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Pubbl. Sab, 1 Dic 2018

Il giudice che deposita tardivamente un provvedimento commette rifiuto di atti d´ufficio

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Barbara Druda


La Cassazione -sent. 43903/2018- ha ritenuto integrato il delitto di cui all’art. 328 c.p. da parte del Giudice che deposita tardivamente un provvedimento. Infatti, il soggetto è obbligato all´adempimento appena possibile, pertanto la consumazione del reato si verifica al momento dell´omissione o quando è stato opposto il rifiuto


Sommario: 1. Premessa; 2. Il delitto di omissione d’atti d’ufficio; 2.1 Rifiuto d’atti d’ufficio; 2.2 Omissione d’atti d’ufficio; 3. Applicazione al caso concreto. 

1. Premessa

La sentenza in commento prende le mosse dal caso di un Giudice, presidente del collegio della Corte di Appello di Messina, condannato ai sensi dell’art. 328 c.p. per aver depositato tardivamente il provvedimento decisorio emesso in seguito all’impugnazione di un decreto di applicazione della misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

In particolare, la decisione era stata riservata all’udienza tenutasi in data 1 luglio 2009 ed il magistrato, che aveva il compito di redigere la motivazione del provvedimento, ha proceduto al suo deposito solo in data 24 marzo 2011, nonostante prima di tale momento la parte avesse presentato due sollecitazioni (rispettivamente in data 11 marzo e 14 maggio del 2010) ed una denuncia sporta il 14 febbraio 2011.

Avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria veniva presentato ricorso per Cassazione.

Con il primo motivo si denunciava il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 328 c.p. e 530 c.p.p. nonché vizio di motivazione ex art. 606, I° comma lett. b) ed e) sottolineando l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato. In particolare, il difensore dell’imputato contestava l’esistenza del dolo asserendo che nel delitto de quo, oltre alla consapevolezza e volontà dell’omissione, del ritardo o del rifiuto dell’atto di ufficio, è altresì necessaria la consapevole volontà di agire in violazione dei doveri istituzionali. Tale consapevolezza -nel caso concreto- mancherebbe, e infatti, a dire del difensore, la stessa sarebbe incompatibile con l’elevata produttività personale dell’imputato nonché con i gravosi carichi di lavoro che gli facevano capo.

Con il secondo motivo, invece, veniva denunciato il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 54 e 328 c.p. nonché vizio di motivazione ex art. 606, I° comma lett. b) ed e) per il mancato riconoscimento dello stato di necessità rappresentato dalla grave situazione familiare in cui si è venuto a trovare l’imputato a seguito della sopravvenuta paralisi della figlia.

2. Il delitto di omissione d’atti d’ufficio

L’art. 328 c.p., rubricato “Rifiuto d’atti d’ufficio. Omissione”, al comma 1 dispone che «Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblicao di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni»; invece, al comma 2 statuisce che «Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa».

Come si evince dalla lettera normativa, la disposizione de qua ricomprende al suo interno due fattispecie incriminatrici autonome. Infatti, al primo comma viene punita la condotta consistente nel rifiuto indebito di compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) che, al contrario, avrebbe dovuto realizzarlo senza ritardo. Al secondo comma, invece, viene sanzionata penalmente la condotta consistente nel mancato compimento di un atto entro trenta giorni dalla richiesta avanzata dall’interessato e senza che il pubblico ufficiale, nel medesimo lasso temporale, abbia risposto esponendo le ragioni sottese al ritardo.

Entrambe le fattispecie sono poste a tutela del buon andamento della Pubblica Amministrazione che viene messo a repentaglio dall’intempestività, inefficienza ed inefficacia nell’adempimento delle funzioni pubbliche. Tuttavia, mentre la prima esaurisce qui il suo bene giuridico –strutturandosi così come fattispecie monoffensiva-, la seconda viene posta a presidio anche dell’interesse del privato cittadino interessato al compimento dell’atto –configurandosi, quindi, come fattispecie plurioffensiva-. Anche la Cassazione si è più volte espressa nel senso della plurioffensività della seconda fattispecie citata; infatti, la norma de qua da un lato presuppone la presentazione di una richiesta da parte dell’interessato –che è titolare di una situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo o di diritto soggettivo- e dall’altro tutela la sua aspettativa ad ottenere il provvedimento richiesto oppure l’indicazione dei motivi sottesi al ritardo o alla sua mancata adozione[1].

Dal momento che il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice può essere leso solo da un soggetto che si trova con esso in una particolare relazione, il reato de quo si configura come reato proprio. Infatti, soggetto attivo può essere solo il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio a cui compete la realizzazione dell’atto richiesto. Peraltro, nel caso in cui il compimento dell’atto spetti ad un organo collegiale, a rispondere del fatto criminoso sono i singoli componenti del medesimo[2].

Come già precedentemente specificato, la disposizione in esame include al sue interno due distinte fattispecie di reato che meritano di essere esaminate separatamente.

