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Pubbl. Ven, 19 Ott 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Affidamento in prova: l´evoluzione positiva della personalità va premiata anche se il reato è grave

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Mariangela Miceli
AvvocatoUniversità degli Studi di Palermo


Riprendendo il principio di diritto consolidatosi negli anni da parte della giurisprudenza di legittimità, la Cassazione ha ribadito la preminenza dell’evoluzione positiva della personalità dell’affidato rispetto alla gravità del reato commesso, privilegiando il percorso intramurario svolto dal condannato rispetto al suo pregresso criminale.


Sommario: 1. Esegesi del concetto di pena all’interno del Codice Rocco; 2. La pena secondo la Costituzione; 3. Significato e limiti del sistema rieducativo; 4. Affidamento in prova; 5. Il caso; 6. Conclusioni.

1. Esegesi del concetto di pena all’interno del Codice Rocco

Quando si fa riferimento alla sanzione penale generalmente si indica un castigo inflitto all’autore di un fatto illecito.

Vale la pena ricordare che il momento afflittivo della pena può raggiungere scopi differenti e questi stessi scopi mutano, a loro volta, in funzione delle più generali concezioni di società e di Stato. [1]

Le originarie scelte sanzionatorie contenute nel codice Rocco tentarono di far fronte a quello che in dottrina viene indicato come il c.d. sistema del doppio binario, in altre parole, un sistema nel quale si prevede accanto alla tradizionale pena la possibilità di applicare una misura di sicurezza, vale a dire una misura fondata sulla pericolosità sociale del reo e finalizzata alla sua risocializzazione.

Invero, il meccanismo del doppio binario introdotto dal legislatore del 1930 non si è tradotto in un sistema di sanzioni organico e coerente, in quanto è un meccanismo dalla natura eccessivamente compromissoria, tanto da soffrire di alcune incoerenze interne.

L’applicabilità ad uno stesso imputato di una pena e di una misura di sicurezza, aventi come presupposto l’una (la pena) la libertà e di contro la colpevolezza, l’altra (la misura di sicurezza) la tendenza a determinare la pericolosità sociale del reo, tende quasi a volerlo scomporre in due parti: libero e responsabile per un verso e quindi assoggettabile a pena, determinato e pericoloso dall’altro e quindi assoggettabile a misura di sicurezza. [2]

In merito Fiandaca ritiene che vi siano all’interno dell’impianto codicistico delle interferenze che rendono problematica ed incerta la linea di demarcazione tra i rispettivi criteri che guidano l’applicazione della pena e della misura di sciurezza.

Tale nodo è ravvisabile all’interno degli artt. 133 e 203 del c.p.. Il primo infatti, nel disciplinare il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena, stabilisce che si debba tenere conto della “capacità a delinquere del colpevole” desunta da una serie di elementi delle sua personalità, a sua volta, l’art. 203 c.p. in merito all’accertamento della pericolosità sociale quale presupposto della misura di sicurezza , dispone che la qualità di persona socialmente pericolosa si evinca dallo stesso articolo 133 c.p.

Ciò vuol dire che applicando il combinato disposto degli articoli di cui sopra si finisce con lo sfumare i criteri di applicazione della pena e della misura di sicurezza.[3]

2. La pena secondo la Costituzione

L’articolo 27, terzo comma, della Costituzione sancisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, dalla lettera del dettato normativo si può tranquillamente evincere come il sistema costituzionale miri  alla rieducazione  del condannato, in altre parole, l’impianto costituzionale è incline al concetto di risocializzazione.

Tale sistema, quindi, si pone un obiettivo ispirato a criteri di umanità che deve conciliarsi col rispetto dell’autodeterminazione del reo, in quanto la possibilità di rieducare il condannato è un obiettivo tendenziale, perseguibile finché il reo è disposto a collaborare.

3. Significato e limiti del sistema rieducativo

L’Idea rieducativa sancita all’interno dell’art. 27 terzo comma della Costituzione non consente, di fatto quindi di predeterminare la durata delle sanzioni.[4]

Il punto teorico dedotto dalla teoria della necessaria rieducazione del reo, considera tale rieducazione presupposto indefettibile della sanzione, in realtà, questo tipo di impostazione risente di un approccio idealistico del tutto estraneo alla dimensione empirica del fenomeno.

