Pubbl. Gio, 5 Lug 2018
Il risarcimento del danno da lucro cessante negli appalti pubblici alla luce degli ultimi sviluppi giurisprudenziali
Modifica paginaL´impresa danneggiata deve rigorosamente provare la perdita dell´utile che in concreto avrebbe conseguito qualora fosse risultata aggiudicataria dell´appalto, poiché nell´azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell´azione di annullamento.
Sommario: 1. Il sistema risarcitorio nel nostro ordinamento: aspetti generali; 2. La nozione civilistica di lucro cessante: onere probatorio; 3. Il danno da lucro cessante nelle gare di appalto pubbliche: gli elementi a fondamento della domanda risarcitoria; 3.1. Evoluzione della giurisprudenza in tema di determinazione del danno da lucro cessante; 3.2. La voce di danno da lucro cessante distinto da altre voci: orientamento giurisprudenziale recente.
1. Il sistema risarcitorio nel nostro ordinamento: aspetti generali
A partire dall’indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione del 2003[1], come confermato anche dalle SS.UU. del 2008, il nostro sistema risarcitorio si fonda su un bipolarismo che vede nell'art. 2059 c.c. la fonte del risarcimento del danno non patrimoniale e nell'art. 2043 c.c. la norma cardine per risarcire i danni patrimoniali.
A differenza del primo, il danno patrimoniale può essere ricondotto esclusivamente alla sfera economica del soggetto, quindi, alle sue mancate capacità di guadagno, attuali o future, in quanto pregiudicate dall'infortunio o dalla malattia o comunque dal fatto illecito altrui. A tale proposito si è parlato della cd. "patrimonialità del danno" che risiederebbe proprio nell'idoneità delle conseguenze pregiudizievoli della lesione ad una valutazione economica effettuabile sulla scorta di parametri oggettivi[2].
Da un punto di vista strettamente processuale la risarcibilità del danno patrimoniale soggiace alle comuni regole dell'onere probatorio: infatti la perdita patita dal danneggiato richiede la dimostrazione del nocumento patrimoniale nella maggior parte dei casi a mezzo prova documentale o testimoniale; la prova del danno conseguente al futuro mancato guadagno, invece, si fonda più frequentemente su una prova di tipo presuntivo[3]. Sebbene le due voci di danno risarciscano pregiudizi relativi a tempi diversi - uno volto al presente e l'altro al futuro - la giurisprudenza della Cassazione[4] ha confermato che "l'accertamento delle conseguenze pregiudizievoli verificatesi a titolo sia di danno emergente che di lucro cessante va riferito al momento causativo del danno", risultando irrilevanti le vicende anteriori o posteriori a tale momento.
2. La nozione civilistica di lucro cessante: onere probatorio
Il lucro cessante, dal punto di vista del significato civilistico del termine, è costituito dalla mancata acquisizione dei beni, guadagni, vantaggi o utilità di cui il danneggiato avrebbe potuto disporre qualora non si fosse verificato il fatto causativo del danno.
Uno dei profili più interessanti e dibattuti del lucro cessante[5] è la diminuzione della capacità di guadagno che può derivare dalla menomazione delle condizioni di salute e fisiche del soggetto che ha subito un danno (si pensi al caso della lesione dell'integrità psico-fisica risarcibile quale danno biologico)[6].
A tal riguardo, sotto il profilo processuale, va rilevato che il soggetto danneggiato può azionare apposita domanda risarcitoria dinanzi al Giudice ordinario attenendosi al rigoroso principio civilistico dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c.
Sul punto, la giurisprudenza ha stabilito che il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante non può farsi discendere in modo automatico dall'accertamento dell’evento lesivo subito dal danneggiato, dovendo, invece, quest’ultimo dimostrare, anche tramite presunzioni, che la lesione subita (derivante da invalidità della propria integrità fisica, inadempimento di natura contrattuale, mancata disponibilità di somme di denaro, ecc.) abbia in concreto prodotto una riduzione della capacità di lavoro specifica ed una conseguente riduzione della capacità di guadagno ad esclusione di quelle situazioni dipendenti da mancato guadagno meramente ipotetico perché legato a condizioni incerte, sicché la sua liquidazione richiede un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità), che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il Giudice possa sillogisticamente desumere l'entità del danno subito[7].
