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Pubbl. Mar, 20 Feb 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Applicazione analogica delle cause di esclusione della colpevolezza: l’estensione dell’art. 384 c.p. ai conviventi prima e dopo la legge Cirinnà

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Renata Maddaluna


La controversa natura giuridica dell´art. 384 c.p. e la sua estensibilità al convivente prima e dopo la legge Cirinnà e il suo decreto attuativo


Sommario: 1. Le cause di esclusione della colpevolezza: inquadramento normativo; 2. L'art. 384 c.p. e la sua natura giuridica; 3. L'estensione dell'art. 384 c.p. ai conviventi prima della legge Cirinnà; 3.1 Cass., n. 34147/2015: l'art. 384 c.p. è applicabile anche al convivente more uxorio;  4. Le novità introdotte dalla l. 76/2016 (cosiddetta Cirinnà); 5. Le novità apportate dal d.lgs. 6/2017 attuativo della legge Cirinnà nell'ordinamento penale; 6. Disciplina delle convivenze di fatto e delle unioni civili e diritto penale alla luce della riforma; 7. Note conclusive

                                                                                                        

1. Le cause di esclusione della colpevolezza: inquadramento normativo

Le cause di esclusione della colpevolezza (o scusanti) sono così definite perché escludono la colpevolezza e quindi la punibilità a causa della inesigibilità del comportamento che però resta illecito.

Si tratta di una categoria dogmatica non unitaria[1] e discussa innanzitutto perché le cause di esclusione della colpevolezza presuppongo il concetto di colpevolezza (che escludono) il quale già di per sé è molto controverso.

Da un punto di vista concettuale le scusanti si distinguono, in primo luogo, dalle esimenti o cause di non punibilità in senso stretto, le quali eliminano non il reato in sé ma la sua punibilità per ragioni di mera convenienza o di opportunità politica criminale[2] e, in secondo luogo, dalle cause di giustificazione (o scriminanti). Queste ultime rendono il fatto lecito ab origine alla stregua di tutto l'ordinamento giuridico, stante il principio di non contraddizione dello stesso, e lo privano del suo disvalore oggettivo. Viceversa, le esimenti, così come le scusanti, incidono sull'elemento soggettivo (colpevolezza), escludendo la rimproverabilità del comportamento[3].

La categoria delle cause di esclusione della colpevolezza o scusanti presuppone il concetto di inesigibilità del comportamento a causa di una alterazione motivazionale del soggetto agente nello specifico caso concreto o per impossibilità di conoscere la norma penale (disciplina sull'errore) o per impossibilità di determinarsi secondo la legge penale (a causa di violenza, costringimento psichico). Le scusanti, pertanto, escludono la colpevolezza e quindi la punibilità della condotta perché essa non corrisponde ad una libera, serena e consapevole manifestazione di volontà del soggetto agente[4].

La categoria dogmatica dell'inesigibilità, elaborata nella dottrina tedesca, è stata proposta anche da una certa parte della dottrina italiana sul presupposto che la colpevolezza, normativamente intesa, e cioè come rimproverabilità della condotta, presuppone che l'agire umano si sia formato in circostanze concomitanti normali; la colpevolezza, quindi, richiede l'esigibilità del comportamento.

Il ricorso alla formula dell'inesigibilità sarebbe, così, utile, secondo questa teoria, non solo per spiegare il fondamento di alcune cause di discolpa espressamente codificate, ma anche per consentire, attraverso il procedimento analogico, l'introduzione di nuove scusanti non codificate[5]. La categoria dogmatica dell'inesigibilità è stata però sottoposta a severe critiche: si è innanzitutto affermato che l'esigibilità della condotta dovrebbe riferirsi più che alle scusanti, alle scriminanti, che essa viola il principio di legalità e in particolare il divieto di analogia, ma soprattutto che la stessa non mostra un criterio adeguato alla cui stregua valutare l'esigibilità della condotta, migrando verso l'incertezza.

In ogni caso, l'inesigibilità, se per certi versi accomuna scusanti e scriminanti essendo supposta anche dalla scriminante dello stato di necessità di cui all'art. 54 c.p., è invece del tutto estranea alle cause di non punibilità in senso stretto[6].

2. L'art. 384 c.p. e la sua natura giuridica

L'art. 384 c.p., rubricato "casi di non punibilità", prevede due speciali ipotesi di non punibilità per una serie di delitti contro l'amministrazione della giustizia.

