussidiaria nel senso che esso è ravvisabile ogni qual volta non si configuri, per quel determinato fatto, una diversa fattispecie giuridica e si consuma quando l'altrui volontà sia costretta a fare o tollerare qualche cosa, senza la necessità che l'azione abbia un effetto continuativo, vertendosi in materia di reato istantaneo.

Fatta tale premessa, a beneficio dei lettori è utile approfondire il tema del reato di violenza privata nell’attività medica che ha destato non pochi problemi in ambito giurisprudenziale.

3. Le questioni giuridiche affrontate dalla sentenza n. 465/2018: il reato di violenza privata nell’attività medica.

Il Tribunale, in via preliminare, ha tentato di ricostruire l’evoluzione giurisprudenziale in ordine alla legittimazione dell’attività del medico, richiamando le sentenze più significative intervenute sul tema.

La sentenza in disamina, sotto il profilo della rilevanza penale della condotta del medico, richiamando la pronuncia a Sezioni Unite n. 2437 del 2009, ha rilevato che è stato “ribadito in maniera chiara e inequivocabile il principio della sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere”. Con tale sentenza le Sezioni Unite, mediante lettura costituzionalmente orientata, hanno risolto la questione relativa alla rilevanza penale dell’attività medico-chirurgica a fini terapeutici in caso di mancato consenso del paziente, che da lungo tempo aveva dato luogo a rilevanti contrasti giurisprudenziali e dottrinali.

Il Tribunale ha evidenziato che, nel caso di specie, l’emotrasfusione praticata alla gestante, su precisa disposizione del medico/imputato ritenuto il mandante della violenza privata, era del tutto ingiustificata, poiché mancante di situazione di imminente pericolo di vita.

Inoltre, ha identificato, per l’integrazione della fattispecie de qua, il requisito della violenza in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione della parte offesa. Nella specie, la condotta contestata è scaturita dal compimento di alcune manovre insidiose, col fine di interferire con la libertà di autodeterminazione della paziente, ossia “l’inserimento dell’ago nel corpo della donna dopo aver ricercato idoneo accesso venoso e apposto il laccio emostatico”. Dette manovre, tutte funzionali a far tollerare alla paziente l’emotrasfusione (trattamento sanitario che quest’ultima aveva validamente e lucidamente rifiutato) convergono nella formazione del requisito della “condotta violenta” richiesto per l’integrazione della fattispecie oggetto di imputazione.

Il Giudice siciliano, dopo aver ben individuato la condotta violenta, ha precisato che ulteriore requisito necessario per l’integrazione della fattispecie di violenza privata è l’evento finale, individuato nella coazione data dalla immissione in circolo del sangue all’interno del corpo della donna e quindi nella emotrasfusione “contra voluntatem”.

Affermata, dunque, la responsabilità penale del medico in ordine al reato di violenza privata per aver disposto l’emotrasfusione nonostante il dissenso della paziente, il Tribunale ha affermato, altresì, la sussistenza dell’elemento psicologico del reato de quo, osservando che l’imputato, a dispetto di quanto affermato dalla difesa, non era stato indotto in errore dal magistrato di turno, ma ha osservato che il medico aveva fornito al Pubblico Ministero una falsa interpretazione della realtà, prospettando l’imminente pericolo di vita per la paziente e per il feto (non più in vita), situazione che avrebbe legittimato il ricorso al trattamento coattivo per necessità di salvare il feto, soggetto diverso dall’individuo che aveva prestato il dissenso.

4. Il consenso informato ai trattamenti sanitari.

È opinione ormai pacifica, quella che considera il consenso un diritto del paziente annoverabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ai sensi dell’art. 2 Cost., il quale trova fondamento nella libertà personale ai sensi dell’art. 13 Cost. e nel diritto alla salute ai sensi dell’art. 32 Cost.

Il consenso informato, manifestato dal paziente, opera, quindi, come “causa di giustificazione”, rendendo l’atto medico lecito, poiché l’assistito è titolare dei diritti di libertà personale e alla salute, per cui il medico non può far nulla senza la manifestazione di volontà di costui. Vige, quindi, l’obbligatorietà di acquisire il consenso informato, che trova il proprio fondamento giuridico, come già accennato, nella Carta Costituzionale, ciò in considerazione dell’inviolabilità del diritto alla libertà personale, fisica e morale, quale interesse della collettività e diritto fondamentale del singolo individuo.