Si è, altresì, ritenuto[8] che il Giudice è tenuto anche a verificare se e in quale misura nel soggetto leso persista o residui, dopo e malgrado l'infortunio patito, una capacità ad attendere al proprio o ad altri lavori confacenti alle sue attitudini nonché alle sue condizioni personali e ambientali in modo idoneo alla produzione di altre fonti di reddito, in sostituzione di quelle perse o ridotte, e solo nell'ipotesi in cui, in forza di detti complessivi elementi di giudizio, risulti una riduzione della capacità di guadagno e, in virtù di questa, del reddito effettivamente percepito, tale ultima diminuzione è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante.
Nella giurisprudenza di merito sono stati riscontrati, oltre a quello del reddito attuale[9], altri due criteri di quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa, consistenti nell'utilizzo del parametro del triplo della pensione sociale[10], che di solito viene adeguato alle circostanze del caso concreto, come l'età del danneggiato, l'attività lavorativa precedentemente svolta e lo scarto tra vita biologica e vita lavorativa, ed infine in quello equitativo ex art. 2056 c.c.[11]
3. Il danno da lucro cessante nelle gare di appalto pubbliche: gli elementi a fondamento della domanda risarcitoria
In linea di principio giova ricordare che, in tema di controversie che riguardano le gare di appalti pubblici, la domanda risarcitoria dell’operatore economico che non sia risultato aggiudicatario o sia stato escluso dalla gara pubblica a causa di un provvedimento illegittimo o di una condotta illecita dell’Amministrazione (sistema della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.)[12], deve essere fondata su due fondamentali presupposti: 1) esistenza di una posizione giuridica soggettiva sostanziale che si intende tutelare; 2) esistenza di una lesione che è configurabile anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittimo della P.A.[13].
Infatti l’art. 30, comma 2, del Codice del processo amministrativo concede la possibilità al soggetto leso di chiedere la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno ingiusto derivante da dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria nonché il risarcimento del danno in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c..
Nello schema risarcitorio viene preso in considerazione il criterio di quantificazione del danno posto dall’art. 1223 c.c. che, nell’individuare le due componenti del danno emergente e del lucro cessante, si atteggia a norma generale in materia di quantificazione del danno.
Quanto alla dimostrazione dell’elemento soggettivo costituito dal dolo o dalla colpa dell’Amministrazione, la giurisprudenza oramai consolidata, tenendo conto anche delle indicazioni fornite dalla giurisdizione sovranazionale, ha affermato il principio secondo cui in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento e/o comportamento illegittimo, il privato danneggiato può limitarsi ad invocare la illiceità della condotta dalla P.A. quale indice presuntivo della colpa, restando a carico dell’Amministrazione l’onere di dimostrare che si è trattato di errore scusabile.
Di recente, è stato ritenuto che, in caso di accertata illegittimità di un atto amministrativo produttivo di danno, il soggetto non è tenuto a provare l’elemento soggettivo della colpa ma può limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto, dovendosi fare rinvio, al fine della prova dell’elemento soggettivo della responsabilità, alle regole della comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’articolo 2727 C.C.; spetta invece all’Amministrazione dimostrare di essere incorsa in un errore scusabile. La presunzione di colpa dell’Amministrazione può essere riconosciuta solo nelle ipotesi di violazioni commesse in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo, giuridico e fattuale tale da palesarne la negligenza e l’imperizia, cioè l’aver agito intenzionalmente o in spregio alle regole di correttezza, imparzialità e buona fede nell’assunzione del provvedimento viziato; mentre deve essere negata la responsabilità quando l’indagine conduce al riconoscimento di un errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per la incertezza del quadro normativo di riferimento, per la complessità della situazione di fatto[14].
In particolare, nelle ipotesi in cui l’operatore economico non sia risultato aggiudicatario o sia stato illegittimamente escluso dalla procedura di appalto, una volta che il Giudice abbia dichiarato l’annullamento della gara, il medesimo operatore può proporre nell’ambito del medesimo giudizio amministrativo la domanda di risarcimento del danno patrimoniale ingiustamente subito commisurato sotto il profilo del lucro cessante e del danno emergente, categorie queste ultime comprensive di ulteriori voci quali mancato utile, mancato profitto, danno curriculare, perdita di chance.
3.1. Evoluzione della giurisprudenza in tema di determinazione del danno da lucro cessante
Con particolare riguardo alla componente di danno costituita dal lucro cessante, si osserva che la giurisprudenza risalente aveva ritenuto di determinare detta voce utilizzando il criterio che stimava l'utile perso nel 10% dell'importo a base d'asta come eventualmente ribassato nell'offerta presentata dall'impresa illegittimamente esclusa.
