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Pubbl. Gio, 2 Ago 2018

I beni archeologici sequestrati vanno allo Stato anche se l´imputato viene assolto

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Barbara Mascitto


La sentenza in commento conferma il principio per cui i beni archeologici appartengono allo Stato. Il privato che affermi al contrario il proprio diritto di proprietà può solo eccepire che i beni stessi sono stati acquistati prima del 1909, ovvero far valere una delle ipotesi in cui la legge consente che i beni stessi siano di proprietà di privati.


Con ordinanza del 4/10/2016 il Tribunale di Napoli, a seguito di provvedimento di rinvio della sez. 3 della Cassazione che qualificava il ricorso come opposizione ex art. 667 comma 4 c.p.p., rigettava l'opposizione stessa proposta avverso l'ordinanza dello medesimo Tribunale che assegnava i beni sequestrati nell'ambito del procedimento penale al Ministero dei beni culturali sostenendo che, nonostante l'assoluzione dell'imputato, dal processo non era emerso che i beni provenissero da eredità parentale o fossero presenti nel patrimonio familiare in epoca anteriore al 1909.

Viene proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivazioni:

1) violazione dell'art. 606 comma 1 lett.b) e 125 c.p.p. per omessa motivazione.

Premessa l'assoluzione dal reato di ricettazione (art.648 c.p.) [1], la sentenza (divenuta irrevocabile) disponeva la restituzione agli aventi diritto dei beni in sequestro.

In sede di esecuzione il Giudice interpellava la Soprintendenza e l'Avvocatura distrettuale per qualificare i beni oggetto del sequestro. In ben due pareri le suddette autorità esprimevano l'attribuzione del "significato archeologico" dei beni stessi e, pertanto, ex lege, di proprietà dello Stato (art. 826 comma 2 c.c. ed art.15 R.D. n.364/1909) con conseguente restituzione al legittimo proprietario.

A seguito del rigetto dell'istanza di restituzione presentata dall' "imputato" viene presentato ricorso per Cassazione qualificato come opposizione e rigettato a sua volta. In tale ultimo provvedimento si lamentava che le argomentazioni giuridiche poste a fondamento erano state ignorate, con mera limitazione dell'affermazione della presunzione di proprietà in capo allo Stato e che la presunzione stessa era superabile solo se si provava che il bene rinvenuto fosse nel patrimonio anteriormente al 1909 o che era stato acquistato quale premio del ritrovamento.

2) violazione dell'art.606 comma 1 lett.b) e c) c.p.p. in relazione all'individuazione dell'avente diritto ed alla portata preclusiva del giudicato.

Il Giudice dell'esecuzione non aveva ricostruito in modo appropriato il sistema normativo in quanto l'art.15 R.D. n.364/1909 non prevedeva alcuna presunzione o titolo di proprietà a favore dello Stato in relazione ai beni di interesse archeologico rinvenuti a seguito di uno scavo, ma si limitava a regolamentare i rapporti tra Stato e proprietario del fondo in ordine alla legittimazione ad effettuare lo scavo ed alla proprietà di quanto emerso.

La norma ha una portata speciale e non generale in quanto è limitata a regolamentare l'ipotesi di scavi effettuati dal Governo; gli artt. 17 e 18 disciplinano altre ipotesi (scavi effettuati da privati con ritrovamento ed attribuzione a metà tra Stato e privato ritrovatore; scoperta del privato con suddivisione con il proprietario del fondo). Pur volendo considerare implicitamente abrogati questi due articoli, resta la definizione della modalità di acquisto della proprietà dei beni scoperti.

Di conseguenza stà allo Stato, nel momento in cui reclama la proprietà di un bene, a dover dimostrare la sussistenza delle condizioni per l'operatività dell'acquisto ai sensi dell'art.15 R.D. n. 364/1909 o dell'art. 826 c.c.

Il ricorrente sostiene ancora che seppure si volesse trovare la soluzione in altre disposizioni normative la soluzione non cambierebbe: l'art.91 D.lgs. n.42/04 in lettura combinata con l'art.13 (dichiarazione di interesse culturale del bene) non può applicarsi al caso concreto in quanto la presunzione legale di appartenenza di un bene rinvenuto nel sottosuolo opera quando il detto bene è d'interesse culturale; un bene culturale è tale se non appartenuto già allo Stato, quando fosse di interesse particolarmente importante e fosse intervenuta la dichiarazione di cui all'art.13.

Per configurarsi il reato di impossessamento di beni culturali, è necessario che i beni oggetto materiale del reato fossero qualificati in un formale provvedimento dell'autorità amministrativa. In mancanza della dichiarazione, il bene non poteva definirsi culturale e, pertanto, non poteva appartenere allo Stato.

Infine, poichè la sentenza penale aveva escluso la responsabilità dal reato di ricettazione, stabilendo che i beni non rientravano tra quelli culturali e la loro proprietà non poteva essere attribuita allo Stato.