È corretto, perciò affermare che la regola del consenso informato, si attaglia perfettamente al principio personalistico che ispira il nostro ordinamento, in quanto espressione della libertà inviolabile di autodeterminazione di ogni individuo, intesa come libertà da costrizioni ai sensi dell’art. 13 Cost., e come libertà nella scelta di sottoporsi al trattamento terapeutico concordato, ad eccezione dei casi previsti dalla legge laddove sia necessario tutelare la collettività dalla pericolosità della malattia (art. 32 comma 2, Cost.).

Ed invero, secondo una lettura del combinato disposto delle due norme costituzionali, discende che la libertà di autodeterminazione terapeutica, “assurge al livello di valore implicitamente costituzionalizzato”[4].

Da ciò, deriva che il medico non è legittimato ad agire, se non in presenza di un’esplicita o implicita manifestazione di volontà del paziente, il quale si affida alla sua opera professionale.

Il Tribunale di Termini Imerese, ha recepito, quindi, le conclusioni della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il consenso espresso dal paziente, a seguito di una informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato.

A tal proposito, ha precisato che il paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive può sacrificare il bene stesso della vita, scelta che deve sempre essere rispettata dal medico.

Ha richiamato, altresì, la sentenza della Cassazione Penale n.35822 del 2001, che stabilisce la “legittimità in sé dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento chirurgico”, e poi la successiva sentenza della Cassazione Penale n.26446 del 2002, nella quale si definisce “insuperabile” l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte. In tali ipotesi, ha evidenziato la sentenza, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata in quanto non è consentito al medico “manomettere” il corpo e l’integrità fisica del paziente contro il suo dissenso.

Appare con chiarezza, quindi, l’imprescindibilità dell’istituto del consenso informato nella ricostruzione del fondamento della legittimità dell’atto medico.

5. Lo stato di necessità.

La sentenza in esame, infine, traccia i confini dello stato di necessità, affermando che “non esiste, infatti, nel nostro ordinamento un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che il perimetro della scriminante dello stato di necessità, alla luce dei sopra richiamati principi costituzionali (artt. 2, 13, 19 e 32 Cost.) è rigidamente circoscritto all’ipotesi in cui il paziente non sia in grado - per le sue condizioni - di prestare il proprio dissenso o consenso, come pure chiarito dalla costante giurisprudenza di legittimità”.

Pertanto, non sussiste, in capo al sanitario, un obbligo incondizionato ed illimitato di curare. Lo stato di necessità, contemplato dall’art. 54 c.p., è stato pacificamente escluso dalla sentenza de qua, in quanto mancante il pericolo imminente di danno grave alla persona, non essendo documentati in cartella clinica, né la presenza di fattori di rischio o di inadeguati meccanismi di compenso, né una compromissione delle funzioni vitali della donna.

Tuttavia, ha affermato che lo stato di necessità non è da ritenersi giuridicamente applicabile neppure nell’ipotesi in cui si versi in una situazione di imminente pericolo indifferibile.

Nel caso di specie, non essendo sufficiente la prospettazione del pericolo di vita della donna, il medico/imputato, con il fine di persuadere il magistrato, ha prospettato il pericolo di vita anche del feto.

Alla luce di quanto argomentato, l’unico caso in cui ritiene possibile l’applicazione della scriminante ex art. 54 c.p. è la situazione di incapacità del paziente, il quale non sia in grado di manifestare nessuna volontà che non abbia espresso neanche precedentemente.

