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Pubbl. Gio, 19 Feb 2015

Il mito e il rito. La creazione dello spazio politico

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Gian Marco Lenzi


Riflessioni sulla creazione dell´uomo al-di-dentro e al-di-fuori dello spazio politico.


"Come genio costruttivo, l’uomo si innalza in questo modo al di sopra delle api: queste costruiscono con la cera che raccolgono ricavandola dalla natura, mentre l’uomo costruisce con la materia assai più tenue dei concetti che egli deve fabbricare da sé." (F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale.)

Come per tutti quei caratteri che si ripresentano quasi universalmente nell’uomo, i miti e i riti hanno destato un interesse quasi istintivo negli studiosi dei popoli antichi che, ancora oggi, continuano a tentare di interpretarne i messaggi, cercando di svelare i segreti delle “prime” comunità umane giunte fino a noi. Infatti non esiste popolo antico che non si sia cimentato in un vasto armamentario di leggende di varie natura, molto spesso indirizzate a ricostruire se stessi come esseri storicamente determinati, auto-definendone l’origine.

Quasi come un esigenza naturale, l’uomo, dunque, ebbe bisogno di definirsi e di collocarsi come prodotto di un evoluzione, del tempo e, nello stesso modo, definire il fine stesso dell’esistenza, nonché i modi (cioè le regole) del suo compiersi. Per un esempio abbastanza noto basti pensare alla mitologia (insieme di miti) Greca o Norrena, ma anche a mito della creazione di Roma. Come è già facile capire fin da questa breve introduzione, i miti vanno verso una limitazione delle alternative di significato, confluendo nella creazione di uno spazio determinato e “sicuro”: uno spazio domestico. Se si creava un origine, un inizio di un determinato popolo, se ne stabiliva di fatti la relativa nascita e conseguentemente i valori e i simboli validi all’interno di questo spazio. Questo spazio domestico, dove i significati sono delimitati e determinati dallo stesso mito, si impostano dei confini artificiali, ricreandone all’interno l’ordine.

Il mito crea dunque uno spazio, un piccolo “mondo di significato”; come afferma Paul Valery: “Mito è il nome di tutto quello che esiste e sussiste avendo la parola per causa”. Questo spazio, che abbiamo definito come domestico, è nient’altro che lo spazio politico della comunità, che veniva creato attraverso questo complicato processo di costruzione di significati. Per spazio “politico” intendo quello spazio di legami, di fini, di organizzazione comune e comportamenti attinenti ad una comunità e da essa prodotti e individuati. 

Il rito invece, può essere definito come un agire privo di senso, se non quello di determinare uno scopo giusto, un risultato che esprime significato per qualcuno. L’uomo, come essere privo di “istinto”, e non avendo quindi comportamenti che si scatenano dal senso di “dovere” determinato da quest’ultimo, deve costituire il proprio senso del dovere rispetto a comportamenti “corretti”, valevoli di effetti. Perciò, a determinati comportamenti si legavano effetti concreti ed accettati, prodotti dalla comunità.
Come ci dice Roberto Escobar, “Perduta la specificità delle forme innate di comportamento scatenate dall’Auslöser [meccanismo di innesco, ndr], resta però un aurea d’imperatività, un obbligo indeterminato di cui la conoscenza, occupata e come affascinata dal dato scatenante, rimane all’oscuro”. In più l’abitudine nel vedere, nell’accettare e nell’effettuare un comportamento “giusto”, tenderà ad alimentare ulteriormente questo artificiale obbligo. Per un esempio molto noto a chi ha studiato giurisprudenza in Italia, il rituale della Mancipatio che da il “giusto modo” per far scattare “legalmente” gli effetti dell’acquisto con in cambio il corrispettivo in denaro, può essere visto come un esempio di rito. 

Come dicevamo poc’anzi, se il mito è un comportamento presente in qualunque cultura e popolo antico, lo stesso possiamo dire tranquillamente del rito. Quindi, tutt’altro che in modo azzardato possiamo affermare che queste due tipologie di “comportamenti”, queste due creazioni artificiali, sono stati prodotti al fine di rispondere ad una certa esigenza quasi connaturale all’essere umano, e tale da ripresentarsi in modo costante nella storia dell’uomo. Come il mito, questi comportamenti vanno a creare la tradizione culturale di un popolo, un artificiale “abito culturale” indossato da una determinata comunità. Questi comportamenti ripetuti, questi valori e origini comuni, sono in un certo senso la comunità stessa. Detto questo, arrivati a questo punto, vale la pena provare a chiedersi quale sia questo fine dietro la creazione di questo spazio politico?

Molto probabilmente, l’esigenza, che questi prodotti cerativi andavano a perseguire, era quella di dare sicurezza, di contrastare la paura, di non essere, o di essere soli. Allo stesso modo delle ragioni dietro la costituzione originale di una comunità (quindi un certo bisogno di sicurezza), si delimitava uno spazio certo, sicuro, immutabile di valori e di regole, ma anche di comportamenti legati da quella sicurezza necessaria dell’essere umano, utile per sapere cosa deve fare, cos’è giusto fare e in quale condizione farlo: queste tre ultime condizioni sono molto facili da rintracciare nel rito, come esempio di un imitazione ripetuta. Cosa importa, quindi, se questa ragnatela di costruzioni artificiali, questa cultura, sia stata creata dagli uomini stessi, se ad essa ne derivava l’allontanarsi dalla paura di non essere?! Tale costrutto concettuale, poi, aveva l’effetto ulteriore, ma anche collegato al “securizzare”, di innalzare l’autocoscienza collettiva, rendendola di fatto un’unità (una comunità, che rientra in un determinato spazio) quelli che prima erano solo uomini.

Necessariamente, quindi, questo insieme culturale comportava l’avere dei confini, di definire chi era dentro e chi era fuori da questo spazio sicuro. Solo questi soggetti al-di-dentro hanno una stessa origine, stessi comportamenti e abitudini: si rispecchiano l’uno nell’altro e sono di conseguenza l’immagine del giusto e del sicuro. Allo stesso modo, i soggetti che erano al di fuori da questo spazio artificiale, sono altro: ovvero coloro che hanno differenti miti e riti, gli estranei. Questi estranei sono ciò che “ci” rendeva insicuri e fragili, ma che, allo stesso tempo, ciò che tende a rafforzare l’immagine della comunità: l’io della comunità si cementifica e si amplifica attraverso questa opposizione. Non è difficile immaginare che la non-sicurezza e la estraneità dei soggetti al-di-fuori possa essersi trasformata facilmente nell’odio per l’estraneo al di là dei confini. Nel processo che determinava l’al-di-fuori dei confini artificiali costruiti dalla sua creatività, si sono delimitati anche i confini degli stessi nemici, che presentavano l’inversione dei comportamenti corretti e giusti come prefigurati dalla comunità. Costruendo un sé-stesso, si è quindi costruito un sé-altro simmetrico ma, allo stesso tempo, estraneo e “sbagliato” a quello creato: un simmetrico-opposto.

Paradossalmente, in conclusione, possiamo osservare che rispondendo all’esigenza tutta umana di sicurezza, gli uomini dell’antichità crearono, in un certo senso, tutti quei meccanismi e componenti relativi alla situazione che, in fin dei conti, l’avrebbe in assoluto reso meno sicuro e in pericolo: cioè l’avere un nemico e uno spazio chiuso da opporli.

Bibliografia
Roberto Escobar, Metamorfosi della paura, Mulino, 1997.

Immagine di copertina
The Triumph of Civilization, 1793, di Jacques Réattu