Pubbl. Gio, 10 Mag 2018
Licenziamento disciplinare: per le Sezioni Unite al ritardo nella contestazione si applica la tutela indennitaria forte
Modifica paginaPer la Suprema Corte, l’eccessivo ritardo nella contestazione dell’infrazione comporta l’accesso alla tutela indennitaria “forte” dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Sommario: 1. Il principio di immediata contestazione dell’addebito disciplinare; 2. Le quattro tipologie di tutela ai sensi del “nuovo” art 18 della L. 300/1970; 3. La natura del principio di immediata contestazione secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite.
1. Il principio di immediata contestazione dell’addebito disciplinare
La Corte di Cassazione, con la recente pronuncia a Sezioni Unite, n. 30985 del 27 dicembre 2017, ha avuto modo di affrontare il tema delle conseguenze del mancato rispetto del principio dell’immediatezza nella contestazione dell’addebito disciplinare, nonché del tipo di tutela invocabile dal lavoratore nel caso in cui gli vengano contestati fatti a notevole distanza di tempo dal loro accertamento.
Che infatti il datore di lavoro sia tenuto a dare immediata contestazione di quei comportamenti che ritenga meritevoli di intervento disciplinare, è quanto previsto dalla normativa giuslavorista e segnatamente dall’ art. 7 della L. 300/1970 ( c.d. Statuto dei Lavoratori) ai sensi del quale “Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa”.
Scopo della disposizione è quello di portare immediatamente alla cognizione del lavoratore quei fatti che appaiono al datore di lavoro come contrari ai tradizionali doveri di diligenza, obbedienza e fedeltà (come sancito dagli artt. 2104 -2105 c.c.), di cui sarà pertanto chiamato a rispondere in via disciplinare.
Potere disciplinare che, a seconda dell’importanza del comportamento, può nelle ipotesi più gravi tradursi nella sanzione massima che è in grado di irrogare il datore di lavoro, ovvero il c.d. licenziamento disciplinare.
Stando così le cose, tuttavia, va considerato come, se l’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori è la norma che per intero compiutamente disciplina tutte le fasi dell’ accertamento disciplinare ( contestazione addebito, diritto e termine a difesa del lavoratore con possibilità di sua audizione orale, contestazione definitiva), una della sue falle è senza dubbio la mancata individuazione del termine entro cui il datore di lavoro sia tenuto a contestare formalmente l’addebito disciplinare una volta accertato il fatto imputabile dal lavoratore dipendente.
Infatti, il non avere il legislatore previsto al datore di lavoro un termine entro cui concludere le sue personali indagini intorno alla sussistenza del fatto del dipendente, ha aperto la strada a fattispecie, come quella da cui scaturisce la pronuncia delle Sezioni Unite, il licenziamento veniva intimato a notevole distanza di tempo dal suo accertamento, nel caso di specie a distanza di ben due anni.
Entrando nello specifico nel caso sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, il dipendente in primo grado ricorreva al Giudice del lavoro affinché dichiarasse la nullità del licenziamento per violazione dell’art. 7 L. 300/1970 con conseguente diritto alla reintegra sul posto di lavoro ex art 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Sia in primo che in secondo grado i Giudici di merito dichiaravano l’illegittimità del licenziamento, tuttavia rigettando la domanda di reintegrazione del lavoratore, a cui veniva riconosciuta una somma di denaro secondo lo schema della c.d. tutela indennitaria debole, di cui all’ art. 18 comma 6 della L. 300/1970.
Ora, è proprio sul tema delle conseguenze del mancato rispetto del principio dell’immediata contestazione che sono nate le principali questione giuridiche riguardanti la fattispecie.
Fondamentali è in questi casi stabilire la tipologia di tutela cui accede il lavoratore tra le diverse previste dal nuovo art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
2. Le quattro tipologie di tutela ai sensi del “nuovo” art 18 della L. 300/1970
Come si è accennato, nel caso in esame, i Giudici di merito avevano accertato che nell’ipotesi in cui l’imprenditore ritardi notevolmente ed in maniera ingiustificata, la contestazione dell’addebito disciplinare al proprio dipendente, conseguenza sarà la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, con conseguente applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
La questione è tutt’altro che semplice, atteso che una volta giunta la causa in Cassazione veniva richiesto l’intervento delle Sezioni Unite, cui compito era quello di individuare in concreto la tipologia di tutela accessibile tra le quattro oggi previste dal “nuovo” art. 18, come riformato dalla Legge Fornero ( L. 92/2012).
L’ art 18 della L. 300/1970 è stato infatti oggetto di un completo restyling ad opera della controversa riforma Fornero, la quale ha sostanzialmente ridisegnato le tipologie di tutela di cui gode il lavoratore nei casi di licenziamento illegittimo, vale a dire non sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo.
Accanto alle due tradizionali categorie della tutela reale (reintegra nel posto di lavoro in aggiunta a una somma a titolo di risarcimento) e della tutela obbligatoria (diritto ad un risarcimento solo pecuniario) oggi il legislatore prevede, a seconda della gravità cui riconduce l’ingiustizia del licenziamento secondo le ipotesi normativamente tipizzate dallo stesso articolo 18, ben quattro livelli di tutela:
a) Si prevede tutela reale piena ( art. 18, primi 3 commi) qualora il licenziamento sia il frutto di un provvedimento discriminatorio, ovvero intimato in concomitanza del matrimonio, oppure nullo perché riconducibile alle ipotesi di nullità previste dalla legge .
