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Pubbl. Mer, 11 Feb 2015

Suicidio e dominio

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Gian Marco Lenzi


Il suicidio secondo varie prospettive e funzioni: le ragioni della libertà.


"Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”. (A. Camus, Il mito di Sisifo)

 

Sono passati anni, ben più di un secolo, da quando l’esistenzialismo nelle sue variopinte peculiarità suscitava, con quel roboante clamore e quella novità, tipiche di un cambiamento radicale di pensiero, notevole stupore nonché una sfida aperta ad i concetti fino ad allora “acquisiti come riferimento”, all’interno dell’idealismo, al positivismo e al razionalismo ottocentesco. Questa multiforme ventata di idee nuove si concentrava, in differenti modi, su un punto fino allora limitato e ostracizzato: la libertà dell’individuo e delle sue scelte rispetto a tutto il resto. Non ci deve sorprendere, dunque, che uno degli alfieri di questa concezione, che difficilmente può essere considerato solo come un romanziere, puntasse il dito su un problema irrisolto e tutt’ora, dopo questo mezzo secolo, un tabù su cui si fa fatica a parlare: il suicidio. Proprio Albert Camus, come fatto tempo prima da Hume e da Schopenhauer, “accettava” come razionale e lecito il suicidio come scelta personale, slegata da motivi ideologici, e per questo doppiamente valida all’interno di una esistenza così insensata come quella umana, di cui Sisifo ne è infatti la metafora più efficace: “Il suicido è accettazione del proprio limite”, asseriva il pensatore algerino rispetto a questa scelta, che comunque riteneva non risolutiva per i problemi dell’esistenza. Quindi, scremando questo discorso che in realtà ha solo l’apparenza di una deriva pessimistica, otteniamo una “morale”: l’individuo deve essere al centro del proprio mondo, sia nelle scelte della vita che in quelle della morte, che nei confronti della prima, quest’ultima, è solo una delle numerose fasi. Camus, infatti, non parla del suicidio della letteratura romantica o nella traduzione giudaico-cristiana, e cioè il suicidio in nome di un ideale o di una religione, (come il caso di Apollonia, santificata anche se suicida visto il suo suo suicidio “per Dio”) ma come assoluta scelta individuale. La libertà delle scelte individuali e, di conseguenza, dell’individuo, è dunque messa al primo posto.

Mi interessa qui, all’interno di questa rivista online, che si concentra sul diritto, osservare e definire brevissimamente qualche piccolo esempio nella storia giuridica (e non solo) del suicidio; o meglio, tentare di stabilire come il diritto e altre concezioni osservano e valutano il suicidio, compartecipando a rendere oscura e intricata la sua visione e dimensione. Quello su cui volevo riflettere è proprio questa distanza che il diritto settecentesco/ottocentesco presentava rispetto ai concetti che dopo pochi anni inizieranno a germogliare nell’esistenzialismo, cercando così di tratteggiarne i motivi.

Se prendiamo il caso del diritto inglese settecentesco il suicida era reo verso Il Re e verso Dio per il suo comportamento. La punizione che gli veniva attribuita era quella di perdere ogni bene posseduto e la possibilità di sepoltura cristiana. Nell’ottocento la progressiva tendenza delle corti inglesi a negare la perdita dei beni causata dal suicidio portò a far predisporre agli avvocati un sistema che evitava questa punizione: la malattia mentale. Quella che era una tattica legale, una scappatoia, cercava di eludere la pena prevista. Proprio in relazione a questa scappatoia W. Blackstone, giurista inglese del ‘700, invita a prestare attenzione e a scoraggiante l’uso. Questa pena commisurata secondo la giurisprudenza inglese durerà fino agli ultimi decenni dell’ottocento. Fino al XIX secolo chi aveva tentato il suicidio che non andato a buon esito, era equiparato al tentato omicidio e quindi punito per impiccagione e, fino al 1961, il suicidio è stato considerato un delitto grave dalla giurisprudenza inglese.

