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Pubbl. Mer, 10 Ott 2018

Cattivo uso e carenza di potere: questioni giurisprudenziali di maggior rilievo

Simone Petrone


Esame delle problematiche di maggior rilievo affrontate in Giurisprudenza, in merito al cattivo uso e carenza di potere. Dicotomia tra carenza in astratto e carenza in concreto; atto nullo, atto inesistente, atto-comportamento amministrativo.


Sommario: Premessa; 1. Dicotomia tra carenza in astratto e carenza di concreto; 2. Dicotomia atto nullo e atto inesistente; 3. Dicotomia tra diritti affievoliti e non; 4. Dicotomia tra atto e comportamento amministrativo; 5. Danno da provvedimento amministrativo favorevole.

Sommario: Premessa; 1. Dicotomia tra carenza in astratto e carenza di concreto; 2. Dicotomia atto nullo e atto inesistente; 3. Dicotomia tra diritti affievoliti e non; 4. Dicotomia tra atto e comportamento amministrativo; 5. Danno da provvedimento amministrativo favorevole.

Premessa

Il cattivo esercizio del potere (vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere) si verifica ove l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia (finché il provvedimento non sia annullato) ed è configurabile solo una posizione di interesse legittimo, perché si è pur sempre in presenza dell’esercizio di un potere della P.A.
Nel caso di carenza di potere (straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza di presupposti necessari), invece, il vizio di ripercuote sulla stessa efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del privato rimane quella originaria, come individuabile in assenza dell’intervento dell’Amministrazione.

I problemi più rilevanti esaminati in giurisprudenza in merito al cattivo uso e carenza di potere sono cinque:

  1. Dicotomia tra carenza in astratto e carenza in concreto;
  2. Dicotomia tra atto nullo e atto inesistente;
  3. Dicotomia tra diritti affievoliti e non;
  4. Dicotomia tra atto amministrativo e comportamento amministrativo;
  5. Danno da provvedimento favorevole.

1. Dicotomia tra carenza in astratto e carenza di concreto.

Occorre, in primis, analizzare il contrasto insanabile tra Cassazione e Consiglio di Stato.

Secondo la prima, infatti, c’è carenza di potere non solo quando la P.A. agisce senza norma attributiva del potere, ma anche quando superi i confini del potere tracciati dalla norma.

In base ad una ipotesi puramente paradigmatica della carenza di portere in astratto, la P.A. agisce senza alcuna norma attributiva di tale potere, quindi in totale assenza della base normativa del potere amministrativo.  Poichè il potere amministrativo si fonda sul principio di legalità, di tipicità e di nominatività, il provvedimento - in assenza di una base normativa - non esiste.

In sintesi, non vi è una norma, non vi è potere, questa però, appare più un’ipotesi scolastica. Ancora, così come specifica la Cassazione, non basta che la norma attribuisca il potere, ma è necessario che la P.A. si mantenga nei confini stabiliti dalla stessa: le norme attributive del potere, quindi, oltre a stabilirne l’attribuzione stessa, fondano anche i limiti individuativi e identificativi del potere, ne stabiliscono i limiti causali, contenutistici, oggettivi e soggettivi, in presenza dei quali il potere sussiste.

Dunque, c’è carenza di potere quando non c’è una norma, ovvero i confini stabiliti dalla norma sono superati. Superati i limiti legali, non appare esservi più potere della P.A., ma tale tesi pone un problema, dato che innanzitutto, bisogna comprendere e distinguere quando vi sono regole di legittimità del potere e quando, invece, esse fissano esclusivamente i limiti, i confini, i presupposti di esistenza del potere. Quando un provvedimento di esproprio, ad esempio, viola una norma di attribuzione ovvero una norma che fissa i presupposti di esistenza (per cui tale provvedimento non è illegittimo), bisognerà valutare se esso sia nullo o inesistente. L’unico criterio che può fornire una soluzione a tale interrogativo riguarda lo scopo della norma: bisognerà scindere se si tratta di una norma di relazione che fissa i presupposti di esistenza, o se invece di una norma di azione, che prescrive l’attribuzione di un potere pubblicistico.

