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Pubbl. Mar, 26 Feb 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Processo inquisitorio e ingiusto processo penale: il caso del Governatore della Banca d´Italia Paolo Baffi e di Mario Sarcinelli

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Mariangela Miceli
AvvocatoUniversità degli Studi di Palermo


La storia, la prassi e il libero convincimento del giudice nel processo penale italiano. Il caso del Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, la ricerca della verità processuale.


Sommario: 1. Le coordinate del processo penale; 2. Al di là di ogni ragionevole dubbio; 3.  La riforma del codice di procedura penale del 1988; 4. Tra processo inquisitorio ed accusatorio; 5. Il caso del Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, alla luce del recente orientamento dottrinario della ricerca della verità processuale e del criterio normativo. 6. Conclusioni.

1. Le coordinate del processo penale

Try by probabilities” è il paradigma del processo moderno, tanto che il razionalismo pragmatico e scientifico s’innesta attorno a vari concetti quali: dubbio, decisione, ipotesi, verifica, prova, fatto che ne legittimano la funzione di conoscenza. [1] A differenza del paradigma galileano, tende all’accertamento ottimale della corrispondenza dell’ipotesi al fatto realmente accaduto, ovvero, al di là di ogni ragionevole dubbio.

2. Al di là di ogni ragionevole dubbio

Quando ci apprestiamo a parlare di libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale, non possiamo che far riferimento a un sistema di valutazione della prova penale che poggiava su premesse sostanzialmente irrazionalistiche: un sistema di “prove legali” che aveva finito per alimentare la ferocia inquisitoria "ad eruendam veritatem". [2] Invero, con il passare degli anni il libero convincimento del giudice, insieme al principio della “verità materiale”, è degenerato in un più generale canone d’insofferenza della prova penale a limiti legali, in tutte le fasi del procedimento probatorio, ammissione e acquisizione incluse. [3]

Il principio del libero convincimento finì per trasformarsi “in un equivalente della massima che postula un potere tendenzialmente illimitato del giudice nell’accertamento del fatto e secondo la quale nessun prezzo è troppo alto, quando lo scopo è la ricerca della “verità materiale” e la repressione della criminalità”.[4]

Vale la pena ricordare, però, che il giudice - suo malgrado - produce sempre scienza. Le sentenze possono, più o meno, essere ‘buone’, ottime sentenze di Cassazione provano a illuminare il lato più oscuro della normativa sottoposta ricorso, in quel principio di nomofilachia proprio del Supremo Collegio.

Ma, questo è dir tutto e dir niente insieme. Se c’è un processo significa che sulla res litigiosa non c’è consenso nemmeno nella scienza – quindi in giurisprudenza -  altrimenti il processo finirebbe immediatamente. Di scienza imparziale il Giudice non ne avrà mai perché nessuno è imparziale, e nel processo è ancor più vero. La realtà è sempre più complessa delle teorizzazioni, che tendono per forza propria ad essere più o meno auto rassicuranti.

Non basta la scienza per assolvere, tanto che esistono processi che durano da più di ventanni, tanto che esistono innocenti che scontano anni di carcere ingiustamente.

Il problema della giustizia penale in Italia? Troppi innocenti mandati a processo.

Il presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario avvenuto lo scorso 25 gennaio, ha affermato ch: “al netto delle «direttissime» che «dopano» i dati al rialzo (visto che le condanne fioccano al pianoterra degli arrestati per strada la notte prima), va segnalato che subito in primo grado c’è più di 1 assolto su 3 nei dibattimenti a competenza collegiale del circondario, e addirittura 1 su 2 in quelli monocratici (diversi da quelli definiti con riti alternativi). «Proiettati su base nazionale, vuol dire avere ogni anno 150.000 persone, cioè un milione e mezzo in dieci anni, che attendono in media 4 anni dalla notizia di reato per essere assolti (assolti, non prescritti) all’esito del primo grado».[5]

Non è neppure vero, infatti, che basti il dubbio della scienza per assolvere, almeno finché chi può non decida che il dubbio basti. La scienza, poi, non è comunque democratica. E’ la legge, quindi, che dovrebbe recidere l’incertezza probatoria: i percorsi normativi e procedurali che guidano il ragionamento probatorio e la decisione giudiziale, infatti, sono indicati già essenzialmente nei codici di rito, come lo stesso contraddittorio e la confutazione delle prove a sostegno dell’accusa. La prova della colpevolezza  - in dubio pro reo – e il potere di condannarlo solo se ne risulta provata la colpevolezza “ al di là di ogni ragionevole dubbio”, ai sensi dell’art. 533 c.p.p.

