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Pubbl. Sab, 29 Dic 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

La Consulta sulla revoca prefettizia della patente ex art. 120 C.d.S.: occasione mancata e profili ancora irrisolti

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Stefano Solidoro


La Corte costituzionale si pronuncia nuovamente sul decreto di revoca prefettizia della patente, previsto all’art. 120 del d. lgs 285/92. Pur dichiarandone la parziale illegittimità per violazione all’art. 3 Cost., la Consulta evita di soffermarsi sul ben più ostico profilo di incostituzionalità evocato dal rimettente in relazione all´art. 7 CEDU


Sommario: 1. Premessa. – 2. La vicenda. – 3. La questione relativa agli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost. – 4. La prospettata violazione degli artt. 11 e 117 Cost. – 5. La sentenza n. 22/2018: un’occasione mancata.

1. Premessa.

Con tre distinte ordinanze[1], il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia ed il Tribunale ordinario di Genova, quest’ultimo tanto in composizione monocratica quanto poi in sede collegiale, sollecitavano il Giudice delle leggi a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo Codice della strada), come sostituito dall’art. 3, comma 52, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica). Come è noto la norma, sotto la rubrica “requisiti morali per ottenere il rilascio dei titoli abilitativi di cui all'articolo 116”, prevede un elenco di condizioni soggettive ostative al conseguimento ed alla conservazione della patente di guida, quali ad esempio la dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto, la sottoposizione a particolari misure di prevenzione o ancora, per quanto qui di interesse, la condanna per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). Più in dettaglio, al comma secondo della disposizione viene precisato che «se le condizioni soggettive indicate al primo periodo del comma 1 […] intervengono in data successiva al rilascio, il prefetto provvede alla revoca della patente di guida», a meno che non siano trascorsi più di tre anni dalla data di applicazione delle misure di prevenzione, o di quella del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i reati in materia di stupefacenti, e salvo l’intervento di un provvedimento di riabilitazione ai sensi dell’art. 178 c.p. .

Il decreto prefettizio di revoca della patente incide notevolmente sulla libertà di circolazione garantita all’art. 16 della Costituzione.  A differenza della sospensione o del ritiro, infatti, costringe chi lo subisce ad ottenere nuovamente il titolo di guida, peraltro non prima del passaggio di tre anni dalla data della revoca stessa, ma ciononostante all’autorità amministrativa non è concesso alcun margine di discrezionalità nell’applicazione della misura, comminata in via del tutto automatica al verificarsi dei presupposti di legge. Non stupisce, pertanto, che l’art. 120 C.d.s. sia stato spesso oggetto di questioni di legittimità costituzionale, aventi lo scopo di denunciarne il contrasto con i canoni di ragionevolezza, equità e proporzionalità, come pure di sottolinearne la evidente afflittività, evocando il paradigma della sanzione penale. 

Anticipando quanto si avrà modo di osservare al momento delle conclusioni, la pronuncia in commento rappresenta senza dubbio un’occasione mancata in quanto, pur potendo contare su di una ordinanza di rimessione scevra da qualsivoglia profilo di inammissibilità e ben motivata – nello specifico, quella presentata dal Tribunale ordinario di Genova in composizione collegiale – la Corte si limita a rilevare la sola violazione dell’art. 3 Cost., liquidando in maniera poco persuasiva i dubbi di legittimità avanzati in riferimento al combinato disposto degli artt. 7 CEDU e 117 co. 1 Cost.: verosimilmente, la ritrosia nell’affrontare le ben note implicazioni in tema di legalità della pena nell’ambito europeo scaturenti dalla questione[2], ha indotto la Consulta ad eluderla del tutto, rinunciando di conseguenza a prendere una posizione definitiva sulla natura giuridica del provvedimento di revoca.

