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Pubbl. Mer, 12 Set 2018

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro rileva il comportamento delle parti

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Carlo Giaquinta


Per la Corte di Cassazione rilievo prevalente deve essere attribuito al comportamento delle parti nel concreto svolgimento del rapporto di lavoro


Merita di essere portata all'attenzione una recente pronuncia della Corte di Cassazione volta ad illustrare i principi che orientano l’attività del giudice in ordine alla corretta qualificazione del rapporto di lavoro.

La Suprema Corte, infatti, con l’ordinanza n. 18262 depositata il 18 Luglio 2018, si era trovata ad affrontare il ricorso promosso dal lavoratore di un autosalone il quale adiva l’autorità giudiziaria per vedersi riconosciuta la natura subordinata di un rapporto di lavoro svolto in costanza di un sottoscritto contratto di agenzia.

Come è noto, il contratto di agenzia, cui definizione è offerta dall’ art. 1742 del c.c., rappresenta una particolare fattispecie di lavoro autonomo in quanto, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, elemento che lo distingue dal lavoro dipendente è l’assenza, in capo all’agente, della subordinazione al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro (cfr.  Cass. Civ. n.  2680/1990).

Nel caso di specie, il ricorrente si era obbligato, per mezzo di una scrittura denominata per l’appunto “contratto di agenzia” a svolgere un’attività di promozione finalizzata alla conclusione di contratti rientranti nell’oggetto dell’attività della società proponente, secondo le istruzioni generali provenienti da essa.

Tuttavia, già nelle fasi di merito, il lavoratore vedeva disconosciuta la propria pretesa, poiché, aveva stabilito la Corte di Appello di Roma, si riscontrava la carenza di prova, la quale in materia deve esser rigorosa, circa l’effettiva deviazione rispetto al modello contrattuale del rapporto di agenzia.

Alle stesse considerazioni giungono i giudici di legittimità.

Secondo la Suprema Corte, infatti, pur dovendosi tener conto dal nomen iuris attribuito dalle parti alle obbligazioni rispettivamente assunte, ai fini propri della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, occorre indagare quale sia stata, nel concreto svolgimento dell’attività lavorativa, l’interpretazione data dalle parti alle volontà del contratto, la quale non può che essere desunta dal loro comportamento complessivo, anche posteriore, dalla conclusione del contratto, secondo quanto prescrive l’art. 1362, comma 2, c.c. secondo cui “ Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

Allora, spiegano i Supremi Giudici, in caso di contrasto tra iniziali dati formali e successivi dati fattuali, quest’ultimi assumono certamente un rilievo prevalente.

A prescindere dal nomen iuris utilizzato dalle parti, gli elementi fattuali che orientano l’attività del giudice nel procedere alla corretta qualificazione della natura del rapporto di lavoro sono rappresentati: dalla previsione di un compenso fisso, di un orario di lavoro stabile e continuativo, il carattere delle mansioni, il carattere tecnico, organizzativo e produttivo tra le prestazioni svolte e le esigenze dell’azienda.

Essi rappresentano i c.d. indici rivelatori della natura subordinata del rapporto.

A ciò si aggiunge, per ciò che concerne il potere direttivo del datore di lavoro, che quest’ultimo fa emergere il carattere della subordinazione solo qualora si esplichi non in semplici direttive generali ma “ deve manifestarsi con ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, mentre il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale”.

Ne deriva allora che, pur in presenza di un rapporto svolto sotto l’egida dell’autonomia, qualora tali elementi, di carattere fattuale, emergano nel corso dell’indagine, essi saranno assorbenti rispetti al dato letterale.

Dunque, concludono i Giudici, in sede di qualificazione del rapporto di lavoro il giudice “deve attribuire valore prevalente al comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto stesso”.

Nel caso di specie, dall’analisi delle circostanze fattuali, era emerso che le parti non si erano discostate da quello che era il modello contrattuale tipico del contratto di agenzia, in quanto il lavoratore ricorrente era stato preposto a tutti gli affari di una certa specie per un certo tempo, in coordinazione con l’attività del preponente.

Pertanto, a parere del Supremo Consesso, la qualifica di lavoratore autonomo, qual è appunto l’agente, era stata correttamente attribuita al lavoratore.