Quanto agli elementi costitutivi, l'agente deve aver commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave nocumento nella libertà o nell'onore. Questa speciale causa di non punibilità si fonda, allora, da un lato, sul presupposto della riconosciuta rilevanza dell'istinto di conservazione della propria vita, integrità fisica, libertà e onore che spingono l'individuo ad evitare di accusare sé medesimo, dall'altro sulla forza incoercibile dei sentimenti familiari.

Il primo comma della disposizione in esame esclude, infatti, la punibilità di chi abbia commesso una serie di delitti contro l'amministrazione giudiziaria, qualora tale condotta sia stata imposta dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un danno grave e inevitabile nella libertà o nell'onore. Si richiede, dunque, l'inevitabilità del nocumento che deve essere futuro, tenuto conto che non è sufficiente un pericolo genericamente tenuto, occorrendo la prova di un pericolo attuale e concreto[7].

Il primo comma della disposizione può essere ulteriormente scomposto: da un lato, la versione “egoistica”, in cui il soggetto commette il fatto per salvare se stesso (secondo qualcuno, assimilabile al principio nemo tenetur se detergere); dall’altro lato, la variante “altruistica”, in cui il fatto è commesso per salvare un prossimo congiunto. Valga considerare che la norma non definisce il significato di prossimo congiunto, la cui disciplina si rinviene solo nell’art. 307 c.p. Secondo quest’ultima norma: “agli effetti della legge penale, s’intendono per prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti, nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole”.

Molto discussa è la natura giuridica della norma in esame.

Secondo un primo orientamento, l'art. 384 c.p. rappresenta un'ipotesi speciale di stato di necessità (art. 54 c.p.) e, come tale, è da ricondurre alle scriminanti, di tal che, al fine di escludere la punibilità, dovrebbero essere mutuati dall'art. 54 c.p. i requisiti, non previsti dalla norma in analisi, della non volontaria causazione del pericolo e della proporzionalità[8].

Secondo un altro orientamento, l'art. 384 c.p. si iscrive nella logica delle cause di non punibilità in senso stretto perché il legislatore tiene conto con essa della forza incoercibile dei sentimenti familiari ovvero dell'istinto di conservazione della propria vita e libertà che giustificano la mancata punizione di fatti commessi contro l'amministrazione della giustizia.

Secondo l'orientamento maggioritario, l'art. 384 c.p. rappresenta una causa di esclusione della colpevolezza (o scusante) perché con essa il legislatore tiene conto della particolare posizione soggettiva in cui si trova l'agente e la valorizza al fine di escludere l'esigibilità della condotta conforme alla norma penale. Si tiene conto soprattutto del dissidio interiore in cui si trova l'agente, stretto tra la necessità di salvare sé o altri dal pericolo di un grave nocumento, e la necessità di tenere una condotta conforme al precetto penale. Di  preciso, dunque, la norma si ritiene espressione del suesposto principio di inesigibilità presupponendo un conflitto interiore tra l'obbligo di collaborare con l'amministrazione della giustizia ed il dovere morale di tutelare la propria famiglia o la propria integrità fisica[9]. Ciò precluderebbe in radice la rimproverabilità soggettiva dell'individuo, cui l'ordinamento non potrebbe chiedere ("esigere" appunto) condotta diversa da quella in concreto tenuta[10].

3. L'estensione dell'art. 384 c.p. ai conviventi prima della legge Cirinnà

La precisa individuazione della natura giuridica dell’art. 384 c.p. non è questione puramente teorica, investendo, in particolare, la pratica possibilità che essa sia oggetto di estensione in via analogica anche a casi non espressamente previsti.

In particolare, con l'emersione della famiglia di fatto come fenomeno sociale meritevole di apprezzamento e tutela da parte dell'ordinamento giuridico ai sensi dell'art. 2 Cost., si è posta in giurisprudenza la questione della possibilità di estendere in via analogica l'art. 384 c.p. anche ai conviventi more uxorio, intendendosi con tale espressione coloro i quali siano legati da vincoli affettivi e da un progetto di vita comune tendenzialmente stabile.

Il tradizionale orientamento negativo muove dalla considerazione che l'art. 384 c.p. sia una norma eccezionale e tassativa sia dal punto di vista dei soggetti di cui è esclusa la punibilità sia dal punto di vista oggettivo, relativo ai reati per i quali è esclusa la punibilità: ciò, pertanto, renderebbe tale disposizione normativa non suscettibile di estensione in via analogica[11].