Nel tempo, è tuttavia emerso nella giurisprudenza un crescente disagio nei confronti di un tale valore, comunemente ritenuto troppo elevato. Secondo un indirizzo giurisprudenziale che è venuto consolidandosi[15], tale criterio presuntivo non poteva comunque essere oggetto di applicazione automatica e indifferenziata, poiché si sarebbe rischiato in tal modo di rendere il risarcimento dei danni più favorevole per l'imprenditore dell'impiego del capitale[16]. In pratica, solo in qualche occasione la giustizia amministrativa riconosceva per intero il 10%, ma prendeva questo valore come punto di partenza, cui applicare vari correttivi[17], con l'obbiettivo di "rendere meno evidenti gli ingiustificati esborsi a carico della finanza pubblica"[18]. Sul piano quantitativo, il correttivo più rilevante utilizzato è stata la decurtazione dell'utile perduto in base al principio del aliunde perceptum vel percipiendum.
D'altra parte, come sostenuto dalla giurisprudenza, l'introduzione di correttivi ad una determinazione forfettaria del lucro cessante costituisce "un rimedio inappagante perché sconta [...] il vizio d'origine del costrutto argomentativo che nasce all'interno della logica indennitaria e non si concilia affatto con il regime della prova nel sistema della responsabilità civile in genere e della P.A. amministrazione in particolare"[19].
Partendo da questi rilievi critici nei confronti della giurisprudenza precedente, il Consiglio di Stato ha poi mutato radicalmente il proprio indirizzo, ritenendo che non possa più essere condiviso il prevalente orientamento secondo cui, al fine di quantificare il lucro cessante subito dall'impresa per la mancata aggiudicazione di un appalto ... sarebbe ammissibile liquidare, a titolo di danno presunto ed in via equitativa, una percentuale pari al 10% del prezzo a base d'asta ... “[20]
E’ prevalso, invece, l'indirizzo che esige la prova rigorosa, a carico dell'impresa, della percentuale di utile effettivo che avrebbe conseguito se fosse risultata aggiudicataria dell'appalto; prova desumibile, in primis, dall'esibizione dell'offerta economica presentata al seggio di gara sia perché detto criterio esula storicamente dalla materia risarcitoria, sia perché non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, non potendo formularsi un giudizio di probabilità fondato sull'id quod plerumque accidit secondo il quale, allegato l'importo a base d'asta, può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile alla percentuale del 10%[21].
Risulta evidente che si passa da una logica indennitaria, basata su un parametro di riferimento di tipo analogico, ad una logica risarcitoria, nella quale deve riconoscersi una fondamentale valenza probatoria alla documentazione contabile[22].
Il sostanziale rifiuto del criterio forfetario come parametro "di applicazione automatica e indifferenziata"[23] si è infine completato con l'approvazione del nuovo testo del c.p.a., che fa riferimento, all'art. 124, comma 1, al "danno ... subito e provato": in tal caso la domanda risarcitoria si pone in contrasto con la regola citata da tale ultima norma secondo il quale il risarcimento del danno per equivalente da illegittima privazione dell'appalto deve essere "subito e provato"[24] Pertanto, oggi non è più applicabile, in base all'art. 124 c.p.a., il criterio forfettario del 10% del valore dell'appalto, al quale deve sostituirsi il criterio dell'utile effettivo. Laddove la quantificazione del danno avvenga ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., questa deve assumere come criterio primario, ma non esclusivo, quello dell'offerta presentata in sede di gara[25].
Sulla scorta di tali considerazioni, dunque, nel caso di annullamento dell'aggiudicazione di appalto pubblico e di certezza dell'aggiudicazione in favore di un’Impresa ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se si dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione. In difetto di tale dimostrazione, che compete comunque al concorrente fornire, è da ritenere[26] che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e da qui la decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum, considerato anche che, ai sensi dell'art. 1227 c.c., il danneggiato ha un puntuale dovere di non concorrere ad aggravare il danno[27]
Qualche Autore ha sostenuto inoltre che non sia sempre possibile dedurre il lucro cessante dai documenti di gara, come ritiene la giurisprudenza amministrativa più recente: se infatti da quei documenti è in genere possibile ricavare l'utile che ha perduto la commessa, non sempre può esserlo l'utile che ha perduto l’impresa ricorrente. In tal caso, tale utile è pari alla somma dell'utile di commessa e del contributo che la commessa avrebbe dato alla copertura dei costi di struttura[28]. Più precisamente si consideri che, per realizzare la commessa, l'impresa dovrà avvalersi anche di una serie di servizi (ufficio acquisti, amministrazione, ufficio tecnico, gestione del personale, e così via), che non sono direttamente "causati" dalla commessa, ma che l'appaltatore sostiene congiuntamente per realizzare una pluralità di commesse, e dunque sono costi indiretti di impresa, che per semplicità, d'ora sono definiti costi di struttura dell'impresa. È per questo che, nella contabilità, l'utile della commessa non è semplicemente dato dalla differenza tra ricavi di commessa e costi di commessa: tale differenza fornisce solo il margine di contribuzione, che prima di diventare utile deve contribuire alla copertura dei costi di struttura dell'impresa.