2. La vicenda.

Va premesso che, dopo aver riunito le tre ordinanze per comunanza dell’oggetto, la Corte procede nel vagliare funditus solo quella avanzata dal Tribunale ordinario di Genova in composizione collegiale. Ciò poiché, intanto, ritiene non sussistere la legittimazione del T.A.R. per difetto assoluto di giurisdizione, come da costante giurisprudenza[3] che qualifica i provvedimenti di sospensione e revoca della patente quali atti vincolati, incidenti su fondamentali diritti soggettivi non degradabili dall’azione della P.A., con ciò sottraendoli al sindacato del Giudice amministrativo. Anche l’ordinanza resa dal Tribunale di Genova in composizione monocratica si palesa inammissibile sotto molteplici profili: da un lato, il giudice a quo si limita a motivare per relationem, richiamando genericamente il contenuto delle altre due ordinanze di rimessione avanzate, rispettivamente, dal Collegio del medesimo Tribunale e dal T.A.R. Friuli-Venezia Giulia; dall’altro, inoltre, risulta omesso ogni riferimento alle disposizioni costituzionali che si assumono violate.

All’esito della succitata delibazione in punto di ammissibilità, come detto, resta in piedi il solo incidente di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Genova in composizione collegiale, più precisamente con l’ordinanza 16 giugno 2016, n. 210. La vicenda processuale trae origine dal ricorso ex art. 700 c.p.c. promosso da B.D., una donna che nel maggio del 2015 si era vista revocare la patente per reati commessi tra il settembre e il novembre 2007 in violazione dell'art. 73 co. 5, del T.U. stupefacenti, relativamente ai quali era intervenuta condanna nel giugno del 2009.

Alla base della sua istanza, la ricorrente evidenziava la natura sostanzialmente afflittiva del decreto di revoca, deducibile in forza dei parametri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia penale: dalla suddetta circostanza faceva scaturire la necessaria applicazione del principio di irretroattività della sanzione, nel caso di specie violato dall’irrogazione di una misura per un fatto commesso prima dell’entrata in vigore della novella del 2009. Inoltre, veniva sottolineata l’irragionevole discrasia esistente tra la disciplina del provvedimento amministrativo di revoca, improntata al totale automatismo, e quella contenuta all’art. 85 d.p.r. 309/90 per il meno severo ritiro della patente, previsto quale pena accessoria discrezionale in relazione ai medesimi reati. Quanto al periculum in mora, la ricorrente faceva presente come l’impossibilità di circolare con il proprio autoveicolo le comportasse serie difficoltà nell’accudimento delle figlie minori, alcune delle quali affette da gravi problemi di salute. Per tutte queste ragioni veniva domandata la disapplicazione della revoca, sollecitando anche il ricorso ad un’ordinanza di rimessione dinanzi la Consulta “in relazione agli articoli 3, 16 e 25, commi 1 e 2, e 117 comma 1 della Costituzione”, ove ritenuto indispensabile.

Pur condividendo le ragioni del ricorso, il Tribunale riteneva di poterlo accogliere senza dover sollevare questione di legittimità, limitandosi ad adottare “un’interpretazione costituzionalmente orientata” dell’art. 120 C.d.s. tale da impedire l’applicazione della revoca in via retroattiva, come conseguenza di illeciti perpetrati antecedentemente alla modifica legislativa. Contro l’ordinanza del Tribunale proponevano tuttavia reclamo il Ministero delle infrastrutture e quello dell’interno, a mezzo dell'Avvocatura di Stato, agganciandosi ad un’opposta interpretazione della revoca che la descrive non quale provvedimento sanzionatorio, ma come “mera constatazione della sopravvenuta insussistenza dei requisiti morali prescritti”, di fatto estranea a qualsivoglia logica punitiva.

Il Collegio del capoluogo ligure, adito in sede di reclamo, pur facendo propri i dubbi di legittimità ribaditi dalla reclamata riteneva di non poterli superare a mezzo di un’interpretazione conforme, che data la mancanza di un plausibile margine esegetico si sarebbe risolta piuttosto in una disapplicazione diretta della norma interna: il linea con il noto insegnamento della Consulta[4], dunque, decideva di portare la causa davanti al Giudice costituzionale.