La Corte Costituzionale, intervenuta sulla questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, prima che fosse emanata la legge Cirinnà, ha evidenziato la ragionevolezza della disparità di trattamento tra la famiglia naturale fondata sul matrimonio, che trova una diretta copertura costituzionale nell'art. 29 Cost., e la famiglia di fatto che trova un riconoscimento (indiretto) alla stregua di formazione sociale rilevante ex art. 2 Cost. In particolare, la diversità di trattamento in parola si giustifica in funzione, secondo la Corte, in base alla diversa stabilità del vincolo che, pur dopo l'introduzione della disciplina sullo scioglimento del matrimonio, caratterizza la famiglia naturale a dispetto della famiglia di fatto che si fonda, all'opposto, sulla libera scelta delle parti di non assoggettarsi ai doveri e correlativamente ai diritti che la legge ricollega alla famiglia naturale.

3.1. Cass., n. 34147/2015: l'art. 384 c.p. è applicabile anche al convivente more uxorio

In aperto contrasto con tale tradizionale orientamento, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 34147/2015, ha, tuttavia, esteso l'art. 384 c.p. al convivente more uxorio, pur non prendendo espressa posizione sulla natura giuridica di tale norma[12]. La pronuncia costituisce il primo autentico precedente giurisprudenziale in cui si riconosce che la protezione accordata dall'art. 384 co 1 c.p. si applica anche alla famiglia di fatto e s’inserisce, così, nel solco tracciato da un importante filone ermeneutico che, prima che entrasse in vigore la legge Cirinnà, intendeva parificare le unioni familiari a quelle para‐familiari, almeno in punto di tutela[13], a causa del riconosciuto iato esistente tra realtà sociale e realtà normativa. La sentenza in esame, perciò, offre un prezioso contributo alla ricostruzione dello statuto penale della famiglia di fatto, consentendo di fare il punto sull'interpretazione dell'art. 384 co 1 c.p. e sui concetti di prossimo congiunto e di famiglia che la disposizione sottintende.

Nella sentenza in esame la Suprema Corte si afferma consapevole di muoversi in uno scenario interpretativo assolutamente contrario all'estensione ai conviventi dell'art. 384 co 1 c.p. La stessa evoca l'unico isolato precedente giurisprudenziale che è pervenuto ad un esito contrario, sia pure in sede di obiter dictum, evidenziando, però, le critiche mosse a tale impostazione da una parte della dottrina che ritiene le cause di non punibilità insuscettibili di interpretazione analogica in quanto norme penali eccezionali per antonomasia, riflettendo sul piano normativo scelte di politica criminale[14].

In primo luogo, la Corte analizza l’indirizzo giurisprudenziale tradizionale e maggioritario, che considera l’art. 384 c.p. non applicabile al convivente di fatto. Successivamente, la Corte compie  una ricostruzione evolutiva del concetto di convivenza, sempre più oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, così come testimoniato, oltre che da alcuni interventi normativi, da diversi indirizzi pretori, anche delle Corti sovranazionali. Infine, la Corte conclude per l’accoglimento del ricorso, giacché l’attuale assetto giuridico impone di considerare il convivente quale protagonista dello statuto penale della famiglia.

Come detto, l'art. 384 c.p., nel prevedere la non punibilità del soggetto che commetta il fatto per salvare se stesso ovvero in ausilio del prossimo congiunto, non definisce il significato di prossimo congiunto, la cui disciplina si rinviene nell’art. 307 c.p. Quest'ultima disposizione, tuttavia, nell'elencare agli effetti della legge penale coloro i quali possono considerarsi prossimi congiunti,  non menziona il convivente; ne conseguirebbe l’inapplicabilità, da un punto di vista puramente letterale, dell’art. 384 c.p. a questi[15].

Sulla base del mancato richiamo al convivente dell’art. 307 c.p., la giurisprudenza maggioritaria ha sempre escluso l’applicabilità dell’art. 384 c.p. a quest’ultimo e, secondo quanto affermato dalla Corte in tale pronuncia, il presente orientamento sfavorevole può considerarsi granitico[16].

