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Pubbl. Ven, 4 Gen 2019

L´agente sotto copertura: quando la prova c´è, ma non si vede

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Mauro Giuseppe Cilardi
AvvocatoUniversità degli Studi di Bari


L´approvazione definitiva della legge cd. ”Spazzacorrotti” ha determinato l´ingresso nel nostro ordinamento di un nuovo settore entro cui è legittimato ad operare l´agente sotto copertura. Trattasi di uno strumento investigativo di rilevante supporto per la repressione di crimini lesivi di interessi particolarmente avvertiti nella comunità sociale.


Sommario: 1. La pervasività del fenomeno corruttivo; 2. La genesi storica della figura tra agente provocatore, falsus emptor e infiltrato; 3. La punibilità dell'agente e l'esigenza di tipizzazione del sistema: nasce l'agente sotto copertura; 4. L'agente sotto copertura produce ma non induce: la sacralità del principio della responsabilità penale personale; 5. Osservazioni conclusive: potenzialità repressive e nodi problematici nell'ambito dei reati contro la P.A.

1. La pervasività del fenomeno corruttivo

La corruzione rappresenta l'asservimento del potere pubblico agli interessi egoistici dei singoli. Quando il dipendente pubblico accetta vantaggi personali per esercitare la funzione che riveste in nome dello Stato, egli tradisce il patto d'onore che lo lega alla Nazione, vanificando la sacralità del vincolo per il conseguimento di indebiti benefici privati.

La prospettiva non è, tuttavia, esclusivamente etica. Al contrario, gli effetti negativi della corruzione si riverberano in tutti i settori pubblici, dalla sanità all'istruzione, dall'amministrazione della giustizia all'ambito economico, pregiudicando i meccanismi naturali e virtuosi posti a tutela della concorrenza e del merito. Si può, quindi, pacificamente asserire che uno dei principali fattori che rallentano la produttività e la crescita professionale e culturale di un Paese risiede nel radicamento del fenomeno corruttivo; d'altronde, non v'è ragione per non credere che un investitore assennato sarà indotto a depositare il proprio denaro o a contrarre affari in un Paese che fa del rispetto della legge il segno particolare della sua carta d'identità.

E proprio nella prospettiva di un consolidamento della tutela penale si è mosso il legislatore italiano negli ultimi anni, potenziando i rimedi preventivi e rafforzando il compendio sanzionatorio teso a reprimere condotte offensive del buon andamento e dell'imparzialità della Pubblica Amministrazione, che costituisce un valore supremo dell'ordinamento, sancito dall'art. 97 della Carta fondamentale. Nello stesso solco, inoltre, si è innervato l'ultimo intervento legislativo in materia, finalizzato ad irrobustire un quadro punitivo che non ha prodotto i risultati auspicati, come confermato dai dati ufficiali. Se, infatti, nonostante la serialità del fenomeno, le statistiche di inizio 2017 rivelano un modestissimo numero di processi instaurati per corruzione (circa lo 0,5% dei contenzosi di natura penale), ciò vuol dire che la cultura della legalità stenta ad attecchire nel Paese.

Quanto detto permette, allora, di comprendere le ragioni poste alla base della legge di recentissima approvazione, che il Governo ha icasticamente denominato "spazzacorrotti". L'espressione, dal forte impatto mediatico, rende manifesto l'obiettivo perseguito: il contrasto assoluto alla corruzione e, in generale, ai delitti lesivi dell'Amministrazione. L'ambiziosa finalità viene raggiunta mediante la previsione di molteplici misure, tra cui l'irrigidimento delle pene e l'introduzione di una nuova causa di non punibilità a favore di chi denuncia la corruzione.

Per quanto di interesse in questa sede, la novità più importante riguarda l'ingresso dell'agente sotto copertura nelle dinamiche corruttive. Tale figura -già operante in particolari delitti, di cui si dirà nel proseguio- spiega la propria incisività durante la fase delle investigazioni: la sua funzione principale risiede, invero, nell'assistere al patto scellerato tra corrotto e corruttore, di modo da acquisire fonti di prova privilegiate, grazie alle quali consegnare alla giustizia il pubblico ufficiale disonesto.

2. La genesi storica della figura tra agente provocatore, falsus emptor e infiltrato

L'agente sotto copertura rappresenta un istituto previsto non solo dal diritto nazionale, ma altresì dai Paesi dell'U.E. e dall'ordinamento statunitense. La sua operatività risale al diritto romano, sebbene sia l'esperienza illuministica francese a consegnarci la testimonianza di un primo e definito margine di impiego.