La rieducazione va concepita in collegamento col disvalore espresso dal fatto di reato in combinato disposto con quanto previsto dall’art. 25 secondo comma della Costituzione e in applicazione del principio di proporzionalità della pena, quale parametro essenziale di qualsiasi teoria moderna e razionale sulla funzione della pena stessa.

Appare evidente come per un vero e proprio indirizzo rieducativo della pena il delinquente debba riappropriarsi  dei valori fondamentali della convivenza e che ci sia un vero e proprio indizio psicologico affinché questo processo possa andare a buon fine.

4. Affidamento in prova

L’affidamento in prova al servizio sociale è una misura alternativa alla detenzione prevista  e disciplinata dall’art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, che stabilisce che, se la pena detentiva inflitta non supera i 3 anni, il condannato ha la possibilità di essere affidato ai servizi sociali fuori dell’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare.

Il condannato potrà così scontare (o proseguire) la pena fuori dal carcere, nel rispetto di programmi e prescrizioni, mettendo alla prova il proprio reinserimento nella vita sociale con il supporto dell’apposito servizio sociale del Ministero della giustizia: l’Ufficio esecuzione penale esterna (UEPE).

L’affidamento in prova è concesso dal Tribunale di sorveglianza, su istanza dell’interessato presentata personalmente o a mezzo del proprio difensore: possono essere ammessi a questa misura i condannati la cui pena detentiva (o residuo di essa) non superi i 3 anni o i 4 anni, se vi è stata detenzione (anche in misura cautelare), purché l’osservazione della personalità del soggetto dia esito positivo e convinca dunque degli effetti rieducativi che potrebbero conseguirne.

Occorre, inoltre, che l’affidato abbia un domicilio (casa propria o di un famigliare o una comunità in cui può essere ospitato) e un lavoro; dovrà pertanto allegarsi all’istanza la dichiarazione di disponibilità di un soggetto ad assumere il condannato se scarcerato.

L’art. 47 quater  estende l’applicazione dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche oltre i limiti di pena previsti, nei confronti dei malati affetti da Aids conclamata che intendono intraprendere un programma di cura ed assistenza.[5]

Con la concessione della misura, all’affidato saranno alcune prescrizioni, che egli sarà obbligato a rispettare, riguardanti la dimora, la libertà di movimento (orari, tragitti), il divieto di frequentare certi tipi di persone e di luoghi. Egli dovrà inoltre tenere regolari contatti con l’Uepe, che riferirà al magistrato di sorveglianza.

L’affidamento in prova, dopo la sua concessione, può essere revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova. In caso contrario, l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale.

Anche l’affidato in prova al servizio sociale che abbia dato prova  di un suo concreto recupero sociale, può essere concessa la detrazione di pena ai sensi dell’art. 54 ord. penit.

5. Il caso

Con la sentenza in commento il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva rigettato l'istanza proposta da parte ricorrente di affidamento in prova al servizio sociale e conseguente ammissione alla detenzione domiciliare. Il Tribunale aveva considerato che gli elementi valutati non consentissero di concedere nessuna delle chieste misure alternative alla detenzione sottolineando fra l'altro che parte ricorrente, doveva espiare la pena detentiva di anni due, mesi otto, relativamente ad una pena patteggiata.

Avverso l'ordinanza, il ricorrente aveva proposto un unico motivo di doglianza, ovvero: l’erronea applicazione della disciplina di riferimento e vizio di motivazione, anche per omessa valutazione della relazione comportamentale di sintesi espressa dall'Istituto penitenziario. Per il ricorrente la prospettiva che aveva guidato l'ordinanza impugnata contrastava con il principio di diritto secondo cui per l'ammissione alle misure alternative in questione non poteva assumere rilievo negativo, la sola gravità del reato commesso.

 Di conseguenza, in modo contraddittorio il Tribunale aveva, di fatto, negato tutte le indicazioni positive fornite dalla relazione di sintesi in merito al percorso di reinserimento intrapreso dal detenuto.