Del resto l’estensione dell’art. 384 c.p. al convivente non potrebbe neppure avvenire per mezzo di un’interpretazione analogica, rilevando, sul punto, il divieto di analogia di cui agli artt. 12 e 14 delle Preleggi, nonché art. 1 c.p. Difatti, secondo gli ermellini, l’art. 384 c.p. appartiene alla categoria delle “cause speciali di non punibilità”, iscrivendosi dunque nel novero delle norme eccezionali di stretta applicazione.

Quanto affermato dai giudici di legittimità è stato ribadito anche dalla giurisprudenza costituzionale.

Negli ultimi decenni la Corte Costituzionale è stata chiamata a fare i conti, con una certa regolarità, con il tema della rilevanza da riconoscere alla famiglia di fatto nell’ordinamento penale. Con altrettanta regolarità la Corte si è sempre mostrata restia nell’accogliere le questioni sollevate, preferendo tener ben salda la distinzione tra famiglia legittima e famiglia di fatto.

I giudici costituzionali più volte hanno, così, ritenuto l'art. 384 c.p. pienamente legittimo, sulla base di diverse valutazioni[17].  In senso dirimente, va considerato, a parere della Corte Costituzionale, che la diversità di trattamento si fonda su ragioni costituzionali: mentre l’unione matrimoniale è tutelabile ai sensi dell’art. 29 Cost. che vi appresta protezione diretta, quella para‐famigliare fruisce, per converso, di una tutela indiretta, ricavabile dell’art. 2 Cost.[18] In particolare, l’art. 384 c.p. sottende un bilanciamento tra due diversi valori, effettuato in astratto dal legislatore: la repressione dei delitti contro l’amministrazione della giustizia e l’istituzione familiare. Ciò premesso, l’art. 384 c.p., oltre che norma legittima, appare altresì espressione del principio di coerenza dell’ordinamento: atteso il diverso “peso” costituzionale della famiglia (art. 29 Cost.), rispetto alle unioni para‐ familiari (art. 2 Cost.), solo la famiglia naturale regge il giudizio di comparazione degli interessi in gioco[19].

La sentenza n. 34147/2015 della Corte di Cassazione, nel prendere le distanze da quest'indirizzo pretorio senza, tuttavia, impegnarsi a qualificare giuridicamente la fattispecie prevista dall'art. 384 co 1 c.p., estende analogicamente detta norma anche al convivente, chiarendo, peraltro, che tale estensione analogica si fonda su un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma penale alla luce della mutata sensibilità sociale rispetto al concetto di famiglia. Infatti, come evidenziato dalla Suprema Corte, la famiglia di fatto è oggetto di crescente attenzione da parte del legislatore e la stabilità del vincolo non è più valorizzabile alla stregua di caratteristica esclusivamente propria della famiglia naturale, come predicato dai giudici costituzionali. In tal senso, viene altresì richiamata l'interpretazione fornita dalla Corte EDU dell'art. 8 CEDU sul diritto al rispetto della vita privata e familiare e, in particolare, sul concetto non statico ma dinamico di famiglia, quale formazione sociale in divenire.

Per meglio comprende la struttura dell’art. 384 c.p., la seconda Sezione riporta, altresì, alcuni arresti giurisprudenziali riguardanti istituti simili. Nello specifico, l’indagine ermeneutica si sofferma sul disposto dell’art. 649 c.p., a tenore del quale non è punibile chi ha commesso taluni delitti contro il patrimonio, quando perpetrati in danno di specifici soggetti, appartenenti al circuito famigliare del reo, tra i quali il coniuge non legalmente separato, l’ascendente o il discendente. Inoltre, il secondo comma della norma prevede la punibilità a querela della persona offesa dei suindicati delitti, se commessi in danno del coniuge legalmente separato [20].

Così come per l’art. 384 c.p., la giurisprudenza tradizionale ha ritenuto a lungo inapplicabile la norma in esame al convivente, atteso che, proprio come per l'art. 384 c.p., anche nell'art. 649 c.p. manca la menzione della figura del convivente medesimo[21].

La soluzione sostenuta della Corte con la sentenza n. 34147/2015  è stata salutata da molti con favore e va, peraltro, ritenuta coerente con la sentenza della medesima Corte di Cassazione n. 39480/2015 con cui era stato esteso l'art. 649 c.p. al convivente more uxorio. Sotto tale punto di vista va, infatti, considerato che, se la Corte ha consentito l'applicazione del procedimento analogico a quella che è ritenuta, come detto, una pacifica causa di non punibilità in senso stretto, pur trattandosi di una norma eccezionale, non si vede la ragione per escludere l'analogia rispetto all'art. 384 c.p. di cui si riconosce la natura di scusante, tenuto conto che per le scusanti, viceversa, non si pone uno stretto problema di estensione in via analogica.