Con questi presupposti alla Cassazione vengono prospettate due questioni: l'accertamento della responsabilità penale; la valutazione dell'aspetto civilistico della proprietà con conseguente accertamento del diritto alla restituzione.

Sull’aspetto della responsabilità penale la S.C. non può intervenire poiché già il Tribunale di prime cure era ampiamente intervenuto e la sentenza era comunque divenuta irrevocabile.

Ribadisce, seppure in via incidentale, il consolidato principio già affermato della Corte per la quale al fine della configurazione del reato di “impossessamento di beni culturali” (art.176 D.Lgs. n.42/2004 – Codice dei beni culturali e del paesaggio) è necessario che i beni oggetto materiale del reato siano qualificati come “beni culturali” per un oggettivo interesse, eccezionale o particolarmente importante, da un formale provvedimento dell’autorità amministrativa (nel caso di bene mai denunziato all’autorità, deve avere inizio il procedimento per la dichiarazione di interesse culturale ex art.13 D.Lgs. n.42/2004) [2] [Cass. pen. n.28929/04, Mugnaini].

Quindi, la problematica di cui deve occuparsi la sezione penale, slitta nel novero civilistico ed è inerente la valutazione della legittimità del provvedimento del Giudice dell’esecuzione, a fronte della sentenza di assoluzione, con il quale è stata decisa la restituzione dei beni in sequestro allo Stato.

Corrono in supporto le decisioni in materia civile.

La prima sezione civile della S.C. n.22501/2004 si dilunga ed analizza nel dettaglio la materia.

La tematica dei beni dello Stato è stata oggetto di una pluralità di disposizioni che partono dal codice civile, ma si sviluppano in leggi speciali.

L’art.826 comma 2 c.c. [3] definisce il patrimonio indisponibile dello Stato (inteso in senso lato) ed in combinazione con l’art.840 c.c. [4], limitano l’estensione della proprietà effettuando un esplicito rinvio alle leggi sulle antichità e belle arti.

Analogo limite e rinvio è effettuato dall’art.932 c.c. [5] per quanto riguarda l’applicazione della disciplina del ritrovamento del tesoro al ritrovamento degli oggetti di interesse storico, artistico etc.

Stesso concetto viene ribadito nella legge speciale n.1089/1939 (artt.44 comma 1; 46 comma 1; 47 comma 3 e 49 comma 1): “i reperti archeologici o in genere le cose di cui all’art.1 [6] comunque ritrovati, appartengono allo Stato”.

La tipologia di appartenenza che viene sancita nel combinato disposto di queste norme è di carattere originario e lo si desume altresì dalla perentorietà delle espressioni utilizzate [Cass. 10355/1995].

Inoltre è stato statuito più volte che il diritto di proprietà rivendicato dall’Amministrazione dei beni culturali sui reperti archeologici esistenti o rinvenuti su fondo di proprietà privata, ha la stessa consistenza del diritto soggettivo, suscettibile di tutela anche in via d’urgenza dinanzi al Giudice ordinario [Cass.66/1993].

Ma se tutto questo è vero è altresì vero che esistono delle eccezioni:

  1. la prova dell’acquisto proprietà privata di beni archeologici prima dell’entrata in vigore della L. n. 364 del 20/06/1909 [7].
  2. quando la scoperta del bene sia successiva alla data del 1909, ma il bene stesso sia ceduto dallo Stato come indennizzo (art.43), premio (artt.44, 46, 47 e 49) o ad altro titolo (artt.24 e 25 L.1089/39).

Tale seconda categoria di eccezioni prevede una tipologia di acquisto a titolo derivativo, che presuppone comunque la proprietà dello Stato a titolo originario.

Infine, ulteriore eccezione rispetto alla proprietà originaria ed esclusiva dello Stato è costituita dall’acquisto dei beni archeologici all’estero [Cass. n.12166/95].

In conclusione la S.C. riprende il concetto già ampiamente affermato in precedenza e palesato dall’interpretazione sistematica delle norme dichiarando l’esclusiva proprietà dello Stato dei beni archeologici, ovunque essi si trovino.

Il privato che voglia affermare il contrario, ovvero il proprio diritto di proprietà, può solo eccepire che gli stessi siano stati acquistati in proprietà privata prima del 1909 o far valere una delle ipotesi di eccezione ammesse dalla legislazione.

Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso dalla parte, l’onere di fornire la prova di quanto eccepito grava sul privato (Cass. n.10355/95) ed il mancato riconoscimento dell’interesse culturale non dimostra il carattere privato del bene essendo il requisito del carattere culturale insito negli stessi beni, per il loro appartenere alla categoria delle cose di interesse archeologico [Cass. civ., sez.I n.2995/2006].

Pertanto il Giudice dell'esecuzione ha dato puntuale applicazione al principio di diritto affermato dalla Cassazione civile: appurato tramite la dichiarazione della Soprintendenza ai beni archeologici che i beni sequestrati erano di interesse archeologico e che il privato non ha provato nè allegato il possesso in data anteriore al 1909, legittimamente era stata disposta la restituzione dei beni allo Stato.