Questa regola, è una regola sistemica delle democrazie post moderne, per la quale le difficoltà di ricostruzione processuale della prova autorizzano il superamento della presunzione di innocenza e la condanna dell’imputato se il dubbio è – appunto – ragionevole.[6] La legge, quindi, si pone come criterio decisorio per risolvere non solo il dubbio logico della ricostruzione probatoria del dubium facti e del dubium iuris. Nella legge, il giudice dovrebbe trovare il filo per uscire dal labirinto ermeneutico della oscurità, stratificazioni ermeneutiche delle fonti regolatrici.

3. La riforma del codice di procedura penale del 1988

Posizione centrale dell’analisi che qui si sta svolgendo assume il codice di procedura penale entrato in vigore il 24 ottobre del 1989. Tale codice, porta la firma dell’allora guardasigilli Giuliano Vassalli e che succede ad un complesso normativo che aveva visto la luce nel lontano 1930, il c.d. “Codice Rocco”. Il codice predetto rappresenta una lunga marcia verso la riforma del diritto processuale penale, iniziata all’indomani del crollo del regime fascista.[7]

Nel 1963 fu presentato un disegno di legge che prevedeva l’emanazione di una legge di delega al Governo per la riforma dei codici, e anche del codice di procedura penale.

Il disegno di legge delega non si concretizzò in nessun provvedimento legislativo.

L’idea fu ripresa nel 1965 e dopo un lungo iter parlamentare la legge delega fu finalmente approvata nel 1974. Questa delega al governo conteneva una serie di principi e direttive ai quali il governo si sarebbe dovuto attenere al fine di emanare un altro codice di procedura penale. Nel 1978 fu pubblicato un progetto preliminare del codice, costituito da 656 articoli e 132 disposizioni preliminari. Ancora una volta il progetto non si concretò nell’emanazione di un codice e trascorsero altri nove anni perché si arrivasse all’approvazione di un’altra legge delega per il codice (legge 16 febbraio 1987, n. 81). Nella delega il parlamento indicava al governo le direttive alle quali il codice di procedura penale si sarebbe dovuto attenere, tra le quali l’impellenza di adeguare il processo penale in Italia al modello delineato nelle Convenzioni internazionali, e l’esigenza di imperniare il procedimento penale intorno a un sistema fondamentalmente accusatorio, anche se alcuni particolari aspetti del sistema italiano, in relazione al dibattimento, fanno anche adesso del processo penale italiano un sistema accusatorio misto.

La delega fu reiterata nelle successive legislature e nella X legislatura fu finalmente adempiuta dal ministro Giuliano Vassalli sulla scorta dei lavori della commissione ministeriale presieduta da Giandomenico Pisapia, che gli rassegnò le sue conclusioni nel 1988.

Previo parere parlamentare, della Commissione bicamerale presieduta da Ignazio Marcello Gallo, il codice di procedura penale fu emanato con decreto del Presidente della Repubblica n. 447 del 22 settembre 1988 ed entrò finalmente in vigore il 24 ottobre 1989.

Dopo una lunga esperienza maturata, quindi, attraverso l’elaborazione della legge delega (già dal 1963 e 1974 in poi), con la l. 16 febbraio 1987, n.81, si ebbe l’attuazione dei caratteri del principio accusatorio secondo i criteri di massima semplificazione nello svolgimento del processo, della partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento, nel rispetto delle regole del contraddittorio e dell’oralità. La riforma del codice di procedura penale del 1988 ha rappresentato come un vero mutamento epocale. Infatti, l’intenzione dichiarata della Legge Delega, era quella di adeguarsi: “alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona” e di “attuare nel processo penale i caratteri del processo accusatorio”. Questo dato sarà bene non trascurarlo, a seguito dell’analisi che procederemo a fare successivamente del processo al Governatore d’Italia Paolo Baffi.