3. La questione relativa agli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost.

Da premettere che già nella formulazione antecedente la l. 94 del 2009, molteplici sono state le sentenze che hanno inciso sul disposto dell’art. 120 C.d.s., benché per motivi formali quali il contrasto con l’art. 76 Cost.[5]. Solo dopo le modifiche apportate dalla l. 94/09, però, la disposizione del Codice della strada è stata interessata da pronunce riguardanti aspetti sostanziali della Legge fondamentale.

Nell’agosto 2012, ad esempio, il Tribunale amministrativo per la regione Umbria aveva sollevato questione di legittimità costituzionale ritenendo il carattere automatico della revoca in contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 Cost.. In quella occasione, tuttavia, la Corte rilevava nell’ordinanza di rimessione una serie di mancanze e imprecisioni tali da determinarne la manifesta inammissibilità, con ciò precludendo una seria analisi nel merito della questione[6]. Sempre nello stesso anno, poi, la Corte giungeva a dichiarare con sentenza l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, commi 1 e 2, C.d.s. per contrasto con l’art. 24 Cost., «nella parte in cui si applica anche con riferimento a sentenze pronunziate, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009»; ancora una volta, comunque, dichiarava inammissibili le censure mosse alla medesima norma in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.[7].

Nella sentenza in commento, la norma del Codice della strada viene sottoposta al vaglio della Consulta sotto un duplice aspetto, inerente da un lato i profili di irragionevolezza scaturenti dal confronto tra l’art. 120 C.d.s. e l’art. 85 d.p.r. 309/90, dall’altro la paventata lesione dell’art. 7 CEDU, parametro interposto di costituzionalità che integra i c.d. obblighi internazionali cui l’Italia è vincolata a conformarsi, ex art. 117 co. 1 Cost. . Per comodità espositiva conviene partire dalla prima questione – peraltro seconda in ordine di prospettazione – con la quale il Tribunale di Genova stigmatizza l’automatismo della revoca della patente per violazione degli artt. 3, 16, 25 e 111 Cost. . Secondo il giudice a quo, la diretta ed immediata applicazione del provvedimento in conseguenza di una condanna per i reati p. e p. agli artt. 73 e 74 d.p.r. 309/90 è connotata «da profili di irragionevolezza e disparità di trattamento» rilevanti «oltre che per l’incidenza sulla libertà personale e sulla libertà di circolazione […] anche dal punto di vista della sottrazione del soggetto al giudice naturale e ad un giusto processo».

La vicenda che fa da sfondo all’ordinanza di rimessione risulta emblematica in tal senso. Il decreto di revoca viene infatti disposto nei confronti della ricorrente, una donna costretta a provvedere da sola ai bisogni delle tre figlie minori, affette peraltro da problemi di salute, ben otto anni dopo la commissione del reato di cui all’art. 73, comma 5 del T.U. stupefacenti, senza alcuna indagine sulla attuale idoneità del soggetto al mantenimento del titolo di circolazione, né tantomeno in ordine all’incidenza della misura nel caso concreto. Come se non bastasse, il Tribunale ligure rileva come la lieve entità del fatto avesse già indotto il giudice penale a non irrogare la pena accessoria del ritiro del titolo di guida ex art. 85 del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990: è quest’ultima disposizione, in effetti, a fungere da tertium comparationis per il giudizio di ragionevolezza, in quanto conferisce al giudice la facoltà di disporre le pene accessorie del divieto di espatrio e del ritiro della patente di guida, per un periodo non superiore a tre anni, in caso di condanna per gli stessi reati cui consegue anche, ma in automatico, la revoca. Nel prevedere che «il giudice può disporre» il ritiro del titolo, quindi, la legge attribuisce un potere discrezionale da esercitarsi tenendo conto della gravità del reato, delle prospettive lavorative/familiari del reo nonché della concreta correlazione tra condotta illecita e pericolosità alla guida del soggetto[8].

Se così è, appare evidente come dalla commissione di una medesima condotta – nella specie, quella di “produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope” di cui al quinto comma dell’art. 73 d.p.r. 309/90 - possano scaturire conseguenze differenti in punto di abilitazione alla guida. Condivisibile, allora, secondo la Corte (par. 7 della sentenza) la considerazione offerta dal Tribunale di Genova in ordine alla palese incongruenza nei regimi di applicazione delle due misure “parallele”: automatico per la revoca prefettizia, che pure provoca una decisa compressione del diritto di circolazione, imponendo al soggetto di dover nuovamente conseguire il titolo di guida; discrezionale per il meno grave ritiro, avente carattere temporaneo, disposto dal giudice penale.

