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Pubbl. Sab, 6 Apr 2019

Decreto Salvini: riforma delle regole sull´immigrazione

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Lorenza Sipione


Le principali modifiche ai permessi di soggiorno ed altre importanti novità


Sommario: 1. Premmessa introduttiva; 2. Inquadramento normativo; 3. Principali elementi innovativi della legge 1 dicembre n.113 del 2018; 4. Considerazioni conclusive.

1. Premessa introduttiva

In Italia negli ultimi anni il fenomeno migratorio si è intensificato a tal punto da assumere proporzioni disumane. La “governance” del sistema di accoglienza dei migranti nel territorio nazionale costituisce un compito particolarmente arduo per gli operatori del settore, tenuto conto del massiccio numero di sbarchi illegali.   

2. Inquadramento normativo

Dal punto di vista normativo la pietra angolare del fenomeno migratorio è rappresentata dal decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286 rubricato “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero”. Tale cornice normativa riguarda vari profili giuridici afferenti i soggetti che non appartengono agli Stati membri dell’Unione europea quali il respingimento alla frontiera, l’espulsione, il trattenimento nei centri di identificazione, il permesso di soggiorno per motivi di lavoro, per motivi umanitari, per cure mediche. Il decreto legislativo in parola rappresenta la legislazione fondamentale in materia di immigrazione, che si accompagna ad una serie di leggi ancillari, quali il decreto legislativo n.25 del 2008, il decreto legislativo n.150 del 2011, la legge n.47 del 2017.

Da ultimo, in tema, viene in rilievo il d. l. 4 ottobre 2018, n.113 cd. Decreto Salvini, dal nome del Ministro dell’Interno in carica, recante “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica" oggetto di conversione nella legge 1 dicembre 2018, n.132 in G.U 3 dicembre 2018, n.281. 

Si tratta di un complesso di norme di notevole impatto che muta per certi aspetti il previgente sistema in materia di contrasto al fenomeno degli stranieri irregolari  in Italia, introducendo una serie di misure più rigide e stringenti rispetto al recente passato.  

La legge in discorso muove, infatti, dalla consapevolezza dell’ingente numero di migranti irregolari presenti nel territorio nazionale, per lo più provenienti dalle zone dell’Africa centro- settentrionale e da quelle del Medioriente e del conseguente pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. L’obiettivo del legislatore è   riportare nel medio periodo l’intero sistema nazionale ad una gestione ordinata e sostenibile basata su canali legali di ingresso e sul rimpatrio degli immigrati in condizioni di soggiorno irregolare, esposti al rischio di marginalità sociale e di coinvolgimento in attività illegali[1].

3. Principali elementi innovativi della legge 1 dicembre n.113 del 2018

In particolare la nuova legislazione ha inciso su alcuni profili giuridici innovando l’assetto precedente. Si fa riferimento specialmente al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari previsto dall’art. 5 comma 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

Appare doveroso evidenziare che la protezione umanitaria è uno strumento legislativo nazionale che si affianca, in Italia, alle due forme di protezione riconosciute, invece, a livello internazionale: lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria.

 Nel nostro ordinamento l’istituto della protezione internazionale trova il proprio fondamento normativo nell’art.10 comma 3 Cost., in forza del quale: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

 Lo status di rifugiato è previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951[2] ed è riconosciuto a qualsiasi persona che nel proprio paese di origine o nel paese in cui vive «rischia persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche».

 È insomma, di diritto, rifugiato chi ha un ragionevole timore di poter essere, in caso di rimpatrio, vittima di persecuzione. Tra le persecuzioni sono compresi la violenza fisica o psichica, la violenza sessuale, il reclutamento dei bambini soldato, le pratiche dei matrimoni forzati e anche le mutilazioni genitali femminili. Insomma, tutte quelle azioni che, per la loro natura o per la frequenza, rappresentano una violazione grave dei diritti umani fondamentali commessa per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un certo gruppo sociale o opinione politica.

La protezione sussidiaria, invece, è lo “status” riconosciuto a chi è cittadino di un paese terzo o è apolide e «rischia di subire un danno grave» in caso di rientro nel proprio paese: rischia cioè di essere ucciso, di essere torturato o di subire le conseguenze di una situazione di violenza generalizzata e di conflitto.