2.1 Rifiuto d’atti d’ufficio

Il delitto di cui al primo comma si configura come reato commissivo, infatti, si perfeziona con la condotta consistente nel rifiuto di compiere un atto qualificato che, invece, dovrebbe eseguirsi senza ritardo.

La disposizione de qua ha suscitato un dibattito in giurisprudenza in ordine a se il rifiuto possa consistere anche in una mera inerzia. Un primo indirizzo ermeneutico ha escluso tale possibilità asserendo che la sussistenza di una sollecitazione soggettiva, consistente in una richiesta o in un ordine, sia il presupposto logico necessario ai fini dell’integrazione del delitto de quo. Quindi, a detta dei fautori di questa tesi, servirebbe un quid che faccia emergere la volontà negativa del soggetto agente, mentre sarebbe assolutamente irrilevante il semplice non fare[3]. Al contrario, un diverso filone giurisprudenziale, ha ritenuto che per l’integrazione del reato sia sufficiente l’inerzia «quando sussista un’urgenza sostanziale, impositiva dell’atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all’attenzione del soggetto obbligato ad intervenire, dimodoché l’inerzia soggettiva del medesimo assuma la valenza di rifiuto»[4]. Quest’ultimo orientamento risulta assolutamente prevalente, infatti, la Suprema Corte ha più volte evidenziato che il delitto de quo è configurabile anche in caso di inerzia omissiva che, protraendo il compimento dell’atto oltre i termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito, non essendo al contrario necessaria una formale manifestazione di volontà (in tal senso anche Cass. pen., sez. VI, 13 luglio 2018, sent. n. 43903).

Per quanto concerne i caratteri del rifiuto, lo stesso deve essere indebito, ossia non deve sottendere alcuna ragione giustificatrice che potrebbe trovare la sua fonte nella legge, in un atto dell’autorità oppure nell’assoluta impossibilità di procedere all’adozione dell’atto richiesto.

Peraltro, il rifiuto indebito acquisisce rilevanza penale non rispetto a qualsiasi atto ma solo se avente ad oggetto un atto qualificato. Secondo in dettami della Suprema Corte[5] un provvedimento può definirsi tale al ricorrere di alcuni requisiti dalla stessa individuati. Anzitutto deve trattarsi di un atto da compiere senza ritardo, quindi, caratterizzato da indifferibilità e doverosità; in secondo luogo è necessario che sia un atto da doversi adottare per una delle specifiche ragioni previste dalla fattispecie incriminatrice (id est di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico, di igiene e sanità). In mancanza di tali requisiti, quindi, essendo l’atto non qualificato, l’indebito rifiuto del suo compimento risulta penalmente irrilevante.

La consumazione del delitto si realizza nel momento in cui si ha il rifiuto o l’inerzia, infatti, si tratta di un reato istantaneo[6], mentre la protrazione dell’inattività acquisisce rilevanza solo sul piano sanzionatorio[7].  

Per quanto concerne l’elemento soggettivo è necessario il dolo che si identifica nella consapevolezza, da parte del pubblico ufficiale, di tenere un comportamento omissivo. In particolare, egli si deve rappresentare e volere la realizzazione di un evento contra ius, mentre non è richiesto che venga perseguito il fine di violare i propri doveri d’ufficio (ex pluribus, Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 2010, sent. n. 8996)

2.2 Omissione d’atti d’ufficio

La fattispecie di cui al 2° comma prevede che «Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa».

Il delitto in esame si caratterizza per essere un reato omissivo proprio, ciò significa che si consuma nel momento in cui il soggetto obbligato non pone in essere l’azione imposta dalla legge. Affinché lo stesso possa integrarsi è necessario che il privato, titolare di un interesse qualificato[8], proceda con una vera e propria messa in mora nei confronti del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) affinché questi provveda all’adozione dell’atto richiesto. Dal momento di presentazione di detta richiesta scritta inizia a decorrere il termine per l’adozione dell’atto oppure per l’esplicitazione delle ragioni poste a sostegno del ritardo. Di particolare rilievo il fatto che le due attività (adozione dell’atto oppure esplicitazione delle ragioni del ritardo) rappresentino entrambe una modalità di adempimento dell’obbligo idonea ad escludere l’integrazione del reato. Infatti, se per l’esclusione della rilevanza penale della condotta fosse stata necessaria esclusivamente l’adozione dell’atto richiesto, si sarebbe rischiato di introdurre nel sistema la possibilità per il giudice penale di valutare il merito amministrativo.