Proprio questa dimensione, “il suicidio come malattia”, sarà riproposta dall’ottocento in poi in varie salse soprattutto dalla psicologia e dalla psicoanalisi, ma anche dalla sociologia (spesso indicandone motivi “esterni” al soggetto) fino ai giorni nostri. Ancora oggi la società e i media individuano il soggetto suicida come malato secondo varie “circostanze” scatenanti l’atto (depressione, alcol, psicofarmaci, etc.) definendo un rapporto quasi assoluto di causa-effetto con i suddetti “sintomi” di questa malattia.

Facendo un analisi sommaria degli ordinamenti mondiali in relazione col suicidio emerge che esso è ancora vietato in molti paesi tra cui l’India e i paesi islamici, ma anche che in alcuni paesi degli U.S.A e nell’Irlanda è stato depenalizzato relativamente di recente. Abbastanza sorprendentemente in alcuni paesi come il Giappone, il suicidio era visto positivamente e accettato ma solo in difesa dell’impero giapponese, in particolare è facile ricordare i Kamikaze e il seppuku (harakiri) fatto anche per sfuggire ai nemici e una morte “disonorevole”.

Cosa ho tentato di proporre con questa caleidoscopica (e senz’altro lacunosa) analisi del suicidio, delle sue pene e visioni? A mio parere quella che ne esce è una relatività piuttosto marcata ma, in un certo senso, di parte della visione del suicidio. Mi spiego meglio. Osservando tutti questi esempi quello che colpisce è una certa volontà di dominio dell’uomo sull’uomo, al di là della valutazioni morali del fatto. Infatti, se per motivazioni religiose e statali l’uomo inglese dell ‘800 veniva vietato o penalizzato nel compiere il suicidio, lo stesso atto è valido, ma anzi viene considerato eroico quando viene portato a termine in nome dell’impero giapponese (kamikaze) o per la religione (caso di Apollonia). Quello che voglio dire è che oggi siamo vittime di una visione assolutamente condizionata rispetto a questa scelta, dato che come possiamo vedere è storicamente dimensionata da un fine scelto “dall’alto” e per questo definito e moralizzato secondo il risultato.

Per quanto riguarda poi i sociologi e gli analisti, la loro repulsione verso questo atto è per di più dovuta alla propria attività. Un analista vede fallire il proprio lavoro quando il paziente si suicida, così come il sociologo deve difendere dalla comunità dalle azioni che la minano; Durkheim, nella sua classificazione delle tipologie di suicidi, non da l’idea di osservare una malattia “ambientale”, da suddividere e riassumere in categorie di sintomi e probabilità di cause?

In conclusione mi pare che sia impossibile poter dare un giudizio morale in modo assoluto del suicidio: come si può notare i numerosi punti di vista su questo atto nascondono delle funzioni secondarie. Questo perché spesso siamo portati a dare un giudizio morale in relazione alla nostra attività o ai nostri scopi o visioni del mondo, infischiandosene della libertà individuale e delle ragioni che ognuno ha; questo è una sorta di dominio con cui vediamo le cose e che ci domina a sua volta: non siamo liberi nel giudicare. L’unica visione che ritengo possibile e auspicabile, nonché logicamente e razionalmente valida, è quella di capire le ragioni individuali e le libertà dei soggetti, anche quando esse siano contrarie con quello che facciamo e pensiamo, proprio perché altrui, in ossequio alla “morale esistenzialista”. Bisogna tentare nelle nostre possibilità di limitare e di smascherare questo dominio, soprattutto quando esso diviene norma (e quindi coercitiva). Questo a mio avviso è a ancora oggi il peso e la sfida più difficile della libertà: capire, anche quando Sisifo non voglia più spingere il masso verso la vetta.

Bibliografia

David Hume, sul suicidio e altri saggi morali, Laterza, 2008. Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2013
James Hillman, Il suicidio e l’anima, Adelphi, 2010
Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi, 1998 Émile Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, 2007 Émile Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, 2007