Alla paventata aporia, evidentemente non giustificabile sul piano logico, il Giudice delle leggi ne aggiunge un’altra, relativa alla «varietà di fattispecie, non sussumibili in termini di omogeneità» e potenzialmente «assai risalenti nel tempo» che fungono da presupposto al decreto di revoca. L’automatismo nella determinazione del prefetto, infatti, mal si concilia con la mancata analisi dell’attuale grado di affidabilità del reo prevista invece, lo si è visto, ai fini del ritiro della patente. In definitiva, a venir censurata è la carenza di ragionevolezza ed equità nella scelta del legislatore, cui la Consulta pone rimedio dichiarando «l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2 nella parte in cui – con riguardo all’ipotesi di condanna per reati di cui agli artt. 73 e 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 […] che intervenga in data successiva a quella di rilascio della patente di guida – dispone che il prefetto «provvede» – invece che «può provvedere» – alla revoca della patente».

All’esito della succitata dichiarazione, dunque, il decreto di revoca diventa un provvedimento discrezionale, mentre rimangono assorbite le altre doglianze relative agli artt. 16, 25 e 111 Cost., che pertanto non vengono esaminate dalla Corte.

4. La prospettata violazione degli artt. 11 e 117 Cost.

Come si è già anticipato in apertura, tuttavia, la pronuncia additiva della Corte soddisfa solo in parte. Di ben altra complessità e portata sarebbe stata, infatti, una compiuta analisi delle censure di legittimità avanzate dal Tribunale ordinario di Genova in riferimento al diritto di matrice convenzionale.

A tal proposito, fondamentale punto di partenza è la ritenuta natura sanzionatoria del provvedimento ex art. 120 C.d.s., problematica talvolta sfiorata dagli organi di giustizia amministrativa[9] così come, recentemente, anche dal Tribunale di Milano[10]. Nello specifico, sempre nell’ambito di un procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., il giudice meneghino si è pronunciato in favore della «natura amministrativa della revoca della patente prevista dalla disposizione di cui all’art. 120 Codice della strada», in quanto «provvedimento riservato all’autorità amministrativa e che il legislatore ha collegato al verificarsi di alcune fattispecie tipizzate connotate da un disvalore strettamente connesso alla possibilità di guidare più che alla gravità del comportamento in concreto posto in essere, prevedendo un giudizio a tutt’oggi caratterizzato da un vero e proprio automatismo». La scarna motivazione dell’ordinanza - che per vero esamina la questione solo in via incidentale, poiché non decisiva ai fini del giudizio -  omette ogni riferimento alla moderna concezione di pena nel contesto europeo, adottando la medesima impostazione formalistica adottata dai giudici amministrativi e, da ultimo, richiamata dall’Avvocatura di Stato nel reclamo che dà origine alla sentenza in commento: in quest’ottica, la revoca costituisce l’automatica conseguenza della perdita dei requisiti morali necessari al mantenimento del titolo di guida, piuttosto che una sanzione implicante una valutazione di gravità della condotta.

Il Tribunale ordinario di Genova, però, mostra di non aderire a siffatta ricostruzione ed al contrario abbraccia le argomentazioni della ricorrente, arricchendole con una breve ma efficace ricostruzione dell’attuale riflessione penalistica sul concetto di pena.

Per prima cosa, il giudice ligure richiama la concezione autonomista del reato e della pena, elaborata dalla Corte di Strasburgo sin dal noto arresto Engel[11] onde permettere una valutazione sostanziale della matière pénale, affrancata dalle qualificazioni formali offerte dai diversi ordinamenti. Non essendo questa la sede adatta per trattare esaustivamente la tematica, basterà ricordare come proprio a partire dalla celebre pronuncia di metà anni Settanta siano stati enucleati i c.d. Engel criteria, sulla base dei quali è possibile discernere la natura penale o meno di un illecito o di una sanzione, indipendentemente dal suo nomen iuris: la qualifica normativa, infatti, è solo il primo degli indici presi in considerazione, destinato a soccombere all’esito dell’indagine sulle caratteristiche intrinseche dell’illecito, sul grado di severità della sanzione, nonché sulla sua riconducibilità ad una finalità retributiva e/o general-preventiva[12].