Una problematica suscitata dalla disposizione de qua è rappresentata dalla determinazione del rapporto intercorrente tra il termine di trenta giorni previsto dalla norma penale ed il termine di definizione del procedimento amministrativo di cui all’art. 2 commi II e III della legge sul procedimento amministrativo (L. 241/1990). Sul punto si sono sviluppati due filoni ermeneutici. Secondo un primo –e maggioritario- orientamento l’integrazione del reato si avrebbe solo quando il privato abbia proceduto con atto formale di messa in mora in seguito allo spirare del termine previsto per il procedimento amministrativo. Di conseguenza, il termine di trenta giorni di cui all’art. 328 c.p. inizierebbe a decorrere successivamente alla “scadenza” del termine amministrativo e purché il privato abbia adottato l’atto di diffida. Invece, secondo un diverso indirizzo interpretativo, il termine penale e quello amministrativo sarebbero perfettamente sovrapponibili con la conseguenza che la mancata adozione dell’atto entro il termine integrerebbe sia il silenzio-inadempimento della P.A. che il delitto di omissione d’atti d’ufficio.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, anche in tal caso è necessario il dolo non essendo espressamente prevista l’ipotesi colposa.

3. Applicazione al caso concreto

Applicando la disciplina di cui all’art. 328 c.p. al caso concreto, la Corte di Cassazione ha ritenuto che il Giudice, depositando tardivamente il provvedimento abbia integrato il delitto de quo.

In particolare, con il primo motivo di ricorso, così come sopra meglio indicato, il difensore contestava la sussistenza dell’elemento soggettivo sostenendo l’assenza della consapevole volontà di agire in violazione dei doveri istituzionali desumibile sia dall’elevata produttività personale dell’imputato nonché dai gravosi carichi di lavoro che gli facevano capo.

La Suprema Corte, tuttavia, dopo aver ribadito che il fine di violare i doveri istituzionali non è elemento costitutivo dell’elemento soggettivo del reato, ha ritenuto sussistente il dolo. In particolare, l’imputato non aveva adottato alcun tipo di accorgimento per procedere all’adozione dell’atto tra cui, ad esempio, una richiesta di esonero parziale giustificata dall’eccessivo carico di lavoro o per motivi familiari rappresentati dallo stato di salute della figlia. Per di più, nel caso concreto l’imputato non poteva certo ritenersi gravato da un carico di lavoro insostenibile, infatti, nessuno degli altri componenti della Sezione ha avuto problemi di questo tipo, né la difesa ha prodotto allegazioni in ordine alla sussistenza di una sproporzione nella distribuzione degli affari in suo danno. Quindi, la Cassazione conclude ritenendo che lo stesso fosse pienamente consapevole della propria condotta omissiva rispetto al dovere di redigere il provvedimento di prevenzione, né ha fatto ricorso agli strumenti predisposti dall’ordinamento che gli avrebbero consentito di fruire di un maggior tempo per provvedere.

Con il secondo motivo, invece, veniva contestato il mancato riconoscimento della causa di giustificazione di cui all’art. 54 c.p. rappresentata dalla grave situazione familiare in cui si è venuto a trovare l’imputato a seguito della sopravvenuta paralisi della figlia. Infatti, essendo l’incidente risalente nel tempo, lo stesso è stato considerato inidoneo a produrre un impatto emotivo immediato, inoltre, a rendere inapplicabile la causa di giustificazione concorre la circostanza che al momento dei fatti la ragazza conducesse una vita autonoma (risiedeva in una diversa località per ragioni di riabilitazione).

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Ex pluribus Cass., sez. II, 29.03.2011-05.05.2011, n. 17345; Cass., sez. V, 27.11.2013-27.02.2014, n. 9730.
[2] R. GAROFOLI, Compendio superiore di diritto penale, parte speciale, Nel Diritto Editore, 2016, p. 122.
[3] Cass., sez. VI, 09.12.1996-06.02.1997, sent. n. 1120.
[4] Cass., sez. VI, 20.02.1998 – 11.05.1998, sent. n. 5482; in tal senso, ex pluribus, Cass., sez. VI, 20.11.2012, sent. n. 10051.
[5] Cass., sez. III, 13.12.2013, sent. n. 5688; R. GAROFOLI, op. cit., p. 123.
[6] Ex multis, Cass. pen., sez. 6, 27.01.2004, sent. n. 12238; Cass. pen., sez. 4, 28.03.2000, sent. n. 9086; Cass. pen., sez. 6, 24.06.1998, sent. n. 10137.
[7] «…l’omissione può essere “di breve o di lunga durata” senza che ciò incida sulla configurabilità e sussistenza del reato, potendo tale profilo essere “funzionale piuttosto ad apprezzare, ai fini del trattamento sanzionatorio, la condotta post delictum dell’agente”», Cass. Pen., sez. VI, 03.10.2018, sent. n. 43903.
[8] L’interesse del privato deve essere qualificato e differenziato. In particolare, l’interesse si definisce qualificato quando è specificamente preso in considerazione dalla norma giuridica che lo riconosce come meritevole di tutela, così imponendo all’Amministrazione procedente di prenderlo in considerazione. Inoltre, si definisce differenziato quando si distingue da quello della generalità dei consociati. Per approfondimenti, F. CARINGELLA, Manuale di Diritto Amministrativo, Dike Giuridica Edizioni, 2016, pp. 16 e ss.