Il Consiglio di Stato non segue tale impostazione, anzi la avversa.

I Giudici amministrativi opinano l’individuazione difficoltosa dei confini, ponendo alle basi le ragioni storiche del superamento di questa tesi; infine, argomentando sulla base di una duplice impostazione, rintracciano la soluzione nell’articolo 21-septies L. 241/1990, che stabilisce i casi di nullità del provvedimento: mancanza degli elementi essenziali, violazione o elusione del giudicato, difetto assoluto di attribuzione e nullità testuali.

Volendo tracciare la dicotomia intercorrente tra l'ordinamento civile e quello amministrativo occorre evidenziare come rispetto alle ipotesi di nullità civilistica mancano i casi di nullità virtuale: mentre nel diritto civile il contratto è nullo nei casi di violazione di norma imperativa, ciò non appare nell’ordinamento amministrativo. Ciò perchè, mentre nel diritto civile la nullità è la regola, nel diritto amministrativo la nullità diviene l’eccezione, in quanto ci troviamo in una materia interamente regolata da norme imperative. In caso di violazione di norma imperativa, le sanzioni base sono annullamento e annullabilità, non la nullità.

Tutto ciò è dovuto al fatto che la nullità - non avendo limiti di prescrizione nel processo amministrativo (oggi sono stati introdotti termini decadenziali molto più ampi) - mette in discussione il provvedimento per un arco troppo ampio, destabilizzando i rapporti giuridici alla base. Allora, se nel diritto amministrativo la nullità è l’eccezione (a differenza del diritto civile in cui è la regola), bisogna coerentemente concludere che, quando c’è una violazione di norme di legge, la sanzione normale è l’annullabilità, senza che ci sia o spazio per distinguere in base allo scopo della norma. Quindi, se il legislatore vuol prevedere una norma di maggior rilevanza, deve prevedere esplicitamente che la violazione di quella norma sancisca la nullità; bisogna che la nullità sia testuale, non trovando spazio la nullità virtuale.

La tesi della carenza in concreto introduce una nullità virtuale che la legge esplicitamente esclude e, di tutto ciò se ne trova conferma nel disposto normativo di cui al comma 1 del medesimo articolo 21-septies L.241/90, che per i casi di nullità riproduce il difetto assoluto di attribuzione.  Il concetto viene incluso nella norma per andare a contrapporre il vizio al difetto relativo, così da giungere all’esclusione della carenza in concreto. La nullità appare solo in difetto assoluto di attribuzione, cioè quando manca la norma che attribuisce quello specifico potere.

La Cassazione reputa che vi sia carenza di potere, non solo quando la P.A. adotta un provvedimento amministrativo che non sia previsto da alcun norma, ma anche nel caso in cui vi sia la violazione dei limiti che la norma pone in relazione al potere. Alla stregua di quanto affermato si adotterà un provvedimento che trasgredisce delle prescrizioni che non sono mere regole di legittimità, ma sono presupposti di esistenza del potere medesimo.

Le due tipologie di norme, che si differenziano in base allo scopo, sono le:

  • Norme di legittimità: che tutelano l’interesse pubblico, sono cd. norme di azione;
  • Norme qualificanti i presupposti di esistenza: che tutelano il diritto del privato, sono cd. norme di relazione.

La tesi del Consiglio di Stato, oltre ad obiettare in senso opposto l’incertezza di questo criterio, l’assenza di base normativa, il superamento delle ragioni storiche, muove una duplice critica che si fonda su di una lettura dell’art. 21-septies:

  1. In un sistema che non prevede la nullità virtuale non c’è spazio e per scindere tra norme di validità e norme di esistenza; la violazione produce sempre l’annullabilità, se non appare una prescrizione che prevede espressamente la nullità del provvedimento. La valutazione è molto più semplice.
  2. La stessa legge, nel fare riferimento al difetto assoluto di attribuzione nel caso di nullità, ha considerato di riflesso affetto di annullabilità il difetto relativo, cioè carenza in concreto di potere.