Come ha avuto modo di sottolineare illustre dottrina in merito, la differenza sostanziale tra il sistema inquisitorio e quello accusatorio risiede nel metodo di accertamento dei fatti, incentrato in un caso attorno alla figura del Giudice, nell’altro sul contrasto dialettico tra accusa e difesa davanti al Giudice, che ha il compito di decidere. Invero, il processo di riforma  - lungo e tortuoso – ha rappresentato un punto di arrivo ad un riforma che comunque non ha rotto con il passato, la riforma – alla fine degli anni ‘80 del Codice di Procedura penale – pur in un clima di resistenza istruttoria soprattutto da parte di taluni “operatori” – realizzò un’opera rivoluzionaria nella misura in cui realizzò la netta rottura con una tradizione ultracentenaria di continuità inquisitoria.[8]

L’irreversibilità della scelta legislativa si è inequivocabilmente manifestata con la modifica costituzionale dell’art. 111, che ha costituzionalizzato i principi del giusto processo esaltando la centralità del dibattimento, fondato sul principio del contraddittorio nella formazione della prova.

Volendo accennare alla struttura del codice si può essenzialmente dire che sia diviso in due parti: la prima dedicata all’aspetto per così dire “statico” del processo, tratta in quattro libri, dei soggetti, degli atti, delle prove, dei provvedimenti cautelari personali e reali; la seconda parte dedicata all’aspetto “dinamico”, si occupa, dal quinto libro fino all’undicesimo, delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, dei provvedimenti cautelari, personali e reali; dei procedimenti speciali, del’udienza preliminare, del giudizio, del procedimento avanti il tribunale in composizione monocratica, delle impugnazioni, dell’esecuzione, dei rapporti con le autorità straniere. Il tutto in un contesto 746 articoli, a cui si aggiungono le norme delle successive interpolazioni delle disposizioni racchiuse nei tre titoli destinati alle norme di attuazione. 

4. Tra processo inquisitorio ed accusatorio

Quando si discute di processo  - ed in particolar modo di processo penale – si preferisce parlare prevalentemente di "attività" e di "forme" che provvedono ad attuare la norma penale sostanziale nei singoli casi concreti. E’ proprio dall’insieme di queste forme e di queste attività che può cogliersi il concetto di processo penale: un fenomeno da collocare nella generale categoria, che trova più compiuta elaborazione nel settore del diritto amministrativo, dei ‘procedimenti’ che si caratterizzano per essere composti da diversi elementi, collegati tra di loro.  All’interno del processo penale, però, si attua quella che può essere individuata come l’attuazione della norma penale  in relazione al caso concreto. E’ d’obbligo precisare che in tal senso, anche l’accertamento in negativo dell’illecito e la conseguente negazione della sanzione sfavorevole realizzano attuazione in concreto della norma sostanziale , dal momento ogni norma è destinata ad incidere sull’operare umano; da ciò ne discende che alla negazione della illiceità e ,quindi, della sanzione di giunga non perché siano stati riaffermati la liceità dello status quo ma poiché il meccanismo di accertamento ad un certo momento abbia fatto sì che si dovesse lasciare inattuata la norma sostanziale. [9]

Come si arriva ad un processo in cui si il giudice debba giudicare se un fatto si sia mantenuto nella sfera dell’illecito o del lecito? Due sono a questo proposito le esperienza che contrassegnano nei vari periodi il fenomeno processuale penale, e si esteriorizzano con i c.d. rito accusatorio e l’altro con il c.d. rito inquisitorio.

Il sistema processuale accusatorio nella sua più genuina configurazione, trova fondamento nel diritto romano di epoca repubblicana. Tale rito è caratterizzato dall’accertamento dell’illecito lasciato alla libera iniziativa delle parti contrapposte e dunque, alla presenza di un accusatore che si trova in posizione di parità rispetto all’accusato (in pratica tesi e antitesi devono poi comportarsi nella sintesi della decisione emessa dal giudice).

Inoltre, tale forma processuale esclude qualsiasi potere d’iniziativa del giudice in ordine all’acquisizione delle prove, con conseguente onere probatorio a carico dell’accusatore; infine vi sarà una pubblicità come forma di controllo, l’oralità del processo e l’assoluta presunzione di innocenza dell’accusato con conseguente stato di libertà dello stesso fino all’emissione della sentenza.

Il rito inquisitorio che trova anch’esso fondamento del diritto romano di età imperiale, appare diametralmente opposto rispetto al rito precedentemente analizzato. Difatti, l’accertamento dell’illecito e la sua attivazione è affidata completamente all’autorità di un soggetto pubblico – accusatore; si impongono limiti e vincoli alla difesa e come effetto, quindi, l’impossibilità di una vera e propria dialettica processuale; la segretezza del processo e la carcerazione preventiva completano un quadro assai dubbio su un principio del fair trail assolutamente assente.