6. Conclusioni e problemi aperti.

Siamo lontani dai tempi in cui Iadecola, nella nota a Pret. Roma, 3 aprile 1997, si muoveva in direzione contrapposta rispetto all’analizzata sentenza siciliana. L’autore, difatti, precisava che la posizione di garanzia rivestita dai sanitari (sopraggiunta nel momento del ricovero) esigeva il compimento della «trasfusione di sangue necessaria quoad vitam anche contro la volontà del paziente», e ciò, a conferma della doverosità dell'intervento nella forma coattiva (insita nella funzione di protezione dei medici). A tale stregua pare che «il paziente non potrebbe esercitare il c.d. diritto di morire al cospetto del sanitario» quale garante della sua salute; giacché in tale circostanza il sanitario non potrebbe trascurare gli obblighi connessi intimamente alla sua carica[5]. Di diversa direzione, invece, il G.I.P. presso la Pretura Circondariale di Milano 1998 nel caso tristemente noto del paziente Testimone di Geova sottoposto a trasfusione coatta tramite T.S.O; difatti fu duramente criticato da Santosuosso, il quale ritenne che il rifiuto di trattamenti emotrasfusionali, come qualsiasi altro rifiuto di terapie c.d. salvavita, susciti dilemmi nei medici, ma è comunque necessaria qualche distinzione: «un conto è il conflitto che vive all’interno del sanitario, e un conto è il conflitto che sorge tra medico e paziente, allorché il paziente rifiuti le cure; in questo caso il conflitto in questione, assume rilevanza esterna, nel senso che la salvezza etica di un paziente si traduce nella coartazione della persona»[6].

Sulla base di quanto argomentato, il sanitario di fronte un paziente appartenente al culto dei Testimoni di Geova, può trovarsi in situazioni paradossali a causa dell’ambiguo orientamento giurisprudenziale.

L’impostazione del Tribunale di Termini Imerese, però, appare coerente alla Convenzione di Oviedo (Art. 5 «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato») e alla Carta di Nizza (Art. 3 « Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge…»), senza considerare quanto espressamente previsto dal Comitato Nazionale di Bioetica, il quale nel documento sul consenso informato ha evidenziato (a proposito del rifiuto religioso del sangue) che «nonostante la sofferenza del sanitario che vede morire il proprio assistito senza poter espletare l'atto terapeutico probabilmente risolutivo, egli deve ispirare il proprio comportamento» al principio secondo il quale «il medico è tenuto alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico non essendo consentito alcun trattamento sanitario contro la volontà del paziente» .

In altri termini, l'emotrasfusione coattiva sembra rappresentare tutto ciò che la nostra Costituzione ha voluto escludere con l'art. 32, comma 2 Cost., poiché sulla base di tale norma, i trattamenti sanitari obbligatori devono essere necessariamente previsti da una legge, non possono essere imposti ed eseguiti coattivamente, dunque, appare ovvio che un trattamento trasfusionale coattivo, posto in essere contro la volontà del paziente rappresenta, in tutto e per tutto un atto lesivo della libertà e della dignità dello stesso.

Ad ogni modo, neanche le sentenze più attuali sono riuscite a mitigare il disorientamento dei medici sul rifiuto dei trattamenti emotrasfusionali, ma nella nuova stagione giurisprudenziale, i sanitari possono trovarsi, finalmente, di fronte a pazienti che rifiutano le trasfusioni attraverso la consegna delle DAT.

Ad oggi, difatti, esiste una legge di riferimento sulle DAT, la Legge n.219/2017, la quale ai sensi dell’art. 4 rubricato “Disposizioni anticipate di trattamento”, prevede «Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari».

In conclusione, alla luce di quanto detto, l’intento del legislatore sembrerebbe evidente: cercare di orientare gli operatori sanitari attribuendo alle volontà precedentemente espresse dal soggetto un maggiore e chiaro peso. Tuttavia, sembra opportuno riflettere sul problema  che scaturisce da uno dei requisiti portanti del consenso libero e informato, ossia l’attualità[7].

Nel passato, anche se non in modo del tutto pacifico, la giurisprudenza ha riconosciuto al paziente il diritto di rifiutare le cure richiedendo che risultasse da una manifestazione di volontà “attuale”; difatti la Cassazione Civile con sentenza 15 settembre 2008 n. 23676, ha precisato che “il rifiuto di sottoporsi ad un trattamento medico seppur salvavita deve risultare purché sia efficace da una manifestazione espressa, inequivoca, informata e soprattutto attuale. Esso deve, cioè, esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un'intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto “ideologica”, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria”[8].

A stretto rigore, tale ragionamento costituisce un dubbio circa la validità della pianificazione delle DAT in un momento anteriore rispetto alla prospettazione della concreta scelta del paziente.