Prendendo spunto dai predetti concetti, il giudice rimettente interviene dunque a sottolineare i «caratteri di afflittività» insiti nella revoca della patente ad opera del Prefetto, che viene irrogata «a seguito della commissione di fatti che il nostro ordinamento già qualifica come reati (primo criterio), a fronte di una più che probabile configurazione in termini di sanzione (secondo criterio) e di una sicura afflittività (terzo criterio)». Ricondotto il decreto di revoca al genus della sanzione penale, il Tribunale di Genova trae le dovute conseguenze in punto di garanzie sostanziali, prima fra tutte il divieto di retroattività della pena: l’art. 120 C.d.s. sarebbe pertanto illegittimo nella parte in cui, permettendo l’applicazione della revoca per reati commessi prima dell’8 agosto 2009, data di entrata in vigore delle modifiche alla disposizione in oggetto, viola l’art. 7 CEDU e per suo tramite l’art. 117 Cost. co.1, che impone il rispetto degli obblighi internazionali assunti dal nostro paese.

Per completezza, deve inoltre soggiungersi che nell’ordinanza di rimessione viene citato l’art. 11 Cost. tra i possibili parametri costituzionali di riferimento: come sottolineato dalla Consulta si tratta, però, di un richiamo improprio, in quanto le limitazioni di sovranità che la norma menziona riguardano esclusivamente il diritto comunitario[13].

Si tratta della prima volta che la disciplina in tema di revoca viene tacciata di incostituzionalità in relazione al diritto CEDU, a fronte di alcuni tentativi di farne emergere il contrasto direttamente con le fondamentali norme di garanzia in materia penale, quali gli artt. 25 e 27 Cost. . Nonostante il pregio e la rilevanza delle argomentazioni espresse, tuttavia, la Corte costituzionale dedica alla questione non più di una manciata di righe, al paragrafo 6.1. della sentenza. Operando un semplice richiamo ad alcune pronunce della Suprema Corte[14], invero, la Consulta ascrive la revoca all’insieme degli «effetti riflessi della condanna penale» negandone la funzione punitiva e/o retributiva, tipica invece del ritiro ex art. 85 d.p.r. 309/90, e rinvenendone piuttosto la ratio nella «individuazione di un perimetro di affidabilità morale del soggetto, cui è rilasciata la patente di guida, e nella selezione di ipotesi in presenza delle quali tale affidabilità viene meno». Tale considerazione è sufficiente a ritenere «esclusa in radice la natura sanzionatoria della revoca in via amministrativa della patente» e «non pertinente l’evocazione della giurisprudenza della Corte europea sui criteri per l’attribuibilità di natura sostanzialmente penale a “sanzioni” non formalmente tali».

Da qui la dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale, con la conseguente applicabilità della revoca della patente «anche per reati, in materia di stupefacenti, commessi anteriormente alla entrata in vigore della disposizione impugnata, [così come modificata nel 2009, ndr] per i quali la condanna sia però comunque intervenuta dopo tale data», quale mero effetto riconducibile all’entrata in vigore della novella[15].

5. La sentenza n. 22/2018: un’occasione mancata.

È lecito interrogarsi sulla “sostenibilità” di una tale stringata motivazione nell’attuale panorama giuridico, in un momento storico nel quale è massimo l’impegno della Corte di Strasburgo nello smascherare la c.d. “truffa delle etichette” in ambito penale, anche (e soprattutto?) in riferimento al nostro paese[16]. In disparte la sempre attuale diatriba in tema di confisca[17], è sufficiente constatare gli strascichi dal caso Grande Stevens[18] per rendersi conto di quanto i giudici nostrani faticano a districarsi nel terreno paludoso al confine tra sanzione amministrativa e materia penale: tanto la Cassazione[19] quanto la Consulta sembrano infatti procedere a tentoni sulla strada tracciata dalla Corte EDU, compiendo spesso e volentieri brusche frenate o deviazioni[20].