2. Dicotomia atto nullo e atto inesistente.

Al riguardo possiamo parlare di due contrapposte tesi: 

Pima tesi: il provvedimento nullo è inesistente. Risulta chiaro come vi sia una carenza di potere, quindi un diritto soggettivo azionabile dinnanzi al g.o., nel caso in cui il provvedimento incida su interessi legittimi oppositivi (ovviamente, per gli interessi pretensivi il problema non si pone). Tuttavia, occorre domandarsi quale sia il ragionamento che conduca a qualificare il provvedimento nullo come inesistente, valutando l'istituto giuridico della carenza di potere.

Tale tesi (che viene definita effettuale) si fonda sull’idea che nell’ordinamento giuridico l’esistenza o meno di un atto dipende dalla sua rilevanza giuridica, che altro non è che la sua attitudine a produrre effetti rilevanti per l’ordinamento stesso; tale attitudine c’è solo se il provvedimento è efficace. L’esistenza dell’atto non è un problema morfologico o fisico, ma è un problema giuridico ed effettuale, un provvedimento che non produce alcun effetto non ha alcuna rilevanza pratica nell’ordinamento, per cui viene a qualificarsi come non esistente; ne deriva che dall’inefficacia dell’atto si determina la sua inesistenza, e non il contrario.

Essa è particolarmente pregnante perché il problema della nullità, in relazione a quello dell’annullabilità, si pone solo ad uno scopo che si rintraccia nel riparto di giurisdizione. Questo - soprattutto nei casi in cui il provvedimento incide su diritti preesistenti - si fonda sulla teoria dell’affievolimento: quando il provvedimento è inefficace, esso affievolisce il diritto; quando, invece, è nullo non vi è affievolimento, ma l’affievolimento è effetto dell’atto. 

Detta tesi è di notevole rilevanza nel diritto amministrativo, poichè il problema del riparto - in tema di interessi oppositivi - è basato sull’efficacia dell’atto e sulla sua idoneità ad affievolire il diritto o l’interesse.

Seconda tesi: cd. pandettistica o reale, obietta che:

  1.  Le norme – anche interne al codice civile, che determinano l’inefficacia del contratto derivante dalla sua nullità – hanno senso dal momento in cui presuppongono l’esistenza dell’atto in questione, viceversa si vuole evitare che un atto viziato possa produrre effetti che l’ordinamento non vuole. La nullità, ed ancor più l’inefficacia, è una qualifica, un predicato che presuppone l’esistenza dell’atto viziato.
  2.  La seconda critica si fonda sull’osservazione che l’ordinamento civile conosce perfettamente casi in cui il contratto nullo  è efficace, cd. casi eccezionali di efficacia del contratto nullo, ad es. testamento e donazione confermato. Da ciò ne discende che se vi sono casi in cui il contratto nullo è efficacia, allora non appare incompatibilità tra le due figure; è possibile strutturalmente che il contratto nullo è inefficace. Il paradigma di quanto affermato lo si rintraccia nella norma dell’art. 31, co. 4 c.p.a. che prescrive un caso di decadenza per far valere la nullità, in seguito non più opponibile ed impugnabile, si impone un termine di 180 giorni per far valere la nullità. Così, non solo il provvedimento nullo produce effetti, ma che questi divengono non più contestabili, diventano inoppugnabili dopo 180 giorni. Allora non sarà sostenibile che un provvedimento nullo è inefficace sempre, quando è vero e riscontrabile il contrario. Si potrebbe dire che gli effetti di fatto di un provvedimento nullo divengono effetti di diritto, si avvicina la nullità all’annullabilità.