La Suprema Corte di Cassazione ha così accolto il ricorso e l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, osservando che l'ordinanza aveva fatto prevalere la considerazione della gravità del reato, che avrebbe dovuto essere oggetto precipuo del giudice della cognizione, rispetto alla valutazione del comportamento inframurario del ricorrente, come illustrato dalla relazione di sintesi e come concretatosi anche nella volontà di risarcire il danno e di svolgere attività di volontariato, sicché era sortito un giudizio prognostico non adeguatamente fondato sui risultati dell'osservazione.

Il Supremo Collegio così ha statuito che “ai sensi dell’art. 47 O.P.: riprendendo il principio di diritto consolidatosi negli anni da parte della giurisprudenza di legittimità, la Cassazione ha ribadito la preminenza dell’evoluzione positiva della personalità dell’affidato rispetto alla gravità del reato commesso, privilegiando il percorso intramurario svolto dal condannato rispetto al suo pregresso criminale.”[6]

6. Conclusioni

La prima sezione della Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso sulla scorta del fatto che il Tribunale di Sorveglianza avrebbe dovuto considerare occorrente un ulteriore periodo di osservazione e approfondimento, senza il quale non si può stimare prognosi favorevole, sia per l'una che per l'altra misura alternativa.

Il provvedimento impugnato, inoltre, si caratterizzava effettivamente per una motivazione espressiva di una valutazione eccessivamente sbilanciata nell'attribuzione di rilevanza impediente alla gravità del reato, con corrispondente deminutio degli elementi, sopravvenuti alla prima istanza di affidamento rigettata, relativi al positivo comportamento infrarmurario e all'avviamento del percorso di emenda da parte del condannato.

Secondo consolidato principio di diritto, affinché possa farsi luogo alla concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, la considerazione di tale gravità, al pari dei precedenti penali, non è sufficiente, poiché è sempre necessaria la valutazione della condotta successivamente serbata dal condannato, essendo indispensabile l'esame anche dei comportamenti attuali, in ragione dell'esigenza, connaturata all’istituto dell’affidamento in prova.[7] 

Ne consegue che la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale non postula come presupposto indispensabile al suo riconoscimento la verifica di una già conseguita, radicale rettifica da parte del condannato, che costituisce invece l'obiettivo da raggiungere con il completamento del processo di rieducazione, bensì richiede il riscontro dell'esistenza di elementi dai quali possa, sulla base di motivazione congrua e logica, desumersi l'avvenuto, sicuro inizio di questo processo e per far ciò è necessaria la valutazione ex art. 47 Ord. Pen

A tal fine è necessario compiere una disamina attenta di  tutti  elementi acquisiti nel corso dell'istruttoria, dovendo il giudice, in particolare, esaminare le relazioni provenienti dagli organi deputati all'osservazione del condannato, pur senza essere in alcun modo vincolato dai giudizi di idoneità espressi, ma essendo tenuto a considerare le  informazioni sulla personalità e lo stile di vita dell'interessato, tenendo conto della rilevanza alle istanze rieducative e ai profili di pericolosità dell'interessato, secondo la gradualità che governa l'ammissione ai benefici penitenziari.[8]

Note e riferimenti bibliografici
[1] Fiandaca, diritto penale, ed. Zanichelli 2012, p. 645.
[2]Nuvolone, Il rispetto della persona umana nell’esecuzione della pena, in Iustitia, 1969, 296.
[3]Fiandaca, diritto penale, ed. Zanichelli 2012, p. 649.
[4]Fiandaca,Commento all’art. 27, comma 3, in Commentario alla Costituzione, a cura di Branca e Pizzorussso, 1999, 222.
[5] Art. 47, ordinamento pen., Codice di procedura penale, ed ND, 2017, p.2005.
[6]sentenza n. 40341/2018, la Prima Sezione della Cassazione.
[7]Sez. 1, n. 31420 del 05/05/2015, Incarbone, Rv. 264602; Sez. 1, n. 773 del 03/12/2013, dep. 2014, Naretto, Rv. 258402.
[8]Sez. 1, n. 23343 del 23/03/2017, Arzu, Rv. 270016.