Orbene, da queste dovute premesse possiamo accingerci a chiarire le caratteristiche del sistema processuale italiano che si caratterizza – solo dopo la riforma del diritto processuale penale del 1988 -  come un processo tendenzialmente accusatorio.

In un sistema processuale penale a tendenza accusatoria, il dibattimento è il centro del processo e l’esame incrociato ne costituisce il perno. E ciò vale nonostante la presenza di deroghe a tale principio, quali ad esempio l’esistenza della categoria giuridica degli atti irripetibili  e nonostante la presenza di varie difficoltà oggettive della nostra realtà giudiziaria, quali ad esempio i rinvii.

Il nostro processo penale in ossequio a quei principii  - già sanciti dalla carta costituzionale all’art. 11  - consente alle parti, equidistanti dal Giudice, di sottoporre a verifica e confutazione le prove introdotte dalle stesse, secondo l’assioma triangolare che prevede: la necessità della prova, la possibilità della controprova e l’imparzialità del giudice.

Un dato però che non si può fare a meno di constatare è l’ingerenza del Giudice nella formazione della prova nel sistema processuale penale italiano.[10]

E’ bene chiarire che in questa sede e per il tema che si andrà successivamente a trattare, non ci si riferisce certamente a quei poteri residuali, di impulso e suppletivi, che il codice comunque concede al giudice con gli artt. 506 e 507 c.p.p.  Ci si riferisce a quelle situazioni che quotidianamente accadono in udienza, ove il Giudice interrompe le parti o si intromette o in cui addirittura, conduce direttamente l’esame testimoniale. frustrando in tal modo non solo il dettato normativo che disciplina l’istituto, ma anche e soprattutto la sua ratio, ovvero quella di strumento formativo della prova ad opera delle parti, così alterando inevitabilmente la sua terzietà, requisito anch’esso necessario per il funzionamento dell’istituto. Ciò avviene per un duplice ordine di ragioni. Il primo può certamente farsi risalire alla tradizione culturale, retaggio di un secolare processo inquisitorio che talvolta ancora permea l’attività giudiziaria; tuttavia è inevitabile che queste radici siano destinate con il tempo a dissolversi. In realtà è sul secondo ordine di ragioni che occorre spendere qualche parola in più, perché ci riguardano direttamente. Si è infatti dovuto constatare che l’ingerenza del Giudice nel momento formativo della prova è anche motivata dalla scarsa preparazione e dalla poca professionalità di troppi avvocati e pubblici ministeri; ciò induce la magistratura giudicante a “fare tutto da sé”: non solo giudicare, ma anche assumere il ruolo di principale protagonista della acquisizione probatoria. Ora, è innegabile che le norme sulla cross examination, assegnino alle parti processuali, e in particolare all’avvocato difensore ,un ruolo di vero protagonista del momento formativo della prova, ma è altrettanto evidente che occorre assumere la piena consapevolezza che tale ruolo comporta ed agire di conseguenza. Più elevata è la qualità professionale dell’avvocato, e conseguentemente la sua autorevolezza, meno spazio ci sarà per le ingerenze del Giudice[11].

5. Il caso del Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, alla luce del recente orientamento dottrinario della ricerca della verità processuale e del criterio normativo.

Il 24 Marzo del 1979 il Governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli – che fu anche arrestato - vengono incriminati per interesse privato e favoreggiamento: in pratica, vengono accusati di non aver trasmesso all’autorità giudiziaria le notizie concernenti un rapporto ispettivo risalente all’8 giugno del 1978. [12] Vale la pena evidenziare che i reati contestati non avessero motivo di essere di esistere, non esisteva nessun obbligo, infatti, di trasmettere il rapporto ispettivo. Tale circostanza fu poi riconosciuta anche dai due magistrati inquirenti, nella persona dei giudice istruttore Alibrandi e su richiesta del P.M. nella sentenza di proscioglimento emessa appena due anni dopo. Ebbene, siamo lontani ancora dalla riforma del diritto processuale penale in un sistema di giustizia in cui il processo inquisitorio puro  - con il suo noto armamentario a discapito dell’imputato sopra già accennato -  la fa ancora da padrone ed in cui si innestala vicenda processuale appena riferita.