Secondo l’art. 14 del decreto legislativo 251/2007 ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono riconosciuti al richiedente in esito ad un apposito iter istruttorio svolto dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale previsto dal decreto legislativo 25/2008 (decreto “procedure”). Se l’esito della fase istruttoria è positivo, il Questore rilascia un permesso di soggiorno che dura cinque anni.

Quando non ci sono le condizioni per concedere la protezione internazionale, ma ci sono comunque «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano» per offrire protezione, può essere richiesta la protezione umanitaria, che ha un valore molto ampio, proprio perché espande i motivi di tutela ben oltre il “catalogo” del rifugio politico e della protezione sussidiaria.

Recentemente l’art. 3 della L. n. 110/2017 aveva previsto un sostanziale ampliamento delle condizioni di riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, introducendo l’ipotesi di “fondato timore di essere sottoposti a tortura e di essere soggetti a violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani”.

A sua volta la Corte di Cassazione si è pronunciata in materia[3] statuendo che la protezione umanitaria rappresenta una forma di tutela alternativa nel caso in cui non sussistano i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato e non ci siano gli elementi per invocare la protezione sussidiaria. In buona sostanza i seri motivi di carattere umanitario costituivano la chiusura del sistema normativo che disciplina la protezione internazionale dello straniero, così come recita l’art. 32, comma 3 del d.lgs. 25/2008 secondo cui “nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale” e “ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al questore per l’eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”. Tali “gravi motivi di carattere umanitario” non erano tipizzati dalla legge; di conseguenza costituivano un catalogo aperto[4], anche se concernevano diritti umanitari fondamentali protetti a livello costituzionale ed internazionale[5]. La situazione giuridica soggettiva dello straniero che richieda il permesso di soggiorno per motivi umanitari, è sorretta dalla garanzia costituzionale di cui agli articoli 2 e 10 Cost., laddove il costituente ha garantito i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e negli aggregati sociali ed il diritto all’esercizio delle libertà democratiche.

In conclusione, la situazione giuridica dello straniero che richieda il rilascio di permesso per ragioni umanitarie aveva consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali e non bastava il concretizzarsi di una vita migliore nel Paese di accoglienza, dal punto di vista affettivo- lavorativo- sociale- economico ma era indispensabile una comparazione con il Paese d’origine al fine di valutare l’esistenza di una reale condizione di vulnerabilità volta a negare l’esercizio dei diritti fondamentali inviolabili.

Inoltre, in tale sentenza gli ermellini sostengono ancora che l’elemento dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero condurrebbe a circostanze di carattere stabile e duraturo, mentre il complessivo regime giuridico proprio delle norme di concessione della tutela per motivi umanitari appare volto alla protezione di fattispecie transitorie ed in divenire, come si evince dall’art. 14, comma quarto, D.P.R. 21/2015 che prevede il rilascio da parte del Questore di un  “permesso di soggiorno di durata biennale”, quando la Commissione nazionale, nel caso di revoca o cessazione dello status di protezione internazionale riconosciuto, accerti l’esistenza di “gravi motivi di carattere umanitario”.

Proprio in questo si rileva la differenza rispetto agli status di protezione internazionale, alla cui concessione consegue, invece il riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno di natura quinquennale, che costituisce titolo insieme ad altri requisiti previsti per legge, per il rilascio di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, possibilità che viene nettamente esclusa per coloro che sono titolari di un permesso umanitario.

Invero, il d. l.4 ottobre 2018, n.113 convertito nella legge n.132 del 2018  ha introdotto una serie di novità, come si accennava, nell’ottica di meglio regimentare  il sistema dell’accoglienza dei migranti razionalizzando il ricorso al sistema di protezione per i titolari  di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, di stringere le maglie della permanenza dei migranti irregolari nel territorio nazionale scongiurando il rischio di ricorso strumentale alla domanda di riconoscimento della protezione internazionale.

Tale normativa ha introdotto significativi elementi di novità in particolare al testo unico immigrazione n.286 del 1998, ai provvedimenti attuativi delle direttive europee in materia di attribuzione dello status di protezione e procedure comuni per il riconoscimento e la revoca dello stesso (d. lgs n.142 del 2015, d.lgs n.25 del 2008[6] e d. lgs. n.251 del 2007[7]) e alle disposizioni concernenti il sistema SPRAR[8] (l. n.39 del 1990).

