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Pubbl. Ven, 22 Mar 2019

Contraffazione: può essere provata dalla testimonianza della persona qualificata

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Alessandra Inchingolo


Secondo quanto stabilito dalla sent. n. 5753/2018 della Cassazione Penale, la contraffazione risulta provata sulla base della prova dichiarativa della persona qualificata, poiché essendo un mero reato di pericolo non trova applicazione il ”falso grossolano”.


1. Cenni sul falso grossolano

Il delitto di contraffazione, rubricato all’art.474 c.p. si configura come reato di mero pericolo, per la cui integrazione non occorrerebbe la realizzazione dell’inganno del singolo consumatore.
Dunque, la tutela che il Codice appresta in via principale è la pubblica fede, ossia l’affidamento dei singoli cittadini nei marchi e nei segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione” (in tal senso si v. Cass. Pen., Sez. II, sent. 3.4.2008, n. 16821 e più di recente Cass. Pen., Sez. II, sent. 27.4.2012, n. 28423).

Fatta tale premessa, a beneficio dei lettori è utile approfondire il tema del c.d. “falso grossolano”, che ha destato non pochi problemi in ambito giurisprudenziale. Esso è inevitabilmente connesso alla “palese contraffazione”, ovvero alla percezione di beni dalla manifattura scadente e dalla qualità scarsa. Questo allorquando ci si riferisce prevalentemente a capi di abbigliamento, essendo in via di prassi ben più frequente l’ipotesi di contraffazione di beni recanti marchi e loghi palesemente contraffatti, nonché dalla manifattura decisamente scadente.

Due sono i principi di diritto enucleati nel tempo, a seguito dei numerosi interventi in proposito da parte della Cassazione.
Il primo si stabilisce che: “la grossolana contraffazione dei segni distintivi dei prodotti detenuti per la vendita o messi in vendita non può esser desunta sulla base dei soli elementi circostanziali delle condizioni di vendita, del prezzo o della qualità dell’offerente, che rendono solo probabile, ma non incontrovertibile, l’impossibilità di lesione della fede pubblica.
Ne consegue che può ritenersi la grossolanità del falso solo ove il prodotto, per requisiti materiali intrinseci, sia tale da fare escludere l’efficienza causale originaria alla produzione dell’evento lesivo nei confronti non dello specifico acquirente ma dell’intera collettività, sulla base di una valutazione ex ante riferibile a qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza” 
(Cass. pen., Sez. V, sent. 15.07.2014, n. 30958).
Con il secondo, gli Ermellini hanno statuito che: il falso grossolano ricorre quando si è in presenza di falsi immediatamente rilevabili ictu oculi, senza la necessità di particolari indagini, concretizzatisi in un’imitazione talmente goffa, ostentata e macroscopica da non poter ingannare nessuno sulla provenienza lecita del bene” (Cass. Pen., Sez. II, sent. 23.03.2015, n. 12088).

Premesso ciò, peculiare è sicuramente l’ipotesi in cui la “palese contraffazione”, sia rinvenuta da soggetti particolarmente qualificati.
Si pensi sicuramente al caso, più che ricorrente, di un Finanziere che nell’ambito di un normale servizio di controllo su strada rinvenga all’interno dell’autovettura di un soggetto, dei capi di abbigliamento recanti noti marchi e loghi palesemente contraffatti.
In tale ipotesi - stando a quanto stabilito dalla Corte - andrebbe escluso un “falso grossolano”, solo perché all’accertamento vi hanno provveduto soggetti particolarmente qualificati, dotati di specifiche competenze tecnico-professionali, ovvero sarà possibile anche in tal caso parlare di “palese contraffazione”?
Rilevanti le ripercussioni sul piano giuridico-processuale, poiché a seconda della soluzione che concretamente viene ad adottarsi potrebbe configurarsi o meno un’eventuale addebito a norma dell’ art. 474, comma 2, c.p..

Ancor più problematico è inoltre il caso in cui, il giudice facendo affidamento sull’intuito investigativo del militare, venga addirittura ad escludere la necessità di una perizia tecnica sui capi.
Nonostante ciò, deriva per l’organo giudicante la necessità “di interpretare in chiave di offesa le fattispecie vigenti già costruite o comunque convertibili in reati di offesa” (Corte Cost. sent. nn. 62/1986, 333/91, 296/996, 519/2000).
Tuttavia, il principio in commento, imporrebbe di considerare l’elemento dell’offesa alla stregua di un elemento essenziale costitutivo della fattispecie criminosa.
Nell’ipotesi in cui ci si trovi di fronte ad un reato di mero pericolo, come nel caso di specie, ne deriverebbe per il Giudice la necessità di procedere ad un giudizio prodromico utile ad accertare - sulla base di quelli che sono gli elementi di fatto - l’elevata probabilità di verificarsi del supposto evento lesivo, secondo quella che è la comune scienza ed esperienza applicabile al caso concreto.