Accade per questo che non ci si arrischi a fare chiarezza persino in una vicenda che lascerebbe altrimenti pochi dubbi: la revoca della patente va senza dubbio considerata una pena secondo i criteri Engel, con tutto ciò che ne consegue in termini di garanzie proprie del principio di legalità in materia penale, irretroattività in primis.

Invero, come efficacemente osservato dal Tribunale di Genova, non può che definirsi sanzione una misura irrogata in seguito ad una condanna per reato, con l’evidente finalità di neutralizzare la pericolosità del suo autore e dissuadere altri dalla medesima condotta. Argomentare in senso contrario risulta ancor più arduo ove si consideri[21], da un lato, che il ritiro del titolo configura una pena accessoria, perciò risulterebbe paradossale che la più incisiva revoca non condivida la stessa natura; dall’altro, che è lo stesso dettato dell’art. 120 C.d.s. ad impedire l’emanazione del decreto di revoca, o a farne cessare l’efficacia, qualora intervenga la riabilitazione ex art. 178 c.p., provvedimento che per l’appunto «estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna».

Vi è dunque da chiedersi come mai la Corte abbia disatteso in maniera così sbrigativa la questione di legittimità avanzata dal Tribunale ordinario di Genova. Quali che siano i motivi alla base di questa scelta, comunque, la sentenza n. 22/2018 finisce per procrastinare la soluzione di un problema che, visti i molteplici e recenti precedenti[22], verrà presumibilmente sollevato a breve nei medesimi termini. Troppo manifesta la divergenza con i principi cardine del sistema penale, oggi più che mai ibrido quanto a fonti, nazionali e sovranazionali: un sistema che mal digerisce limitazioni ad un diritto fondamentale (nella specie, quello di libera circolazione) quale esito non prevedibile di una condotta, pur se illecita. Dinanzi alla necessaria foreseebility della sanzione, globalmente intesa, le qualifiche formali non hanno alcun diritto di cittadinanza, per cui la loro difesa ad oltranza appare ormai anacronistica. Senza contare che, evitando di scomodare le categorie di matrice convenzionale, dovrebbe essere la stessa interpretazione evolutiva delle garanzie penali previste nella Carta costituzionale (nella specie, l’art. 25 Cost.) a suggerire/imporre il medesimo risultato[23].

L’ordinanza del Tribunale di Genova avrebbe meritato una maggior considerazione da parte della Consulta, che dal canto proprio perde una preziosa occasione per compiere un altro passo di avvicinamento verso la Corte di Strasburgo.

In limine, ci si permette di osservare che la pronuncia in oggetto potrebbe essere foriera di ulteriori incomprensioni. Nel rendere soggetto a discrezionalità il decreto di revoca prefettizio, infatti, la Consulta pone forse le basi per rimeditare l’indiscussa giurisdizione del giudice ordinario in materia di revoca, posto che nella sua nuova versione il provvedimento ex art. 120 C.d.s. consegue alla spendita di un vero e proprio potere amministrativo discrezionale, capace di degradare il diritto soggettivo ad interesse legittimo e, in definitiva, di giustificare il sindacato del giudice amministrativo ex art. 7 c.p.a. 