Con il ‘processo Baffi’  le funzioni di accusa e di giudizio si concentrano nelle mani di un solo soggetto bifronte, il giudice inquisitore e comunque, tendono a sovrapporsi, con il risultato di costringere la difesa a lottare contro un soggetto che è al tempo stesso giudice e accusatore.

Le prove sono raccolte e formate in segreto, esclusa ogni partecipazione della difesa, che solo nella fase finale del processo viene a conoscenza dell’accusa. [13]

All’interno del processo la vicenda giudiziaria si è svolta su un duplice binario di accusa.

L’indagine difensiva si prospetta così come contraltare dell’agire di un’accusa ingiusta, oltre che lontana da quel principio di legalità, caposaldo del sistema di diritto penale italiano.

L’accusa a Baffi e Sarcinelli presenta asimmetrie genetiche e giuridiche inevitabili. L’area intermedia e di ingiustizia si completa con il tertium arbiter, il giudice – anch’egli lontano dalla terzietà e dall’imparzialità connotata dall’ordinamento -   al quale sarebbe dovuto spettare il compito di bilanciare le esigenze della giustizia in un insieme imperfetto. Le parti coinvolte nel processo.

Il processo penale ai vertici della Banca d’Italia, quindi, si è mosso all’interno dell’agire in un sistema inquisitorio nel quale le promesse costituzionali vengono disattese nella sostanza delle procedure.

In particolare, la formazione della prova ad opera delle parti ha annullato  quella naturale separazione che sussiste fra loro ed il giudice, esaltando una visione individualistica del sistema. Si è trattato di un attacco che ha esposto a conseguenze deleterie il sistema bancario italiano e non solo.

Un’indagine parallela della difesa sarebbe dovuta essere componente oggettiva costituzionalmente garantita del metodo di formazione della prova mediante il contraddittorio, è proprio il volere costituzionale che si sarebbe dovuto prendere in considerazione, in un’epoca ancora lontana dalla riforma processuale, così da imporre una dialettica processuale equidistante, consapevole, capace di autonomia della ricerca, imponendo un’indagine parallela a quella dell’accusa. Diversamente, il principio del contraddittorio nella formazione della prova non ha trovato adeguato sviluppo. Non si tratta di una richiesta unilaterale originata da spinte egoistiche, bensì da una necessità sistemica che vuole il giudice, soggetto terzo e imparziale, situarsi a pari distanza dagli antagonisti.

Si perviene in questo modo al paradigma ideale del sistema processuale penale, nel quale i contendenti vengono armati di pari forza processuale nella ricerca di quegli elementi di prova che soltanto davanti al giudice e mediante il contraddittorio assurgono a valore di prova.

Tuttavia, la misura della distanza intercorrente fra le parti ed il giudice si connota di significato proprio. Distare in pari misura dal giudice non si traduce automaticamente nell’avvicinamento del contendente più lontano. La precisazione si impone fin da subito in quanto l’evoluzione storica del sistema ha dimostrato una tendenza a limare tale intervallo, originando una naturale spinta all’aumento degli elementi di prova sottoposti all’attenzione del giudice. Ma non è certo la quantità degli elementi che possono formare la piattaforma decisionale del giudice che ne connotano la qualità. Essa dipende dal metodo attraverso il quale tale materiale perviene al giudice, oltreché dal potere contributivo delle parti come già sopra evidenziato.