Secondo tale opinione, dunque, il lucro cessante derivante dall'esclusione dall'appalto non coinciderebbe con l'utile che la commessa avrebbe generato, ma è superiore ad esso: la quota di costi di struttura dell'impresa che la commessa, non essendo realizzata, non ha assorbito, saranno infatti comunque sostenuti, e ridurranno l'utile d'impresa rispetto allo scenario nel quale l'evento dannoso non si fosse verificato[29]: tali costi fanno dunque parte del lucro cessante. In tale situazione, l'impresa perderebbe una somma superiore all'utile della commessa: un risarcimento del lucro cessante basato sull'utile perduto è dunque inadeguato. Esso si dovrebbe invece basare sul margine di contribuzione.
3.2. La voce di danno da lucro cessante distinto da altre voci: orientamento giurisprudenziale recente
La giurisprudenza maggioritaria di merito fino alla recente pronuncia del Consiglio di Stato del 15 maggio 2018[30] aveva ritenuto che in tutte quelle ipotesi in cui non fosse aggiudicata una gara d'appalto, il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante ricomprendesse sia il mancato profitto che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell' appalto, sia il danno c.d. curricolare ovvero il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell' appalto (interesse positivo del danneggiato), mentre non rientra nell'ambito del danno precontrattuale l'interesse positivo, sub specie di utile di impresa, ossia i vantaggi economici che sarebbero derivati dall'esecuzione del contratto non venuto ad esistenza[31].
Sotto il profilo probatorio, incombe in ogni caso, all'impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la dimostrazione rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull'ammontare del danno[32].
Recentemente la giurisprudenza sembra aver cambiato orientamento operando una differenziazione tra la voce di danno da lucro cessante da quella relativa alla perdita di chance ivi compresa la possibilità di stabilire un diverso criterio di accertamento della colpa in capo all’Amministrazione[33].
Si trattava, infatti, di un contenzioso intrapreso da un medico contro un’Amministrazione regionale al fine di ottenere il convenzionamento con il Servizio sanitario nazionale per la medicina generale. In tal caso, nel giudizio di primo grado il Collegio non accoglieva la domanda risarcitoria, proposta al fine di ottenere il diritto al risarcimento del danno patrimoniale per cosiddetto “danno emergente” e “lucro cessante”, ragguagliato al compendio stipendiale che avrebbe conseguito e, pertanto, riconosceva al ricorrente soltanto il risarcimento del danno da perdita di “chance”. Il giudizio proseguiva con l’appello avverso la sentenza del primo giudice ove il medico contestava, tra l’altro, la violazione dei fondamentali principi fondanti la responsabilità da attività illegittima della P.a..
Il Consiglio di Stato accoglieva la domanda del medico per risarcimento danni per mancato guadagno, quantificato con riferimento alle retribuzioni maggiori in luogo di quella derivante da perdita di chance atteso che l’appellante aveva fornito la prova degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria quali l’elemento psicologico, il nesso di causalità ed il danno ingiusto.
La giustificazione del recente dictum del Supremo Consesso della Giustizia amministrativa in merito alla circostanza di tenere distinte le due voci di danno risiede nel fatto che, in presenza di richieste risarcitorie nelle quali si chiede anche il danno da perdita di chance, la parte interessate sia tenuta alla prova rigorosa di tale deminutio nonché della sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento.
Con riferimento, invece, all’accertamento della colpa della P.A., è stato affermato che, al fine della configurabilità della stessa, occorre avere riguardo al carattere ed alla tipologia di regola di azione violata:[34] in tal caso l’elemento soggettivo si qualificherebbe come colpa specifica. Ne deriva la seguente distinzione: se la regola di azione è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico cioè la colpa nella sua violazione; se, invece, la regola di azione, intesa come canone della condotta amministrativa, è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare alla PA un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese violazione delle regole di correttezza e di proporzionalità[35].
In quest’ultima situazione, quando la P.A. opera sulla scorta di regole di condotta inidonee a costituire di per sé un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione potrà essere affermata come colpa nei soli casi l’azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri di buona fede e di imparzialità restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile[36].