Questa tesi fa comprendere come non è vero che un provvedimento nullo, in quanto viziato e inesistente – come si affermava in precedenza – non produce o non può produrre effetti rilevanti per l’ordinamento giuridico. Il problema dell’inefficacia si pone positivamente solo nel momento in cui si è risolto positivamente il problema della nullità.

Risulta totalmente sbagliata la tesi che afferma e fa valere la giurisdizione del g.o. per i provvedimenti nulli, tesi secondo la quale si afferma che il giudice del provvedimento nullo è il giudice ordinario. Il riparto si fonda unicamente sulla consistenza sostanziale della posizione, in base alle scelte dell’ordinamento, e non sulla gravità del vizio.

3. Dicotomia tra diritti affievoliti e non

La tematica sorge nel 1979, quando una sentenza delle Sezioni Unite affrontava il problema dell’autorizzazione all’istallazione di un impianto di disinquinamento che procurava delle emissioni nocive alla salute dei cittadini.

L’articolo 2 Cost., si sa, è una norma immediatamente precettiva, che esclude l’esistenza del potere amministrativo che incide sul nucleo essenziale dei diritti della persona. Detto altrimenti, l’articolo 2 Cost. fissa una norma determinante, una carenza generale di attribuzione, secondo cui non può esistere un provvedimento con un contenuto pregiudizievole per un diritto inviolabile e fondamentale della persona. Una P.A., che dovesse adottare un provvedimento contrastante con i suddetti diritti, adotterebbe un provvedimento che solo apparentemente è esercizio del potere. Agirebbe, di conseguenza, non con un atto, ma con un fatto non assistito dalle norme che fissano l’attribuzione del potere stesso. Il concetto su esposto, secondo una parte minoritaria della dottrina, presenta alcuni limiti:

  1. La tutela dei diritti fondamentali doveva spettare ad un giudice che potesse assicurare piena giustiziabilità.
  2. La giurisdizione dipende dalla scelta e dalla qualificazione dei diritti come inviolabili, ma l’articolo 2 Cost. non fissa un numerus clausus di diritti, bensì prevede un precetto elastico che rimette all’interprete di determinare quali siano i diritti fondamentali della persona. Il catalogo dei diritti inviolabili rimane così aperto, mutevole, integrabile così da non poter permettere che il riparto di giurisdizione dipenda un dato così incerto. 
  3. Si potrebbe, poi, giungere alla doppia tutela, al cd. doppio binario, si potrebbe avere una duplicazione dei ricorsi; perché se si dà rilevanza alla tipologia del diritto inciso dal provvedimento, allora si potrà avere contemporaneamente interesse legittimo e diritto soggettivo, così da invocare un doppio giudice.
  4. Questa tesi fa confusione tra piano privatistico e piano pubblicistico, tra concetto di inviolabilità e di inaffievolibilità. Il diritto alla salute è inviolabile anche dalla P.A., è inviolabile nel senso che non solo nessun privato - con comportamenti privatistici e materiali e fattuali - può incidervi, ma neanche la P.A.  - con provvedimenti per fini pubblici, con la spendita di potere pubblicistico, né in presenza di una legge - può violare tale diritto. Si giunge, così, ad una omologazione tra inviolabilità-inaffievolibilità: ogni diritto che non è violabile inter privatos diviene - di riflesso - inaffievolibile da parte di un potere pubblicistico della P.A.. Ma ciò non può essere vero: i diritti della persona non solo possono essere incisi dal potere amministrativo, ma devono necessariamente esserlo, devono essere vilati dal potere amministrativo, in quanto spetta allo stesso dirimere i conflitti tra questi ed altri diritti, tra diritti privati e interessi pubblici. 

4. Dicotomia tra atto e comportamento amministrativo

Non si poneva alcun problema di riparto ordinario precedentemente alla riforma del c.p.a., perché l’unica azione era l’impugnazione dei soli provvedimenti. Oggi, invece, che è possibile esperire qualsiasi tipologia di domanda - compresa quella di risarcimento - in teoria chi agisce in giudizio può adire il g.a. anche in assenza di un provvedimento. Ci troviamo nel caso de comportamenti,  che sono diversi dagli atti e non si traducano in provvedimenti.