Il codice Rocco, ha frustrato così il diritto di difesa degli imputati Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, poiché conservava una struttura strettamente inquisitoria, tanto che risultavano molto accresciuti i poteri del p.m., agente del potere esecutivo, che tornava a poter archiviare senza alcun controllo giurisdizionale. A date soglie di pena edittale, il mandato di cattura che disponeva la carcerazione preventiva era obbligatorio; bastava che sussistessero "sufficienti indizi". L’istruzione, sia sommaria  - condotta dal pubblico ministero -  sia formale  - condotta dal giudice istruttore - , era completamente segreta. Soprattutto, in dibattimento, il peso dell’istruttoria era fortissimo. L’art. 466, comma 3, invertendo il rapporto tra regola ed eccezione previsto nei codici precedenti, permetteva la lettura di ogni verbale, a meno che non risultasse vietata. L’art. 463 permetteva la lettura dei verbali di ispezioni, esperimenti giudiziali, perquisizioni, sequestri, ricognizioni, confronti, nonché la lettura degli atti di investigazione preliminare compiuta dalla polizia giudiziaria: accertamenti, rilievi segnaletici, descrittivi o fotografici, etc. L’art. 465 permetteva la lettura degli interrogatori dei concorrenti nel reato o degli imputati di reato connesso. Le informazioni raccolte dalla polizia nella fase pre-istruttoria e confluite nel rapporto di polizia. È bene ricordare che tutti gli atti in questione erano formati in assenza della difesa. In pratica, come nel processo inquisitorio, le prove si raccoglievano nella fase segreta condotta in tandem da pubblico ministero e giudice istruttore; l’imputato era presunto colpevole e sottoposto a carcerazione preventiva; il dibattimento costituiva spesso per la difesa solo un vano esercizio di retorica: il convincimento del giudice era inevitabilmente condizionato da ciò che risultava dai verbali.

Vale la pena evidenziare come partire dai primi anni Sessanta, specie nella dottrina penalistica sostanziale, si manifestò un importante orientamento culturale diretto alla ‘riscoperta’ della Costituzione, uno fra tutti Francesco Carnelutti.  Nella difficoltà di individuare gli effettivi responsabili e di condannarli tempestivamente al termine di un processo condotto secondo le forme ordinarie, la scelta più o meno esplicita, con buona pace della presunzione di innocenza, fu quella di tenere in carcere in via preventiva il più a lungo possibile gli esponenti del dissenso politico sospettati di avere un ruolo nelle organizzazioni terroristiche. Il pendolo delle garanzie, che oscilla a seconda delle alterne fasi della politica, restituisce la distorta immagine delle garanzie processuali come il fiore all’occhiello di una società democratica, che però occorre mettere da parte quando il gioco si fa duro. Tutto ciò premesso era inevitabile che il giudice istruttore, anche il più equilibrato ed equidistante, finisse per trovarsi psicologicamente nei panni dell’accusatore o del difensore. Così la conduzione degli esami orali da parte del giudice, autorevole portatore di una sua verità che gradisce veder confermata, e perciò propenso a considerare dubbie o menzognere le dichiarazioni difformi, rischiava sempre di intimidire i testimoni e di orientarne le deposizioni. In secondo luogo qualora, come accadeva assai spesso, fossero transitati in dibattimento i verbali della fase istruttoria questi, oltre a documentare le oggettive dichiarazioni che i testimoni avevano reso in quella fase, veicolavano in ultima analisi anche l’immagine di verità che aveva in mente chi formulava le domande e verbalizzava le risposte. In terzo luogo quando i testimoni che avevano reso dichiarazioni nel corso dell’istruzione venivano nuovamente ascoltati in dibattimento, la conduzione dell’esame da parte del giudice dibattimentale, come anche la valutazione dei suoi contenuti, ancora una volta non poteva che essere inevitabilmente condizionata dal convincimento che il giudice stesso si era formato leggendo i verbali dell’istruzione. In quarto luogo si riproponevano comunque in dibattimento i problemi legati all’imparzialità del giudice nella conduzione degli interrogatori e degli esami testimoniali: inevitabilmente il giudice finisce per essere condizionato dall’ipotesi ricostruttiva che via via si forma e per gestire l’acquisizione delle prove in dibattimento come una sorta di verifica della propria ipotesi, perdendo quella posizione di imparzialità che dovrebbe contraddistinguerlo. I rimedi interni alla struttura del codice Rocco proposti in una prospettiva riformatrice furono sempre di due tipi: rimozione della segretezza degli atti con ammissione del difensore al loro compimento o, in radice, divieto di lettura dibattimentale dei verbali istruttori. Il percorso argomentativo sinora svolto durante il cammino ci si è aggrappati saldamente ai principi ritenuti idonei a fungere da chiavi risolutrici delle carenze affrontate. Fra questi, il principio della parità delle armi, del contraddittorio forte e, più in generale, della sentita necessità di ricercare, attraverso lo stimolo della possibilità di difendersi secondo un principio di legalità e del contraddittorio sanciti dal nuovo codice del 1988 ad elementi nuovi capaci di innovare o quantomeno di introdurre varianti idonee a fornire un contributo migliorativo.

Per contraddire è necessario conoscere.