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia, I sez., ord. 17 dicembre 2015, n. 20; Tribunale di Genova, I sez., ord. 16 giugno 2016, n. 210; Tribunale di Genova, I sez., ord. 30 marzo 2017, n. 97.
[2] Sul principio di legalità della pena come risultante dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la dottrina è pressoché sterminata. Senza alcuna pretesa di esaustività, ai soli fini del presente commento, si richiama il recente contributo di V.VALENTINI, La ricombinazione genica della legalità penale: bio-technological strengthening o manipolazione autodistruttiva? in www.penalecontemporaneo.it; per una panoramica generale, cfr. F.MAZZACUVA, Art. 7, in F. VIGANÒ-G. UBERTIS (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2016, pag. 236 e ss.; ; V.ZAGREBELSKY, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V.ZAGREBELSKY, V.MANES (a cura di) La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano, Milano, 2011, pag. 74 e ss.
[3] Ex multis, Cass. S.S. U.U. civ., sent. 14 maggio 2014, n. 10406; Cass. S.S. U.U. civ., sent. 27 aprile 2005, n. 8693; T.A.R. Puglia, Sez. II, sent. n. 1058 del 10 luglio 2015,; T.A.R. Lombardia, I sez., sent. n. 373 del 6 febbraio 2008.
[4] Il riferimento è, naturalmente, al consolidato orientamento sviluppatasi sin dalle note sentenze gemelle della Corte costituzionale, le nn. 348 e 349 del 24 ottobre 2007.
[5] Corte cost., sentenze nn. 354 del 21 ottobre 1998, 427 del 18 ottobre 2000, 251 del 17 luglio 2001 e 239 del 15 luglio 2003.
[6] Corte cost., ord. n. 169 del 19 giugno 2013.
[7] Corte cost., sent. n. 281 del 20 novembre 2013. In questa pronuncia la lesione del diritto di difesa, in termini di vulnus alla «tutela dell’affidamento dell’imputato», a giudizio della Corte consegue dal fatto che «la componente negoziale propria dell’istituto del patteggiamento, […] postula certezza e stabilità del quadro normativo che fa da sfondo alla scelta compiuta dall’imputato e preclude che successive modificazioni legislative vengano ad alterare in pejus effetti salienti dell’accordo suggellato con la sentenza di patteggiamento».
[8] In termini, Cass. pen., sez. III, 19 maggio 2017, n. 34542; vd. anche Cass. pen., sez. III, 18 dicembre 2008, n. 16285.
[9] Ex multis, cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 3 agosto 2015 n. 3791; T.A.R. Puglia, Sez. II, sent. n. 1058; T.A.R. Lazio, Sez.  III-ter, n.  3817.
[10] Tribunale di Milano, I sez., ord. 24 aprile 2017, sulla quale vd. il commento di E.ZUFFADA, Revoca prefettizia della patente ex art. 120 codice della strada: una "sanzione" ragionevole?, in www.penalecontemporaneo.it.
[11] Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi.
[12] La nozione di matrice convenzionale è stata poi sviluppata in altri arresti significativi, quali ad es. Ozturk c. Germania, Kokkinakis c. Grecia, Welch c. Regno Unito, Malige c. Francia, Pessino c. Francia. Oltre agli Autori citati in nota 2, l’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale della nozione di pena come risultante dai criteri Engel è tracciata da A.GOLIA, F.ELIA, Il necessario salto nel vuoto: la rimozione del giudicato per le sanzioni “sostanzialmente” penali dichiarate incostituzionali. Riflessioni a margine dell’ord. Trib. Como del 4 febbraio 2015, in www.osservatorioaic.it , al par.2.
[13] Come da univoco orientamento della Consulta, vd. sent. n. 80 dell’11 marzo 2011, n. 210 del 18 luglio 2013.
[14] Cass., S.S. U.U. civ., n. 10406 cit.; Cass. sez. II, ord. 4 novembre 2010, n. 22491.
[15] Al di là delle più che lecite perplessità circa la violazione del principio di legalità, va qui sottolineato che la l. 15 luglio 2009 n. 94, è entrata in vigore il giorno 8 agosto 2009, mentre risulta dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Genova che la condanna nei confronti della ricorrente è datata 16 giugno 2009. La novella legislativa è dunque stata introdotta dopo la commissione del fatto e nelle more tra la condanna di primo grado e il passaggio in giudicato della sentenza, perciò rispetto al caso in esame risulta difficile postularne persino l’ordinaria applicazione ratione temporis.