In particolare, nei secoli XVII e XVIII il re Luigi XIV si serviva della collaborazione di privati, per ottenere segretamente informazioni sui soggetti indiziati di cospirare contro il potere. Emergono, quindi, due dati dirimenti: innanzitutto, deve sottolinearsi che l'originario compito assolto dalla figura in questione si sostanziava in una mera attività di spionaggio e il suo esercizio era, pertanto, funzionale ad acquisire credito presso la corona, così da riceverne favori e benefici personali. In secondo luogo, lo spionaggio implica, per sua natura, un'attività meramente passiva, ovvero di osservazione, di celamento e di non coinvolgimento nella commissione del reato.

Ne conseguiva, pertanto, la difficoltà del conseguimento della prova: per tale ragione, tale attività mutò i tratti caratteristici, dal punto di vista soggettivo ed oggettivo. Incaricati di predisporre le indagini furono, altresì, gli agenti della polizia segreta, nell'assolvimento dei doveri scaturenti dalla loro professione; inoltre, l'obiettivo di raccolta delle prove venne perseguito mediante una vera e propria opera di provocazione, in un'ottica puramente giustizialista.

In tal modo, l'agente provocatore si configura come concorrente morale nella commissione del reato, in quanto istiga o determina altri a compiere un delitto che, senza il suo coinvolgimento, non sarebbe stato posto in essere.

Successivamente, però, la necessità di contrastare crimini particolarmente gravi ha condotto il pensiero dottrinale e l'elaborazione giurisprudenziale e normativa a compiere una rivisitazione della posizione assunta dall'agente. In particolare, accanto alla primigenia figura dell'agente provocatore, si è assistiti all'introduzione nell'ordinamento di due nuovi istituti con caratteristiche affini: il cd. falsus emptor (o compratore apparente) e l'agente infiltrato.

Il primo incarna il ruolo della finta vittima nei delitti di relazione (anche detti reati contratto), che si realizzano per mezzo della collaborazione sinergica tra due soggetti, come ad esempio accade nel commercio della droga. È evidente che, in tal caso, l'agente non si limita a far emergere il proposito delittuoso in capo al reo, ma si attiva concretamente ai fini della verificazione della fattispecie illecita, apportando un contributo non solo psichico, ma materiale alla realizzazione del reato. L'agente infilitrato è, invece, colui che si insinua nelle maglie di un'organizzazione criminale e, fingendo di aderirvi, si muove animato esclusivamente dall'intento di distruggerne le fondamenta e perseguire i delinquenti.

3. La punibilità dell'agente e l'esigenza di tipizzazione del sistema: nasce l'agente sotto copertura

Le tre figure descritte condividono lo stesso aspetto di criticità: la punibilità dell'agente. Costui contribuisce, infatti, alla commissione del delitto perseguito, o moralmente o in via materiale; in ossequio al canone legalitario, pertanto, si imporrebbe l'estensione della vis punitiva ai sensi dell'art. 110 cod. pen.

Per evitare una tale ingloriosa ed irragionevole conclusione, gli operatori del diritto hanno sin da subito elaborato due ricostruzioni teoriche. La prima esclude l'addebitabilità del reato all'investigatore per difetto dell'elemento soggettivo, in quanto egli agisce senza dolo, ossia senza la coscienza e volontà di compiere il delitto; l'assenza di un collegamento psichico tra il fatto e l'autore permette, infatti, di polverizzare qualsiasi rimprovero al consociato. Si è, inoltre, sostenuta l'applicabilità della causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., sub specie di adempimento del dovere imposto da un ordine legittimo dell'Autorità, che, come tale, renderebbe lecito il fatto tipico di reato. 

Ambedue gli argomenti non colgono, tuttavia, nel segno. Invero, il confine tra coscienza e volontà, da una parte, e intime ragioni che assistono l'azione, dall'altra, è quanto mai labile, cosicché la componente rappresentativa e volitiva dell'evento delittuoso di reato è suscettibile di obnubilare il pregevole obiettivo di stanare i criminali. Pericolose conseguenze derivano, poi, dalla meccanica applicazione della scriminante ex art. 51, la cui generalizzata operatività creerebbe un'area di costante e agognata impunità dell'agente, a cui tutto sarebbe concesso e dinanzi alla cui salvifica attività le garanzie dell'ordinamento giuridico recederebbero, in spregio ai più elementari principi di giustizia sociale e certezza del diritto.   

Siffatte critiche rappresentano, allora, l'humus sul quale si è innestata la produzione normativa italiana degli ultimi trent'anni, che ha innalzato sull'altare delle tecniche investigative privilegiate la figura dell'agente sotto copertura, noto anche come investigatore undercover, in virtù della sua pacifica diffusione nel diritto processuale americano. Il legislatore ha, cioè, avvertito l'esigenza di normare uno strumento investigativo dalle forti potenzialità preventive e repressive, in modo da renderlo compatibile con i canoni di una moderna società democratica. 