6. Conclusioni

Ricordare la vicenda processuale subita dal Governatore d’Italia Paolo Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli è doppiamente doveroso, in primis per ricordare chi ha difeso  la legalità e le istituzione e in secondo luogo, per ricordare quanto sia importante rispondere al disequilibrio delle parti concedendo – semplicemente – un maggior peso processuale alla difesa, comporta una confusione dei ruoli e delle fasi proprie del nostro sistema processuale. Se poi ci si confronta con i timori e i pregiudizi caratteristici del contesto italiano, il percorso appare viepiù accidentato.

Un processo in cui Baffi si «sente come Josef K. protagonista del processo a Kafka, accusato, arrestato e processato per motivi misteriosi. Una situazione introdotta dal celebre incipit: "Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.[14]

La scia della chiusura applicativa ai poteri del giudice istruttore e il panorama delineato ha trovato conferma nell’evoluzione normativo giurisprudenziale che ha connotato l’esordio, l’evoluzione e l’involuzione del diritto di difesa. Sin dalle origini, lo statuto degli strumenti processuali concessi alla difesa pativa una inferiorità genetica rispetto al potere dell’accusa che, viceversa, produceva la maggior parte dei risultati probatori.

Ciò posto, dando conto al filo logico sinora tratteggiato e dell’obiettivo di fertilizzare il campo della ricerca del diritto ad un equo processo si deve porre l’accento sul ruolo del GIP con l’abbandono del potere di formazione unilaterale della prova tipica dei processo inquisitori.

Imporre la partecipazione delle parti alla formazione di “tutte” le prove, ha consentito tuttavia di sollevare la cortina di fumo che circonda la legittimità e l’autenticità del materiale diversamente formato.

Il dettato costituzionale ha imposto una dialettica processuale equidistante, autonoma e consapevole, lasciando al giudice il suo ruolo di soggetto terzo ed imparziale, sito a pari distanza dagli antagonisti.

Da questo punto di vista, il ricorso all’incidente probatorio ex art. 392 c.p.p. ne coglie il senso rispettandone i presupposti formativi.

Ancora, e di nuovo, il medesimo panorama concettuale vale per gli atti d’indagine realizzati dal pubblico ministero nelle ipotesi – pur se aventi carattere eccezionale – nelle quali l’attuale sistema riconosce loro il valore di prova piena.

In buona sostanza, la realizzazione del contraddittorio  ha un connotato oggettivo lasciando, in siffatta maniera, le parti ad eguale distanza dall’organo giudicante.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1]Il dubbio e la scienza; Milanesiana 19 luglio 2018.
[2]Senza mai affrancarsi come avrebbe detto Cesare Beccaria, dalla logica superstiziosa che animava gli antichi riti ordalici. In DPC, 12 dicembre 2018, di F. Caprioli. ISSN 2039 – 1676.
[3]«Inatteso e clamoroso capovolgimento semantico», scriveva magistralmente Massimo Nobili: «tipico contrassegno del processo accusatorio».
[4]G. Carlizzi, Libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale, Bonomo ed., 2018, p.5
[5]Relazione Inaugurazione anno giudiziario 2019,  Consiglio nazionale forense
[6]F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela della vittime, III ed., Giuffrè, Milano, 2003, in  Riv. It. Dir. Proc. Pen. , 2004, p. 303
[7]D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà, diritto processuale penale, ed. Giuffrè, 2006, p.13
[8]Franco Bricola, Riforma del processo penale e profili di diritto penale sostanziale, in Ind. pen., 1990, p. 321
[9]D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà, diritto processuale penale, ed. Giuffrè, 2006, p.34
[10]Oltreoceano non si è mai dubitato di tale istituto: Wigmore nel suo famoso trattato “On evidence” non esitava a definire la cross examination la più grande macchina legale inventata per scoprire la verità! Sembra tutto ineccepibile, poi giriamo per le nostre aule di udienza e constatiamo sempre la stessa cosa
[11]cfr. Frigo, sub artt. 498-499, in Chiavario, Commentario al nuovo cod. proc. pen., Torino, 1991
[12] G. Turone, Italia occulta, ed. Chiarelettere, p. 170
[13]F. Cordero, Le situazioni soggettive nel processo penale, Giappichelli, p. 21
[14]P. Baffi, a cura di B.A.Piccone, Servitore dell’interesse pubblico, Lettere 1937 – 1989, ed. Aragno Torino 2016, p.147