4. Le novità introdotte dalla l. 76/2016 (cosiddetta Cirinnà)

Con la legge Cirinnà n. 76/2016 il legislatore ha sancito una tappa importante nell’evoluzione del concetto di famiglia nell’ordinamento italiano, rimasto fino a quel momento ancora qualche passo indietro rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, introducendo i nuovi istituti delle unioni civili e delle convivenze di fatto[22].

Come tutte le novità legislative di forte impatto, gli effetti prodotti dalle stesse non possono che riverberarsi sull’intero ordinamento, tant’è che, nonostante la legge Cirinnà possegga un’ontologica valenza civilistica, plurime sono, in ogni caso, le conseguenze derivanti da tale riforma finanche in ambito penale, sia sul piano sostanziale sia su quello processuale[23].

Per vero, all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, nel silenzio del legislatore, la dottrina penalistica si è interrogata su quale potesse essere la linea interpretativa da seguire in materia di convivenza, richiamando all’uopo una norma di portata generale ivi contenuta, nella convinzione che la stessa potesse assurgere a parametro utile per tale attività, ossia l’art. 1, comma 20 l. 76/2016 il quale prevede testualmente che: «Al solo fine di assicurare l'effettività della tutela dei diritti ed il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra le persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenente le parole “coniugi”, “coniuge” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti avente forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso».

In effetti, la legge in commento nulla ha statuito per i conviventi sul piano della disciplina penale, limitandosi a disporre all'art. 1 co 38 che: "I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario".

5. Le novità apportate dal d.lgs. 6/2017 attuativo della legge Cirinnà nell'ordinamento penale

Consapevole delle esigenze di tassatività e determinatezza dell'ordinamento penale, nell'esercizio di una ampia delega legislativa contenuta nella l. 76/2016, con il d.lgs. 6/2017 il legislatore è intervenuto al fine di coordinare l’ordinamento penale (sostanziale e processuale) con la disciplina delle unioni civili [24].

Il “rimaneggiamento” di numerose disposizioni penalistiche in varia guisa connesse alla nozione di famiglia effettuato con quest'intervento normativo ha dato nuova linfa al dibattito sul ruolo delle relazioni affettive nella legislazione penale, ridestando il mai sopito senso di insoddisfazione degli interpreti nei confronti di un quadro normativo refrattario ad adeguarsi ai sempre più frequenti moti di cambiamento che agitano il tessuto sociale in quest'ambito.

Il decreto legislativo in commento, infatti, nonostante la trasversalità delle modifiche apportate, non costituisce nulla di più che un provvedimento di raccordo con la disciplina delle unioni civili, come ammesso, peraltro, dall’onesta denominazione del medesimo, né cristallizza una rimeditazione complessiva del diritto penale familiare. Con tale decreto, in effetti, il Governo si è mostrato attento anche agli effetti penali derivanti dall’ingresso nel nostro ordinamento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, perseverando, tuttavia, nel suo silenzio quanto alla disciplina delle convivenze.

Nell’ambito del d.lgs. n. 6/2017, nello specifico all’art. 1, lett. a), il legislatore ha modificato la definizione di “prossimo congiunto” agli effetti penali, di cui all’art. 307, co. 4 c.p., ritenendo opportuno inserirvi anche la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, con conseguenze di non poco momento quanto ai risvolti penalistici in termini di effetti in bonam e in malam partem[25].

Preliminarmente, appare necessario osservare l’eventuale anomalia della tecnica d’incriminazione contenuta nella legge Cirinnà e nel successivo decreto attuativo n. 6/2017: se l’intento del legislatore era, infatti, quello di richiamare anche le disposizioni del codice penale dettate a tutela della famiglia e delle persone (con riferimento alle disposizioni penali contentini i termini coniuge o equivalenti), è necessario innanzitutto domandarsi se tale tecnica sia coerente con il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., ovvero se tale modalità di normazione non si traduca, piuttosto, in un esercizio di applicazione analogica, espressamente vietata dagli artt. 12 e 14 delle Preleggi, nonché dall'art. 1 c.p.