A partire dagli anni novanta, viene consacrata la figura dell'agente sotto copertura, al quale l'ordinamento attribuisce la fondamentale funzione di raccogliere elementi probatori relativi ad uno specifico reato in corso di esecuzione,  in materie tassativamente previste: il traffico di droga (artt. 97 e 98 Testo Unico in materia di stupefacenti), la ricettazione e il riciclaggio (art. 12-quater l. 356/1992), lo sfruttamento della prostituzione (art. 14 l. 269/1998), il terrorismo di carattere internazionale (art. 4 l. 438/2001).

Ben presto, però, all'esigenza di tipizzazione si accompagna la necessità di organicità della disciplina, a cui presta soddisfacimento l'art. 9 della legge n. 146 del 2006 (modificata dalla legge n. 136 del 2010): per la prima volta viene creato uno statuto delle operazioni sotto copertura, che compie una reductio ad unitatem delle diverse fonti normative vigenti. Per vero, l'ambito di applicazione della norma in questione non tange le attività sotto copertura rivolte al contrasto dello spaccio di stupefacenti, della pedopornografia e del sequestro di persona a scopo estorsivo, ipotesi queste che restano disciplinate autonomamente. Al di fuori, tuttavia, di tali materie, il legislatore del 2006 ha elaborato una regolamentazione dell'attività undercover operante in molteplici ambiti, dal riciclaggio all'estorsione, dall'immigrazione clandestina all'usura.

In particolare, l'ambito di azione dell'agente sotto copertura è circoscritto sul versante sia soggettivo sia oggettivo. In primo luogo, infatti, tale ruolo può essere assunto esclusivamente dagli ufficiali di polizia giudiziaria addetti alle strutture specializzate, che possono avvalersi altresì di "interposte persone", identificabili in agenti o anche in comuni cittadini, del cui supporto si necessiti nel caso concreto. Sul versante materiale, invece, deve sottolinearsi il rigore con cui il legislatore ha definito non soltanto il reticolato di attività che l'agente mascherato può legittimamente compiere, ma altresì il fine che deve orientare la sua condotta, ossia l'acquisizione di elementi probatori riguardanti reati in essere.

In tal modo, dunque, la legge italiana ha recepito le indicazioni contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata internazionale, adottata nel 2000, che in un'ottica di uniformità delle tutele avverso i crimini particolarmente complessi ed invasivi (narcotraffico, riciclaggio, etc) promuove l'adozione, da parte degli Stati firmatari, di speciali tecniche investigative, tra cui sono espressamente annoverate le operazioni sotto copertura. L'unico limite a cui la Carta subordina l'operatività delle medesime è il rispetto dei principi fondamentali interni a ciascun ordinamento giuridico, che quindi prevalgono sulle esigenze repressive dello Stato.  

4. L'agente sotto copertura produce ma non induce: la sacralità del principio della responsabilità penale personale

Aderendo alle istanze di matrice internazionale, il legislatore italiano realizza un bilanciamento tra principi confliggenti: da una parte, infatti, viene in rilievo la necessità che lo Stato persegua e punisca i criminali, dall'altra non è meno importante il rispetto del carattere personale della responsabilità penale, consacrato nell'art. 27 della Costituzione. 

Invero, la figura dell'agente sotto copertura si è gradualmente allontanata dalla sua originaria conformazione, rinunciando alla sua vocazione subdolamente delatoria e finendo per assumere una dimensione conforme ai cardini di una società di diritto.

Del resto, non potrebbe mai trovare asilo nel nostro ordinamento la figura dell'agente provocatore, ossia del soggetto incaricato dagli organi inquirenti di determinare o rafforzare il proposito criminoso in un altro soggetto, per indurlo a commettere il crimine ed ottenere, così, una prova decisiva della commissione del delitto. Laddove ciò fosse consentito, infatti, lo Stato abdicherebbe al ruolo di garante della libertà individuale, per aderire ad un'incostituzionale logica di repressione della mera inclinazione a delinquere. Si legittimerebbe, cioè, l'applicazione della sanzione penale come conseguenza della mera verifica negativa dell'integrità morale del soggetto pubblico (cd. integrity test).

Al riguardo, non deve dimenticarsi che il diritto penale si basa sul fatto: l'espiazione della pena ha, cioè, senso solo se il soggetto ha posto in essere un illecito, dimostrando una noncuranza, volontaria o colpevole, rispetto alle regole giuridiche. Qualora, invece, l'ordinamento si servisse dell'agente provocatore nell'opera di perseguimento del crimine, questi non si limiterebbe ad accertare la verificazione di un delitto, ma ne diventerebbe complice. Si darebbe, quindi, luogo ad una inammissibile costruzione artificiosa del reato.