In primo luogo viene in rilievo il permesso di soggiorno per motivi umanitari (art. 5 comma 6 T.U. immigrazione), che a seguito della novella normativa ha subito una rimodulazione, poiché la generica locuzione “seri motivi di carattere umanitario” è circoscritta e limitata a certe condizioni. Pertanto, alla luce del nuovo articolo 18 bis  comma 1 bis della legge n.132 del 2018 “ il permesso di soggiorno  rilasciato in forza di tale disposto normativo reca la dicitura “casi speciali”, ha la durata di un anno e consente l’accesso a servizi assistenziali e allo studio nonché l’iscrizione nell’elenco anagrafico previsto dall’art 4 del regolamento  di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 1000,n.442 o lo svolgimento  di lavoro subordinato e autonomo, fatti salvi i requisiti minimi di età”.

L’intento del legislatore è quello di porre un argine, un filtro al flusso dei migranti, nonché alla loro permanenza nel territorio nazionale nei casi in cui essi siano meritevoli di soggiornare in Italia alla luce delle particolari e tassative condizioni in cui versano. Difatti, l’interpretazione estensiva dell’inciso “seri motivi di carattere umanitario” ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, stante l’esercizio di ampio potere discrezionale in tal senso, aveva comportato un’applicazione disarmonica sul territorio, sviando di fatto dall’originaria funzione. Pertanto, il più delle volte accadeva che i titolari del permesso di soggiorno umanitari non risultassero effettivamente stabilizzati e inclusi socialmente, tant’è che spesso, poi, risultavano privi dei requisiti per ottenere la conversione di quel permesso in permesso di soggiorno per lavoro subordinato con grave pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Nel senso di una restrizione del campo di operatività dell’istituto in discorso ad opera della normativa in vigore milita l’ampliamento del novero dei reati in ordine ai quali il richiedente asilo   ha l’obbligo di lasciare il territorio nazionale, anche in pendenza di ricorso avverso il provvedimento di diniego adottato dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Tuttavia, la n.132 del 2018 prevede un’ipotesi derogatoria, in tal senso: nei casi in cui la Commissione territoriale non accolga la domanda di protezione internazionale e ricorrono i presupposti di inespellibilità di cui all’art 19 commi 1 e 1.1 del testo unico immigrazione, la Commissione stessa trasmette gli atti al Questore per il rilascio di un permesso che reca la dicitura “protezione speciale” avente validità per un anno e rinnovabile. Il riconoscimento della protezione internazionale, infatti, è valutato alla luce di un complesso “iter” istruttorio in relazione al quale l’istante viene sentito; se all’esito si ritiene non vi siano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, la Commissione territoriale si determina per il diniego della domanda. Il ricorso all’istituto della protezione umanitaria si è rivelato il più delle volte strumentale, con la conseguente proliferazione di istanze già in origine manifestamente infondate ed intasamento dell’attività ordinaria delle Commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale, senza tralasciare gli oneri a carico della finanza pubblica   per i rimpatri e la moltiplicazione dei casi di esclusione sociale.

La stessa Corte dei Conti[9] ha trasmesso al Parlamento una relazione in cui ha prospettato l’esigenza di evitare la permanenza per molti mesi nelle strutture d’accoglienza da parte dei migranti, senza che questi ne abbiano titolo, venendo di fatto inseriti anche nei percorsi di formazione professionale a carico del bilancio dello Stato.

-Un ulteriore elemento di novità, rispetto al panorama normativo previgente, consiste nel raddoppiamento dei termini    di detenzione degli stranieri irregolari nei centri per i rimpatri in 180 giorni, anziché 90.  Si tratta del tassello di chiusura del sistema di gestione dei flussi migratori, in relazione al quale la novella legislativa ha inteso rafforzare gli istituti che ne possano assicurare una maggiore effettività.

Nella visione del legislatore l’allungamento di tali tempi è strumentale a consentire l’identificazione di tutti gli stranieri presenti nella struttura e quindi a rendere più efficace il procedimento di identificazione ai fini dell’espulsione.

Del resto è evidente che se i migranti irregolari vengono effettivamente espulsi   sempre meno individui rischieranno la vita per raggiungere le coste italiane senza il titolo per il diritto d’asilo.

 Se da una parte il legislatore restringe l’ambito applicativo dell’istituto del riconoscimento della protezione per motivi umanitari relegata a circostanze ben determinate, dall’altra introduce anche dei meccanismi premiali per lo straniero in Italia.

