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Pubbl. Dom, 4 Nov 2018

Bancarotta prefallimentare: il ruolo della declaratoria di fallimento alla luce dei recenti arresti giurisprudenziali

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Vincenzo Visicchio


Condizione obiettiva di punibilità (ex art. 44 c.p.) o elemento costitutivo del reato? La questione ha visto contrapposte dottrina e giurisprudenza nella definizione della declaratoria di fallimento.


Una questione risalente, che appassiona tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, attiene alla qualifica da attribuire alla sentenza dichiarativa di fallimento (i.e. la pronuncia giudiziale dichiarativa dello stato di insolvenza).

Sul presupposto che il disvalore penale dei fatti prefallimentari di bancarotta non è un riflesso retrospettivo del fallimento, ma si radica in una carica offensiva immanente – che  è rappresentata dalla violazione di regole gestionali poste a protezione delle ragioni creditorie, espresse nel divieto di porre in essere condotte atte a pregiudicare il soddisfacimento dei creditori – la dottrina prevalente riconosce alla dichiarazione di fallimento la natura di condizione obiettiva estrinseca di punibilità.

In altri termini, ai sensi dell’art. 44 c.p., la dichiarazione di fallimento nella bancarotta prefallimentare è l’evento - menzionato nella norma incriminatrice - che non contribuisce a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma esprime solo una valutazione di opportunità in ordine all’inflizione della pena[1].

In questa prospettiva, l’imperativo violato dal bancarottiere non vieta di fallire, ma di porre in essere condotte atte a pregiudicare il pieno soddisfacimento dei creditori sia sul piano patrimoniale che su quello documentale[2]: il fallimento sarebbe dunque un fatto determinato da un terzo (il giudice) che null’altro aggiunge alla portata lesiva dei fatti posti in essere dall’agente, limitandosi a rivelare successivamente un’offesa già realizzata.

L’ancoraggio di questa tesi è rinvenibile, peraltro, nella Relazione al R.d. n. 267/1942 che qualificava espressamente la sentenza di fallimento come “condizione di punibilità”, chiarendo che la precisa intenzione del legislatore fosse quella di non configurarla come evento del reato al fine di non indebolire la tutela penale del credito[3].

Di diverso avviso la giurisprudenza del Supremo consesso, ondivaga nei pronunciamenti in cui ha avuto modo di esprimersi: comune denominatore dei diversi arresti è la pacifica concezione della declaratoria di fallimento quale condizione di esistenza del reato, formula che nel tempo è stata progressivamente sostituita con quella di elemento essenziale o costitutivo del reato[4].

Ne discende, ex adverso alla tesi monolitica elaborata in dottrina, che “gli atti di disposizione che l’imprenditore compie sui propri beni ed i comportamenti, attivi od omissivi, che egli tiene nella condotta dei propri affari sono penalmente irrilevanti in quanto libera manifestazione del diritto di gestire l’impresa nel modo a lui più conveniente per la tutela dei propri interessi; essi invece diventano penalmente rilevanti quando, con la costatazione giudiziale dell’insolvenza, viene accertata la lesione arrecata ai diritti dei creditori. Pertanto, soltanto con la dichiarazione di fallimento si verifica l’esposizione a pericolo (e quindi si realizza l’offesa) dell’interesse tutelato; prima di tale momento è, per contro, impossibile affermare che la condotta abbia intaccato l’interesse dei creditori, perché esso è pienamente salvaguardato finché esistono altri beni sufficienti (ossia una capacità patrimoniale adeguata) a soddisfare regolarmente le obbligazioni. In altre parole, finchè non sopraggiunge il fallimento, che è l’unico mezzo tecnico idoneo ad accertare lo stato del dissenso, si deve ritenere che la capacità patrimoniale si adeguata e che non sia pertanto, attuale l’ipotesi di una lesione dell’interesse dei creditori”[5].

Rebus sic stantibus, è pacifico che la dichiarazione di fallimento non costituisce l’evento del reato di bancarotta, con la conseguenza (dirimente) che è del tutto irrilevante il nesso eziologico tra la condotta realizzatasi con l’attuazione di un atto dispositivo – che incide sulla consistenza patrimoniale di un’impresa commerciale – ed il fallimento.

 Da questa premessa, è possibile rintracciare due filoni giurisprudenziali distinti: occorre prendere le mosse da un’attenta actio finium regundorum per meglio comprendere le due differenti prospettive.

Cartina di tornasole è il ruolo dell’elemento soggettivo, il dolo. L’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità ha rimarcato che la dichiarazione di fallimento è svincolata dal dolo e dalla colpa necessari per la sussistenza dei reati di bancarotta fraudolenta e semplice.

La rappresentazione del fallimento esula dall’elemento soggettivo del reato con la conseguente irrilevanza del fatto che nell’agente manchi la consapevolezza di poter fallire, anche perché, siffatta convinzione si risolverebbe in errore su legge extrapenale, richiamata da quella penale[6].

In termini applicativi, la sentenza dichiarativa di fallimento non è sussumibile quale appendice della colpevolezza: è di certo elemento costitutivo del reato, ma diverso sia dalla condotta che dall’evento, in quanto non è necessario che l’elemento psicologico cada su di esso, poiché “in caso di fallimento, ogni atto distrattivo viene ad assumere rilevanza ai sensi dell’art. 216 l. fall. indipendentemente dalla rappresentazione di questi da parte del fallito”[7] .

Tale orientamento tralatizio è stato scalfito dalla pronuncia della V Sezione di Cassazione del 24 settembre 2012 n. 47502[8] che ha dato suffragio all’orientamento finora antagonista, donde lo stato di insolvenza - che dà luogo al fallimento - costituirebbe l’evento dei reati di bancarotta e pertanto dovrebbe porsi in rapporto causale con la condotta dell’agente ed essere, altresì, oggetto del dolo.