Il mancato riconoscimento dell'interesse culturale a mezzo di atto "notificato" non dimostra il carattere privato del bene e l'impossibilità di ascriverlo al patrimonio indisponibile dello Stato. Il requisito del carattere "culturale" è insito nei beni stessi per il loro appartenere alla categoria delle cose di "interesse archeologico".

La S.C. legittimamente dichiara infondato il ricorso proposto e rigetta la domanda, con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali.

 

 

[1] Chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione da due ad otto anni e con la multa da euro 516 a euro 10.329. La pena è aumentata quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da delitti di rapina aggravata ai sensi dell’articolo 628, terzo comma, di estorsione aggravata ai sensi dell’articolo 629, secondo comma, ovvero di furto aggravato ai sensi dell’articolo 625, primo comma, n. 7-bis.

[2] In relazione alla procedura prevista dall'art. 44 l. 1 giugno 1939 n. 1089 - sostanzialmente trasfusa prima nell'art. 90 d.lg. 29 ottobre 1999 n. 490, e poi nell'art. 93 d.lg. 22 gennaio 2004 n. 42 - fino alla determinazione definitiva del premio, o mediante l'accettazione dell'offerta formulata dalla p.a. o a seguito della determinazione dello stesso da parte della commissione di cui al comma 2 del citato art. 44, il privato (proprietario e scopritore) è titolare di un interesse legittimo al corretto svolgimento del relativo procedimento, solo all'esito del quale il diritto soggettivo, concretamente determinato, viene ad esistenza; pertanto, ove il medesimo contesti l'entità del premio offerto e lamenti la mancata attivazione, da parte dell'amministrazione, del procedimento di nomina della commissione di cui all'art. 44, la relativa controversia è devoluta alla giurisdizione del g.a. [Cass. civile sez. un.  07 marzo 2011 n. 5353].

[3] “Fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Corona, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra”.

[4] “La proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino. Questa disposizione non si applica a quanto forma oggetto delle leggi sulle miniere, cave e torbiere. Sono del pari salve le limitazioni derivanti dalle leggi sulle antichità e belle arti, sulle acque, sulle opere idrauliche e da altre leggi speciali.

[5] Il tesoro appartiene al proprietario del fondo in cui si trova. Se il tesoro è trovato nel fondo altrui, purché sia stato scoperto per solo effetto del caso, spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore. La stessa disposizione si applica se il tesoro è scoperto in una cosa mobile altrui.

[6] Sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose d’interesse numismatico; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonchè i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio. Vi sono pure compresi le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico. Non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga oltre cinquanta anni.

[7] Negli ultimi venti anni dell’Ottocento, si sviluppa una crescente attenzione verso la protezione del patrimonio artistico nel nuovo Stato. Solo nel 1902, dopo più di trent’anni dal progetto del Ministro Correnti, sarà promulgata una prima legge nazionale di tutela: Legge 12 giugno 1902 n.185 (legge Nasi) istitutiva del “Catalogo unico” dei monumenti e delle opere di interesse storico, artistico e archeologico di proprietà statale; poi modificata e sistematizzata con la legge 20 giugno 1909, n. 364 (legge Rosadi-Rava, dal nome, rispettivamente, del parlamentare relatore e del ministro).
La moderna disciplina sui beni culturali deve alla legge Rosadi e al suo regolamento applicativo 30 gennaio 1913 n. 363 (tuttora in vigore) i propri principi fondanti:
- stabilisce il principio dell’inalienabilità (e della manomissione) del patrimonio culturale dello Stato e degli enti pubblici e privati, (beni di “interesse storico, archeologico o artistico”);
- afferma la possibilità per la pubblica amministrazione di sottoporre a vincoli di tutela opere di proprietà privata considerate di “importante interesse”; si tratta dell’istituto della “notifica”, forma di controllo diretto sul bene da parte dello Stato, che è chiamato ad esprimere un parere riguardo ad ogni possibilità di gestione da parte del proprietario dello stesso;
- facoltizza la pubblica amministrazione ad espropriare opere di proprietà privata che è necessario acquisire al sistema dei monumenti e musei pubblici;
- istituisce la vigilanza sull'esportazione e sulla circolazione dei beni privati (con facoltà dello Stato di esercitare il diritto di prelazione);
- promuove la pratica sistematica della ricerca archeologica;
- delinea compiutamente un'organizzazione e un'amministrazione, centrali e periferiche, deputate alla conservazione e alla tutela dei beni culturali (sovrintendenze ai monumenti e sovrintendenze archeologiche e alle gallerie).
Il fine che la legge Rosadi si propone è la ricostruzione e il mantenimento della memoria storica di un popolo ed il patrimonio è considerato come mezzo in vista di un fine conoscitivo, del quale lo Stato deve farsi garante, attraverso politiche mirate di protezione e di diffusione delle conoscenze acquisite.