Come affermavano Sardulli e Nigro: “il procedimento è la forma della funzione amministrativa”; il potere si esercita non solo con il provvedimento, ma con il procedimento finalizzato alla sua emanazione, quindi il procedimento è il potere nella sua veste dinamica, è potere nel “suo farsi”. Ne deriva il corollario che le norme che regolano il procedimento sono norme di azione e non norme di relazione.

Il comportamento che viola le regole pubblicistiche della L. 241/1990 è un comportamento di esercizio procedimentale diretto del potere pubblicistico. Il potere pubblicistico è esercitabile anche per mezzo di meri comportamenti amministrativi. Il giudice di questi comportamenti ex art. 7 c.p.a. è sempre il giudice amministrativo, a prescindere che ci sia riparto ordinario oppure no.

Comportamenti solo soggettivamente amministrativi, ma oggettivamente di diritto privato, cioè quei comportamenti di diritto comune, fermo l’esercizio da parte di una P.A. esclusa la soggettività di detti comportamenti, possono essere qualificati completamente sotto una veste privatistica: sono comportamenti che la P.A. tiene come soggetto privato, e non sono di esercizio del potere pubblico, né sono connessi ad esso. Il giudice di questi comportamenti totalmente privatistici è il g.o. (senza alternative, non può aversi neppure giurisdizione del g.a. per materia), in quanto si è in una materia totalmente privatistica.

Altra tipologia di comportamenti, in sé privatistica, perché viola una norma di diritto comune, di diritto privato, si caratterizza in una condotta materialmente illecita, nell’ambito di una materia complessivamente pubblicistica, materia che prevede l’azione a mezzo di un potere indiretto del potere pubblico. Questo comportamento può sottostare alla giurisdizione del g.o. o del g.a. in base alle scelte che fa la legge, secondo il riparto ordinario ovvero secondo la devoluzione esclusiva del g.a. Sono condotte private esercitate in un’area pubblica, devolute al g.a.

Le tre tipologie di comportamenti sono le seguenti:

  • Completamente pubblicistici in modo diretto (la giurisdizione spetta al g.a.) es. esercizio scorretto del potere in base alle norme che regolano il procedimento);
  • Comportamehti totalmente di diritto privato, in alcun modo  connessi al potere pubblico (la giurisdizione spetta al g.o.); pena l’incostituzionalità di legge che dovesse prevedere in modo opposto;
  • Comportamenti che sono in se privati, ma attengono ad una materia completamente pubblica (la giurisdizione spetta al g.o. in assenza di una legge che devolva la giursdizione al g.a. in via esclusiva).

5. Danno da provvedimento amministrativo favorevole

Tra i profili di giurisdizione più discussi negli ultimi anni, assoluto rilievo occupa il danno da provvedimento amministrativo favorevole. Il caso tutt’ora fortemente dibattuto è quello relativo al risarcimento del danno da provvedimento amministrativo favorevole ma illegittimo, poi annullato dal giudice amministrativo o ritirato dalla P.A. in sede di autotutela.

S’immagini che un privato chieda e ottenga dalla P.A. il permesso di costruire sul proprio terreno. Tale permesso si riveli ex post illegittimo, e sia quindi annullato in autotutela o in sede giurisdizionale. A questo punto, il privato, cui il permesso era stato inizialmente concesso, subisce un danno dal suo successivo annullamento.

Occorre capire quale sia il giudice a cui il privato può rivolgersi per domandare il risarcimento del danno cagionato da un provvedimento favorevole in seguito annullato. 

Secondo la sententenza del 23 marzo 2011 n. 6594 delle S.U., il provvedimento per il permesso di costruzione ed il provvedimento di aggiudicazione all’esito di una gara pubblica sono due atti favorevoli. L’annullamento del provvedimento è doveroso da parte della P.A. o del giudice, in quanto inizialmente era sorto viziato da illegittimità.