In virtù di tali argomentazioni, dunque, sarebbe illogico farne discendere un’elevata probabilità di verificarsi di quel determinato evento lesivo, se si ponesse maggiore attenzione all’elemento della “palese contraffazione”, che ben potrebbe esser riferito anche da un teste particolarmente qualificato.
Ne deriva che se un bene o un prodotto, presenta un vizio manifatturiero o altro così evidente, tale da rappresentare una “palese contraffazione”, il Finanziere o il soggetto particolarmente qualificato, ben potrebbe esser equiparato ad un comune cittadino non avente alcun tipo di qualifica in tal senso.
In altri termini, già ad occhio nudosarebbe ravvisabile un’ipotesi di “falso grossolano” , con conseguente configurazione di un reato impossibile a norma dell’art. 49, comma 2 c.p., quale doppione negativo dell’art. 56 c.p.
Del resto, la Suprema Corte si è premurata di precisare che: ”la grossolanità della contraffazione che da luogo a reato impossibile, non va giudicata infatti alla stregua delle conoscenze e delle conclusioni di un esperto di settore. Invero la punibilità è esclusa solo quando il falso siaevidentementei riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza e non si deve far riferimento, né alle particolari cognizioni ed alla competenza specifica di soggetti qualificati, né alla straordinaria diligenza di cui alcune persone possono esser dotate” (in tal senso Cass. Pen., Sez. V, sent. 23.03.2015, n. 12162).
Tale pronuncia costituisce pertanto l’emblema del discorso de quo, non ritenendosi necessario alcun giudizio valutativo di un esperto di settore a tal fine.
Difatti l’errore valutativo in cui ricadono principalmente i Giudici di merito, risiederebbe più che altro nell’escludere a priori la configurazione di un reato impossibile, allorquando sia stato un esperto di settore, appunto, ad eseguire il controllo.
In altri termini, si pensa che il solo fatto che sia intervenuto un esperto di settore all’espletamento dell’attività accertatrice, escluda un’ipotesi di falso grossolano, il ché già su un piano ontologico prima che giuridico, costituisce un paradosso.

2. Il caso

Il caso esaminato dalla Corte prende spunto dal ricorso presentato dal ricorrente, accusato in primo grado e in secondo grado di ricettazione e contraffazione. Orbene,  il Supremo Collegio, in più occasioni, ha affermato come la prova della contraffazione  ben possa essere raggiunta attraverso dichiarazioni testimoniali di persone qualificate, in virtù delle conoscenze acquisite nel corso di abituale e specifica attività (Cass. sez. 3 n. 29891 del 13.5.2015, Diouf, rv 264444-01).
La decisione si fonda, pertanto, su un mezzo di prova legittimo, che è stato oggetto di specifica valutazione, ossia le dichiarazioni testimoniali degli ufficiali di polizia giudiziaria operanti.

In primis va considerato che il delitto di cui all'art. 474 c. p. è integrato dalla detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto e non ha rilievo la configurabilità della contraffazione grossolana, considerato che l'art. 474 c. p. tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell'acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell'ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell'inganno non ricorrendo quindi l'ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno (ex multis: Cass. sez. 5 n. 5260 dell'11.12.2013, Faje, rv 258722-01).

La Corte d’appello ha ritenuto provato, dunque, l’elemento psicologico,  anche attraverso l’esame dei mezzi di prova del delitto di ricettazione per la cui configurabilità, la prova dell'elemento soggettivo può essere raggiunta da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dall'omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta da parte del soggetto agente.

E’ opportuno, a tal riguardo, precisare che  il richiamato principio non deroga ai pricipi in tema di onere della prova, né lede le garanzie difensive,  proprio poiché la stessa norma richiede - ai fini dell'indagine sulla consapevolezza circa la provenienza illecita del bene - il necessario accertamento sulle modalità acquisitive della stessa. Per quanto concerne poi la prova dell’attribuibilità dei beni all’imputato, tanto l’accertamento di polizia giudiziaria, quanto il sequestro della merce eseguito  in due distinte occasioni e in quantità rilevanti e trasportati su un veicolo condotto dall’imputato stesso che ha costituito prova incontrovertibile della condotta penale contestata.

Pertanto, gli Ermellini della II^ Sezione penale, con sentenza 5753/2018 hanno ritenuto inammissibile il ricorso dell’imputato, fondato sulla macroscopica e ostentata falsificazione tale da non poter ingannare nessuno, condannandolo al pagamento delle spese processualie della somma di € 2.000 alla Cassa delle Ammende.