-In particolare all’art.42 bis è inserito il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile. La norma in esame prevede “qualora lo straniero abbia compiuto atti di particolare valore civile, nei casi di cui all’art.3 della legge 1958 n.13, il Ministro dell’Interno, su proposta del Prefetto competente, autorizza il rilascio di uno speciale permesso di soggiorno, salvo che ricorrano motivi per ritenere che lo straniero risulti pericoloso per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, ai sensi dell’art.5 comma 5 bis. In tali casi, il Questore rilascia un permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile”.

Un ulteriore tratto innovativo introdotto dalla legge n.132 del 2018 è contenuto nell’articolo 19 ter del decreto legislativo 1 settembre 2011, n.150 e consiste   nell’inappellabilità dell’ordinanza resa in riferimento alle controversie in materia di diniego  e di revoca di permessi di soggiorno temporanei per esigenze di carattere umanitario. La disposizione normativa di nuovo conio recita espressamente: “l’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile. Il termine per proporre ricorso per cassazione è di giorni trenta e decorre dalla comunicazione dell’ordinanza a cura della cancelleria, da effettuarsi anche nei confronti della parte non costituita”. La modifica normativa ha dunque eliminato un grado di giudizio, l’appello, consentendo la sindacabilità della decisione solo tramite ricorso per cassazione.

La “ratio” di tale disposto legislativo è ravvisabile nell’esigenza di evitare che le lungaggini processuali possono “spalleggiare” la permanenza dei migranti irregolari nel territorio nazionale, atteso che nelle more della definizione del giudizio lo straniero non ha ancora acquisito lo “status” di soggiornante regolare in Italia, mentre in quel lasso temporale potrebbe costituire una minaccia per l’ordine  e la sicurezza pubblica, potendo facilmente divenire preda dei circuiti della criminalità. La legge n.132 del 2018 non solo ha eliminato un grado di giudizio, ma ha anche individuato talune cause di inammissibilità della domanda per il riconoscimento della protezione internazionale; proposizione di domanda identica sulla quale già è stato espresso un diniego nonché la domanda reiterata presentata nella fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento, al solo scopo di ritardarne o impedirne l’esecuzione.

Al concetto di Paese di origine sicuro viene infatti collegata una presunzione iuris tantum di manifesta infondatezza dell’istanza, con inversione dell’onere della prova a carico del richiedente in ordine alle condizioni di non sicurezza del Paese stesso in relazione alla propria situazione particolare.

 4. Considerazioni conclusive

Nell’ultimo ventennio vari sono stati gli interventi legislativi in materia di gestione del fenomeno migratorio a partire dalla legge Martelli, passando poi per la legge Turco –Napolitano e per la legge Bossi-Fini. L’avvicendamento normativo muove dalla presa d’atto che l’immigrazione nel nostro Paese non è più una questione isolata e di emergenza, essendo ormai diventata una questione culturale. E’, infatti, importante essere consci del fatto che l’immigrazione ha cambiato la nostra società e questo ha determinato la sfida di costruire una convivenza ordinata giusta e coesa, fatta di dialogo, confronto e rispetto fra diverse culture attraverso politiche serie, concrete ed efficaci al fine di rendere il nostro territorio più vivibile e sicuro per tutti.

[1] Circolare del Ministero dell’Interno del 18 dicembre 2018

[2] Senato della Repubblica, XVII legislatura. 2015.

[3]  Così Cassazione sentenza n. 4455/2018 del 23 febbraio 2018

[4] Cass. n. 26566/2013

[5] Cass.  sez un., 19393/2009.

[6] Direttiva 2013/32/UE, 26 giugno 2013. Rifusione della Direttiva 2005/85/CE.

[7] Direttiva 2011/95/UE, 13 dicembre 2011. Rifusione della Direttiva 2004/83/CE.

[8] Lo SPRAR deve essere percepito come parte integrante del welfare locale e, come tale, complementare agli altri servizi pubblici alla cittadinanza garantiti sul territorio». A tal riguardo cfr. Servizio centrale dello SPRAR, I percorsi di inserimento socio-economico nello SPRAR. Metodologie, strategie, strumenti, luglio 2016, p. 6.

[9] Corte dei Conti deliberazione n.3 del 2018.