Note e riferimenti bibliografici
[1] Cass. civ. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in Foro It., 2003, I, 2273
[2] P.G. Monateri - M. Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 211; F. Peccenini, Il danno patrimoniale, in P.G. Monateri, Il danno alla persona, Padova, 2000, 153
[3] Tribunale di Torino, 2 febbraio 2009
[4] Cass. civ. 17 maggio 2010, n. 11967, in Giust. Civ. Mass. 2010, 5, 759
[5] Chindemi D., Il danno patrimoniale, in Chindemi D., Il danno alla persona dopo le Sezioni Unite, Bologna, 2009, 345; D. Chindemi, Il nuovo danno patrimoniale, in Resp. civ. e prev., 2006, 2, 378.
[6] Cass. civ. 2 febbraio 2007, n. 2311, in Foro It., 2007, I, 747 e Cass. 18 maggio 1999 n. 4231, in La resp. civile, 2000, 110.
[7] Cass. civ. Sez. VI - 3 Ord., 10-04-2018, n. 8838; Cass. civ. Sez. VI - 2 Ord., 08-03-2018, n. 5613.
[8] Cass. civ 21 aprile 2010, n. 9444, in Giust. Civ. Mass. 2010, 4, 572.
[9] ex multis, Tribunale di Milano, 18 giugno 2009, n. 7891 e Tribunale di Lodi, 8 gennaio 2009.
[10] Cfr. Tribunale di Roma, 5 gennaio 2010 e Tribunale di Brindisi, 2 febbraio 2009.
[11] Cfr., ex multis, Tribunale di Bari, 3 maggio 2010, Tribunale d Treviso, 24 febbraio 2009 e Tribunale di Nola, 22 gennaio 2009.
[12] Cass. civ. n. 500/1999.
[13] Cons. Stato, Sez. V, 28.04.2014, n. 2195.
[14] Cons. Stato, Sez. IV, 12.04.2018 n. 2197.
[15] Cons. Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2967;Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3144;Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2010, n. 6485;Cons. Stato, 9 dicembre 2010, n. 8646.
[16] Cons. Stato, sez. V, 13 giugno 2008, n. 2967.
[17] Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1513; Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; Cons. Stato, sez. VI, 21 settembre 2010, n. 7004; Cons. Stato, sez. III, 12 maggio 2011, n. 285.
[18] Cons. Stato, sez. V, 17 ottobre 2008, n. 5098.
[19] Ibidem.
[20] Spagnuolo M., Il danno all'appaltatore va risarcito senza lucro cessante , in App. e contr., 2009, fasc. 5, 36; E. Santoro, Lucro cessante e residualità del criterio del dieci per cento, in Urb. e app., 2008, 1451; S. Baccarini, Gare pubbliche e lucro cessante delle imprese non aggiudicatarie, in Urb. e app., 2007, 929.
[21] T.A.R. Molise Campobasso Sez. I, 16-02-2018, n. 66; Cons. Stato, sez. VI, 4 aprile 2003, n. 478;Cons. Stato, 5 aprile 2005, n. 1563.
[22] Cons. Stato, sez. V, 6 aprile 2009, n. 2143; Cons. Stato, sez. V, 8 novembre 2012, n. 5686;Cons. Stato, sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846.
[23] Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2013, n.240.
[24] Cons. Stato, sez. V, 27-11-2017, n. 5546.
[25] T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 4 novembre 2010, n. 4552.
[26] Cons. Stato, sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 115.
[27] Cons. Stato, sez. V, 18 febbraio 2013, n. 966.
[28] Prosperetti L., Risarcimento danni, in Urbanistica e appalti, 2013, 7, 756.
[29] F. Crosta, Il Controllo di Gestione nelle piccole imprese di servizi su commessa, Milano, 2012, 43.
[30] Cons. Stato, sez. III, 15.05.2018 n. 2882.
[31] Cfr., ex multis, T.A.R. Liguria Genova sez. II, 21-05-2018, n. 463; T.A.R. Lombardia Milano sez. I, 02-05-2018, n. 1167.
[32] Cons. Stato (Ad. Plen.), 12-05-2017, n. 2.
[33] Cons. Stato, n. 2882/2018, cit.
[34] Ponte D., Una distinzione netta tra ristoro tradizionale e altro più “sfuggente”, in Guida al Diritto, 2018, 25, p. 93.
[35] Ponte D., op. cit., p. 93.
[36] Ponte D., op. ult. cit., p. 93