La Cassazione afferma che c.d. danno da annullamento del provvedimento favorevole derivante da un giusto annullamento di un provvedimento favorevole spetta al g.o. e non al g.a., e ciò per quattro ordini di ragioni:

  1. Il provvedimento favorevole non può essere dannoso in sé. Non può esserci un nesso di consequenzialità immediata ex art. 1223 c.c.. Il danno deriva dalla mediazione dell’annullamento, che pertanto elide il nesso di causalità ed esclude la qualificabilità come questione consequenziale sottoponibile al g.a.. Non vi è causalità, in quanto il danno non è conseguenza diretta del provvedimento. Solo un provvedimento sfavorevole può essere immediatamente danno; diversamente, un provvedimento favorevole ex se non può essere tale, perché necessita di un intervento mediato che fa venir meno l’originaria causalità;
  2. Dal momento che il risarcimento deriva da un provvedimento annullato, che comporta una caducazione ex tunc, si deve concludere che il danno non deriva da un provvedimento, eliminato retroattivamente, ma è riconducibile ad un semplice comportamento fattuale;
  3. Si è alla presenza di una condotta che viola regole privatistiche, buona fede, correttezza, autoresponsabilità; il comportamento ha fatto sorgere nel privato l’affidamento in quel provvedimento favorevole, oggetto di successivo annullamento;
  4. Nel caso di specie, non si ha un minimo collegamento con la domanda impugnatoria, per cui non vi è ragione per derogare alla regola della giurisdizione del g.o. sui diritti soggettivi.

Sembrerebbe, però, che tutti gli argomenti siano errati:

  • Il quarto argomento è totalmente errato, in quanto oggi l’art. 30 in combinato con l’art 7 c.p.a. devolve al g.a. il danno da interessi legittimi, anche se non vi è l’impugnazione del provvedimento. Anche la semplice questione isolata spetta al g.a.;
  • Il primo afferma che dato il carattere favorevole del provvedimento non si può avere un danno, ma in realtà un provvedimento favorevole solo apparentemente non può essere dannoso, ma dal momento che viene alla luce che si tratta di un provvedimento illegittimo, ecco che sorge la sua dannosità diretta. Il fatto che sia favorevole impedisce un nesso di immediatezza cronologica, non un nesso di immediatezza causale: il provvedimento favorevole sicuramente non farà venir in essere una dannosità immediata, ma ben si conosce la categoria dei danni lungolatenti, prodotti a distanza di anni; la divergenza cronologica non elide la causalità tra lesione e provvedimento, anche se verificatasi a distanza di anni. Fino all’annullamento, non si ha dannosità, o meglio non si evidenzia una sua dannosità, che invece si dimostra a distanza di un più lungo arco temporale, derivante causalmente ed esclusivamente al provvedimento.
  • Per quanto concerne la seconda e la terza ipotesi, potrebbero trattarsi insieme: l’annullamento, che produce effetti retroattivi è una fictio iuris, sicuramente non può cancellare il provvedimento, che c’è stato quale fatto storico. Le norme in specie violate sono quelle che attengono all’esercizio del potere, di un potere che è stato esercitato, tralasciando il fatto che le materie in questione – contratti di appalto – sono materie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a.

Si può concludere che su tutti gli aspetti indicati sia cedevole l’argomentazione della Cassazione, con particolare attenzione sul punto che pone il provvedimento favorevole come certamente non dannoso, proprio perché produce effetti che giovano al soggetto destinatario dello stesso. Ultimo aspetto che si fonda sulla rilevanza della mancata immediatezza cronologica del danno, che però si può evidenziare esclusivamente sul piano temporale e non giuridico. Il Consiglio Stato, però, si è adeguato alla teoria così enunciata ed esplicitata dalla Cassazione e, con sentenza del 17.1.2014 n. 183 ha adottato la soluzione suddetta.

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