In tali casi, il dipendente che si vedesse accertata l’illegittimità del licenziamento per una delle siffatte ipotesi, ha diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro a cui si aggiunge il risarcimento del danno per tutto il periodo che va dal licenziamento all’effettiva reintegra, e che non può essere mai inferiore a 5 volte dall’importo dell’ultima retribuzione.
b) Viceversa, si parla di tutela reale attenuata (art. 18, comma 4) qualora il Giudice dichiari l’illegittimità del licenziamento, in difetto di giusta causa o di giustificato motivo, per l’insussistenza del fatto contestato o qualora quest’ultimo rientri in una delle ipotesi, regolamentate dai contratti collettivi, in cui prevista è solo una sanzione di carattere conservativo.
In tali ipotesi, il carattere attenuato della tutela reale si ravvisa nel fatto che il lavoratore, oltre al diritto alla reintegra, viene accompagnato da un risarcimento quantificato in misura minore, corrispondente ad un massimo di 12 mensilità calcolata sull’ultima retribuzione lorda percepita dal dipendente.
Al di fuori delle summenzionate ipotesi, il dipendente ingiustamente licenziato non conserva il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro bensì unicamente ad una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno dovuto al comportamento illecito del datore di lavoro
In questo contesto la tutela è dunque solo indennitaria, ed a sua volta il legislatore distingue tra tutela indennitaria forte e tutela indennitaria debole.
c) Alla tutela indennitaria forte (art. 18, comma 5), con condanna per il datore di lavoro al versamento di una somma cha va da un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità, accede il dipendente tutte le volte in cui il Giudice accerta che nella sua condotta non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro (ma non per insussistenza del fatto, che invece rientra, come detto, nella tutela reale ex art 18 comma 4);
d) La tutela indennitaria debole (art. 18, comma 6) opera invece in tutte quelle ipotesi in cui il datore di lavoro, nell’irrogare il licenziamento, abbia posto in essere una violazione formale del procedimento di irrogazione della sanzioni disciplinari, scandito dell’ art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
Trattasi, dunque, di violazioni di carattere formale, ed in cui conseguenza dell’accertamento sarà la condanna del datore di lavoro al pagamento di una somma omnicomprensiva che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità.
Questi i livelli di tutela, resta da stabilire a quale sia da ricondurre la fattispecie di illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo di contestazione immediata.
3. La natura del principio di immediata contestazione secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite
Per risolvere il dibattito, i Giudici delle SS.UU. non possono che affrontare il tema della valenza che si intende attribuire al principio di immediata contestazione di cui all’ art. 7 dello Statuto in relazione alle garanzie che questo offre al lavoratore.
Fermo che quest’ultimo non può vantare nessun diritto alla reintegra, non rientrando la violazione in nessuna delle ipotesi tassativamente previste dall’ art. 18 per l’accesso alla tutela reale, resta da stabilire a quale carattere di tutela indennitaria far ricorso.
A parere dei Supremi Giudici deve disattendersi l’orientamento secondo cui la violazione della regola dell’immediata contestazione possa tradursi in una mera lesione formale del procedimento di cui all’ art. 7 dello Statuto, cui far conseguire automaticamente l’accesso alla sola tutela indennitaria debole di cui all’ art. 18 comma 6 della L. 300/1970.
Al contrario, per gli Ermellini, “il principio della tempestività della contestazione può risiedere anche in esigenze più importanti del semplice rispetto delle regole, pur esse essenziali, di natura procedimentale, vale a dire nella necessità di garantire al lavoratore una difesa effettiva e di sottrarlo al rischio di un arbitrario differimento dell’inizio del procedimento disciplinare.”
Rappresenta infatti già un approdo pacifico della giurisprudenza di legittimità che il principio di immediata contestazione, da un lato, è volto ad assicurare nella sua piena effettività il diritto di difesa dell’incolpato, consentendogli di allestire in tempi ragionevoli il materiale difensivo per poter contrastare l’accusa del datore di lavoro, dall’altro, tutelato è anche il legittimo affidamento a che il datore di lavoro possa soprassedere e dunque si astenga dall’esercizio del potere disciplinare, in particolar modo qualora siano stati posti in essere comportamenti concludenti in tal senso ( come ad esempio, il continuare ad affidare al dipendente compiti di rilevante importanza).
Di tal guisa, il consentire di esercitare il potere disciplinare anche a distanza di un tempo notevolmente eccessivo rispetto all’accertamento dei fatti condurrebbe il dipendente sostanzialmente a trovarsi alla mercé del datore di lavoro.
È proprio per questo che il legislatore giuslavorista, con il principio in questione, appaga anche l’esigenza di impedire che l’indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori.
Da tali considerazioni ne scaturisce che la lesione del principio di tempestività è da risolversi non tanto e non solo in una violazione del procedimento formale di irrogazione delle sanzioni, bensì nell’inosservanza, da parte del datore di lavoro, dei generali precetti di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, e che sono scolpiti negli artt. 1175 e 1375 del codice civile.
Conclusione del ragionamento delle Sezioni Unite è che l’accertata contrarietà ai canoni di correttezza e buona fede non può che condurre all’ applicazione della tutela prevista dall’ art 18 comma 5, ovvero la più intensa tutela indennitaria “forte”.
Di qui il seguente principio di diritto: “la dichiarazione giudiziale di risoluzione del licenziamento disciplinare conseguente all’accertamento di un ritardo notevole e non giustificato nella contestazione dell’addebito posto a base del provvedimento di recesso, ricadente “ ratione temporis” nella disciplina della L. n. 300/1970, art. 18 come modificato dalla L. 92/2012, comporta l’applicazione della sanzione dell’indennità come prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 comma 5.
In definitiva, viene chiarito, in maniera definitiva, che in tutti i casi di licenziamento illegittimo per violazione del principio di tempestività della contestazione, il datore di lavoro sarà condannato al versamento, in favore del lavoratore, di una somma compresa tra le 12 e 24 mensilità.