La stessa Corte europea dei diritti dell'uomo ha costantemente respinto l'impiego dell'agente provocatore nella fase di accertamento dei reati (cd. entrapment), in quanto siffatta tecnica darebbe la stura ad un'illegittima fictio: la creazione di una relazione illecita che, in realtà, non sarebbe esistita senza il decisivo intervento dell'agente.

L'esigenza di presidiare le fondamenta costituzionali del sistema giuridico emerge, inoltre, dal granitico orientamento della giurisprudenza nazionale, che esclude la punibilità dell'infiltrato, solo quando egli si limiti ad osservare, contenere o controllare il progetto criminale da altri avviato e condotto, alla cui realizzazione non deve in alcuna misura concorrere.

In altre parole, con una sintetica ma efficace espressione, può affermarsi che l'agente sotto copertura deve produrre, ma non indurre: produrre una prova del reato, senza indurre l'indagato a commetterlo.

5. Osservazioni conclusive: potenzialità repressive e nodi problematici nell'ambito dei reati contro la P.A.

In virtù di quanto precede, è ora possibile trarre delle conclusioni ragionate sull'estensione della disciplina delle operazioni sotto copertura alla corruzione e ai delitti contro la Pubblica Amministrazione, attuata mediante la modifica dell'art. 9, comma 1 della legge n. 146 del 2006 (cd. statuto delle operazioni sotto copertura).

Tale innovazione è da salutare certamente con favore. Milita, infatti, in questa direzione la Convenzione O.N.U. contro la corruzione, adottata a Merida nel 2003, che auspica l'adozione, da parte degli Stati firmatari, di speciali tecniche investigative, tra cui le operazioni sotto copertura. Se ne deduce, quindi, che nonostante le differenze strutturali tra la fattispecie corruttiva e molti dei reati con riferimento ai quali l'impiego dell'infiltrato è previsto oramai da più di un decennio, l'incidenza negativa che la corruzione produce sulla sicurezza e sulla stabilità della società giustifica l'utilizzo di siffatta tecnica di indagine.

Sul punto, inoltre, non può sottacersi che, se l'estorsione o l'usura sono fattispecie caratterizzate da un rapporto in cui sono facilmente individuabili la vittima e il criminale, il disvalore della corruzione risiede in un patto da cui traggono vantaggio sia il privato sia il pubblico ufficiale. Nessuno dei due soggetti è, quindi, interessato a far emergere la relazione illecita e, di conseguenza, si rendono necessari strumenti repressivi idonei, tra i quali può rivelarsi estremamente efficace l'agente sotto copertura.

La tenuta costituzionale dell'attività undercover in materia di reati offensivi dell'Amministrazione si fonda, in ogni caso, sul ripudio della figura dell'agente provocatore. A sostegno di ciò, il legislatore ha opportunamente escluso che la nuova causa di non punibilità ex art. 323-ter cod. pen., prevista a favore di chi si autodenuncia e collabora con la giustizia, si applichi quando vi è la prova che la denuncia sia premeditata rispetto alla commissione del reato denunciato. Tale clausola assolve, invero, la funzione di paralizzare l'abuso dello strumento investigativo di cui si discorre, evitando che quest'ultimo, nella dinamica applicativa, sia declinato nella forma della provocazione.

Deve, tuttavia, precisarsi che il rischio di una degenerazione dell'operazione sotto copertura continua a sussistere, nella misura in cui il legislatore prevede che l'infiltrato possa dare e ricevere tangenti, anche al di fuori di strutture organizzative complesse. In altre parole, fermo restando il divieto di corrompere il pubblico ufficiale, l'agente sotto copertura potrebbe fingersi collaboratore di un imprenditore privato per accreditarsi nel circuito criminale e versare, così, la tangente che in altra sede il corruttore e il corrotto hanno concordato.

Tale ipotesi, riguardando teoricamente la fase esecutiva di un reato già commesso, segnerebbe i limiti entro i quali l'attività dell'agente può essere utile. Sennonché, ai fini del superamento del test di costituzionalità, è necessario valutare le modalità attraverso cui si è effettivamente estrinsecato il suo operato, mantenendo come bussola i dettami provenienti dalla giurisprudenza nazionale ed eurounitaria, secondo cui l'agente sotto copertura deve limitarsi a raccogliere elementi di prova relativi ad un delitto in essere e non può creare artificialmente occasioni criminose, non esistenti prima del suo intervento.

Bibliografia.

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