[16] In merito, è doveroso il richiamo a V.MANES, Il giudice nel labirinto, Profili delle intersezioni tra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012, nonché ancora a F. VIGANÒ-G. UBERTIS (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, op. cit.
[17] Sulla quale vd. l’efficace sunto proposto da R. GAROFOLI in Manuale di diritto penale, Parte generale, Roma, 2017, pag. 26 e ss.
[18] Grande Stevens e altri c. Italia, 4 marzo 2014. La complessa vicenda in tema di abusi di mercato, punibili in astratto tanto sul piano penale che su quello amministrativo ai sensi degli artt. 187ter e 185 del T.U.F., ha originato un processo di ripensamento del c.d. doppio binario sanzionatorio, ritenuto da più parti incompatibile con il principio del ne bis in idem di cui all’art. 4 del Prot. 7 CEDU: per approfondimenti, vd. F. VALENTINI, Il rapporto tra Diritto penale e Diritto amministrativo in punto di sanzioni. “Ne bis in idem” ed “equo processo” alla luce delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.federalismi.it. Uno dei punti essenziali del dibattito, con il tempo allargatosi anche ai reati tributari, è rappresentato dalla prospettata riconducibilità delle sanzioni amministrative e penali ad un unico genus da sottoporre ad identica disciplina processuale e sostanziale. La problematica è stata portata all’attenzione della Corte costituzionale, che con sentenza del 12 maggio 2016, n. 102 ha tuttavia rilevato l’inammissibilità delle questioni sottopostele. Il punto sulla situazione attuale può ricavarsi dal prospetto di F.VIGANÒ, Le conclusioni dell'avvocato generale nei procedimenti pendenti in materia di ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e di abusi di mercato, in www.penalecontemporaneo.it.
[19] Parla di “dialogo difficile” ancora F.VIGANÒ, nel suo commento a Cass., sez. I civ., sent. 2 marzo 2016, n. 4114, Il dialogo difficile: ancora fraintendimenti della Cassazione civile sulla giurisprudenza della Corte EDU in materia di sanzioni CONSOB e retroattività in mitius, su www.penalecontemporaneo.it.
[20] Probabilmente, la più chiara e recente espressione di questo travagliato iter è contenuta in Corte cost. 26 marzo 2015, n. 49, con la quale la Consulta fornisce un’interpretazione della giurisprudenza EDU in tema di confisca urbanistica tale da affievolirne grandemente la forza cogente: cfr. D.PULITANÒ, Due approcci opposti sui rapporti fra Costituzione e CEDU in materia penale. Questioni lasciate aperte da Corte Cost. n. 49/2015 in www.penalecontemporaneo.it.
[21] Lo sottolinea efficacemente E.ZUFFADA nel commento cit. supra.
[22] Solo negli ultimi mesi, vd. Corte cost. nn. 43/2017, 68/2017 e 109/2017: il ricorso ad una dichiarazione di inammissibilità rappresenta spesso l’escamotage utilizzato dalla Corte per evitare di affrontare nel merito le ripercussioni scaturenti dall’applicazione dell’intero catalogo di garanzie penali alle sanzioni amministrative. Per approfondimenti, cfr. i commenti alle suddette pronunce di A.CHIBELLI, L’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni "sostanzialmente penali" e la rimozione del giudicato di condanna: la decisione della Corte costituzionale e F.VIGANO’, Un’altra deludente pronuncia della corte costituzionale in materia di legalità e sanzioni amministrative ‘punitive’; ID., Una nuova pronuncia della consulta sull’irretroattività delle sanzioni amministrative sempre in www.penalecontemporaneo.it .
[23] All’interno di un sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali come quello attuale, infatti, si assiste ad un condizionamento reciproco dei diversi ordinamenti tale da portare ad un livellamento verso l’alto degli standard di tutela dei diritti: sul sistema giuridico multi-level vd. già A. BARBERA, Le tre Corti e la tutela multilivello dei diritti, in P. BILANCIA-E. DE MARCO (a cura di), La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti momenti di stabilizzazione, Milano, 2004; V.MANES, Il giudice nel labirinto, op. ult.cit.; A.RUGGERI, Dal legislatore al giudice, sovranazionale e nazionale: la scrittura delle norme in progress, al servizio dei diritti fondamentali, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti. 18. Studi dell’anno 2014 , Torino, 2015, pp. 579 ss.