Malgrado ciò, pur se apparendo inadeguata in certi aspetti, la “legge” non costituisce materia rigida e di conseguenza risulta, pertanto, malleabile. Abbiamo finalmente una legge che rispetta i principi acquisiti dal nostro ordinamento in tema di consenso informato e autodeterminazione sui trattamenti sanitari salva-vita e li traduce in norme, quindi diventa più facile il rapporto medico- paziente, poiché, comunque, tale legge si occupa di disciplinare i punti essenziali che servono da guida.

 

[1] I Testimoni di Geova nacquero nei pressi di Pittsburgh (Pennsylvania) nel 1870, quando la guida spirituale Charles Taze Russell diede vita ad un movimento basato sull’interpretazione letterale millenaria della Bibbia soprannominato “Studenti Biblici” (nel 1931 cambiò nome in Testimoni di Geova): per i Testimoni di Geova la Bibbia è l’esatta parola di Dio e non sono ammesse altre interpretazioni. I membri del movimento rifiutano le trasfusioni di sangue dal 1945, ossia da quando apparvero i primi articoli sul divieto di ingerenza di sangue nella rivista del Corpo Direttivo dei Testimoni di Geova, ossia The Watch Tower Bible and Tract Society of Pennsylvania, o più semplicemente Watchtower Society. In quell'anno, infatti, il loro periodico ufficiale «La Torre di Guardia», rispondendo alla domanda se accettare una trasfusione comportasse l'espulsione dalla comunità, affermò: «Le ispirate Sacre Scritture rispondono di si. Questa è una violazione dei comandi di Dio, la cui serietà non dovrebbe essere sminuita da nessun atto di leggerezza, pensando che sia una questione facoltativa su cui l'individuo possa prendere la decisione secondo coscienza». Oggi la comunità dei Testimoni di Geova, riconosciuta dallo Stato Italiano come confessione religiosa ai sensi dell’articolo 2 l. n. 1159/1929 e dall’articolo 10, R.D. n.289/1930, prende il nome di congregazione cristiana dei Testimoni di Geova e di fronte alle trasfusioni di sangue si sono posti con un intento ben preciso, quello di rispettare l’ordine apostolico di astenersi dall’uso del sangue inteso come elemento sacro e fonte di vita . I testi di prova che sono tipicamente citati a sostegno del divieto di ingerenza di sangue sono contenuti in alcuni passi del Levitico (17, 10-14), ove la legge di Mosè proibiva agli Ebrei di bere sangue e nell’Antico Testamento, in vigore già prima della legge mosaica, ove il libro Genesi al passo 9.4 dispone «Dio benedisse Noè e i suoi figli e prescrisse loro il divieto di ingerenza di sangue». In argomento, J. Hendrickson, Management of patients who refuse blood transfusion, in AA.VV., Transfusion Medicine and Hemostasis: Clinical and Laboratory Aspects, a cura di B. Shaz - C. Hillyer, London, 2013, 357 ss; S. Fuso, I nemici della scienza, Bari, 2009, 89 ss; A. Bonifacio, A. Argo, M. Zagra, sub. Consenso dell’arabo-musulmano e nei Testimoni di Geova, in AA.VV., Medicina legale orientata per problemi, a cura di M. Zagra, A. Argo, B. Madea, P. Procaccianti, Milano, 2011, 184.

[2] Cass. pen., sez. 5, sent. n. 3403 del 17 dicembre 2003

[3] Cass. pen., sez. 5, sent. n.44548 dell’8 maggio 2015

[4] N. Todeschini, La responsabilità medica, Milano, 2016, 98.

[5] G. Iadecola, La responsabilità penale del medico tra posizione di garanzia e rispetto della volontà del paziente, in Cass. pen., 1998, 950.

[6] A. Santosuosso, Di una triste trasfusione ematica a Milano/1. Le parole e le cose: a proposito di « violenza etica » su un paziente, in Bioetica 3/2000, 458.

[7] R. Travia, Biotestamento e fine vita: Legge 22 dicembre 2017, n. 219, Vicalvi, 2018, 123 ss.

[8] Cass. civ., sez. III, sent. 15 settembre 2008, n. 23676.