In altri termini, la dichiarazione giudiziale di insolvenza – ritenuta che sia estremo costitutivo – deve essere illuminata dal dolo sia nel momento della rappresentazione, sia in quello della volizione, quantomeno nella forma (spesso controversa nell’accertamento) del dolo eventuale: il soggetto deve, quindi, prefigurarsi che il suo comportamento depauperativo porterà verosimilmente al dissesto ed accettare tale rischio.

Ne discende quale logico corollario del pronunciamento appena citato che “la bancarotta è un reato di evento e tale evento consiste nella insolvenza della società che trova riconoscimento formale e giuridicamente rilevante nella dichiarazione di fallimento (…). Il fallimento è elemento costitutivo dell’illecito e si pone quale conseguenza (esclusiva o concorrente) della condotta distrattiva dell’imprenditore. L’interesse protetto dalla norma non è solo il potenziale pregiudizio del ceto creditorio, ma la lesione definitiva dei diritti di credito che si determina con il fallimento; tanto è vero che, per quanto siano consistenti e ripetuti gli atti di spoliazione del patrimonio di impresa gli atti di spoliazione del patrimonio di impresa, l’imprenditore non è punito se successivamente non è dichiarato fallito”.

Breve: la declaratoria di fallimento – in qualità di evento del reato – è legata a doppio filo, eziologico e psicologico, alla condotta dell’imprenditore soggetto attivo della bancarotta.

Il new deal inaugurato da questo arresto giurisprudenziale ha però avuto vita breve: i giudici della Suprema Corte hanno cambiato rotta ritornando a dare vigore all’orientamento tralatizio testè menzionato. È il caso del crac Parmalat a comportare questo revirement della giurisprudenza di legittimità a cui seguono altre numerose pronunce conformi.

Ecco, così, riaffiorare l’assunto per cui la dichiarazione di fallimento, non costituendo evento del reato, non necessiterebbe di alcuna riconduzione alla volontà o al dominio fisico dell’agente, risultando irrilevante il relativo accertamento.

Su questo solco cosi tracciato che espunge dalla colpevolezza lo stato di dissesto fa capolino una “timida” apertura alle tradizionali posizioni della dottrina: per le Sezioni Unite[9] i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento assumono rilevanza in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza.

La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento che si pone come evento successivo e comunque esterno al contegno dell’agente.

L’obiter dictum che ne discende torna utile non soltanto per definire la fattispecie ex art. 216 Lg. Fall. come reato di pericolo e non di danno -giacché il fallimento non costituisce oggetto di rimprovero e non consegue necessariamente alla consumazione delle condotte incriminate, le quali vengono punite per il solo fatto di aver esposto a pericolo l’integrità della garanzia patrimoniale poste a tutela del creditore – ma anche e soprattutto per qualificare la sentenza dichiarativa di fallimento come vera e propria condizione obiettiva estrinseca di punibilità, funzionale a restringere l’area del penalmente illecito solo in quei casi nei quali alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua l’effettiva instaurazione della concorsualità.

Ciò permette, semel pro semper di individuare facilmente il locus commissi delicti: una volta stabilito che il reato si consuma al momento della pronuncia della declaratoria di fallimento sarà il medesimo luogo valevole ai sensi dell’art. 8 c.1 c.p.p.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] R. BRICCHETTI- L. PISTORELLI, La Bancarotta e gli altri reati fallimentari, GIUFFRE’ EDITORE, MILANO, 2017.
[2] C. PEDRAZZI, Reati Fallimentari in C. PEDRAZZI- A. ALESSANDRI-L. FOFFANI-S. SEMINARA-G. SPAGNOLO, Manuale di Diritto Penale dell’impresa, II ed.agg., Bologna, 1998, 107 e ss.
[3] V. Gazz. Uff. 6 aprile 1942, n. 82, 17.
[4] Si veda in proposito Cass. Sez. Un. n. 2/1958 “ La dichiarazione di fallimento pur costituendo un elemento imprescindibile per la punibilità dei reati di bancarotta, si differenzia concettualmente delle condizioni obiettive di punibilità vere e proprie perché, mentre queste presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, sotto  l’aspetto oggettivo e soggettivo, essa invece, costituisce, addirittura, una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata l’esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi anteriori alla pronuncia, e ciò in quanto attiene così strettamente all’integrazione giuridica della fattispecie penale, da qualificare i fatti medesimi, i quali, fuori dal fallimento, sarebbero, come fatti di bancarotta, penalmente irrilevanti”.
[5] Più diffusamente Cass., sez I, 6 novembre 2006, Iocabucci, Ced 235793, in Riv. Trim dir. pen. econ.,2007,993; nello stesso senso tra le altre Cass., sez. V 25 marzo 2010, Olivieri, Ced 247299; Cass.,sez I, proc. Magnini, Ced 205164.
[6] R. BRICCHETTI- L. PISTORELLI, op.cit, 291
[7]Cass. Pen., Sez V n. 44933/2011.
Sul punto anche la Corte Costituzionale (sentenza del 30 Dicembre 1987 n. 636) ha affermato che tale soluzione non contrasta né con il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) né con quello di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) in quanto la fattispecie criminosa prenda in considerazione una unitaria situazione di fatto e per essa opera un’unitaria previsione del fatto come reato e delle sanzioni penali.
[8] A tutti nota come sentenza Ravenna Calcio.
[9] Cass. Sez. Un. 31 Marzo 2016 n.  22474.