Quanto agli effetti in malam partem, a titolo esemplificativo, sarebbero applicabili tanto le norme dettate nell’ambito dei delitti contro la famiglia, quanto quelle concernenti i delitti contro la persona: reati come la bigamia, la violazione degli obblighi di assistenza familiare, i maltrattamenti in famiglia, l’omicidio aggravato dalla circostanza di cui all’art. 577 comma 2 c.p. dovranno, così, ritenersi applicabili anche agli uniti civilmente e, nel silenzio del legislatore, ai conviventi nella misura in cui assicurino l’effettività della tutela dei diritti di cui all’art. 1 comma 20 l. 76/2016.

Tra gli effetti in bonam partem di tale modifica, invece, viene senza dubbio in rilievo la causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p., pacificamente oggi riferita anche alle parti dell’unione civile[26]. Più precisamente, il decreto in esame ha modificato l'art. 307 c.p. che, come detto, contiene la definizione di prossimi congiunti richiamata anche dall'art. 384 c.p., di tal che la causa di non punibilità prevista da quest'ultima disposizione è, oramai, testualmente estensibile anche all'unito civilmente.

Si ritiene, pertanto, alla luce di quanto sinora esposto, che la causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. sia pacificamente invocabile dalla parte di un’unione civile.

Nel perseverante silenzio normativo, rimangono, invece, aperte le questioni sulla estensibilità della stessa norma al convivente di fatto, atteso che il legislatore non si è preoccupato di adeguare e coordinare l’ordinamento penale rispetto a tale formazione sociale.

In una lettura restrittiva dell'art. 384 c.p. e fondata sul mero dato letterale rimarrebbe, dunque, esclusa l’estendibilità al convivente more uxorio, con la conseguenza, tuttavia, di dar luogo ad un trattamento non certo ispirato al principio di uguaglianza, non solo rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, ma vieppiù rispetto all’unione civile.

A giudizio di chi scrive, va tuttavia considerato che, nel nostro ordinamento penale, preclusa l'analogia in malam partem, è, tuttavia, certamente ammessa quella in bonam partem[27]: ne consegue che l'estensione della scusante di cui all'art. 384 c.p. anche al convivente, realizzando un effetto in bonam partem e quindi estendendo l'ambito di liceità penale, va, senza dubbio, sostenuta con forza, anche alla luce della mutata sensibilità sociale in rapporto alle nuove famiglie esistenti, culminata nei predetti interventi normativi della l. 76/2016 e del d.lgs. 6/2017.

Del resto, il decreto attuativo in commento ha invero novellato anche l’art. 649 c.p. che, come detto, costituisce causa di non punibilità posta a chiusura del complesso di reati offensivi del patrimonio, sulla quale in più occasioni si è soffermata la giurisprudenza[28].

Per vero, così come per l'art. 384 c.p., per lungo tempo la suprema Corte ha escluso l'estensione di tale istituto ai conviventi more uxorio, muovendo dalla eccezionalità di tale causa di non punibilità e dalla differenza tra il matrimonio e tale situazione di fatto[29].

Di recente, tuttavia, il giudice delle leggi, ha incidenter tantum definito la norma in commento come anacronistica[30]. In sostanza, con tale pronuncia la Corte costituzionale, pur confermando i suoi limiti, ha osservato che una causa di non punibilità di tal fatta non risponde più ad attuali esigenze di tutela, tenuto conto delle numerose evoluzioni normative in tema di matrimonio.

Nel solco di tale svolta interpretativa, il legislatore ha, allora, inserito nell’art. 649 c.p. il comma 1 bis, attraverso il quale ha esteso il regime della non punibilità e della necessità della querela anche alla «parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso», a prescindere dalla condizione di coabitazione tra i due soggetti[31].

Anche in questo caso, tuttavia, il legislatore ha continuato a mantenere il silenzio in ordine al regime di punibilità del convivente. Tuttavia, come spiegato, gli interpreti hanno nel tempo esteso questa disposizione normativa, ritenuta pacificamente causa di non punibilità in senso stretto, anche al convivente.

Sulla base di ciò, se l'art. 649 c.p. è stato ritenuto applicabile anche al convivente, ancorché causa di non punibilità in senso stretto di cui è tendenzialmente esclusa l'analogia, non si vede per quale ragione non possa a fortiori reputarsi invocabile anche l'art. 384 c.p. da parte del convivente, pur nel perdurante silenzio normativo sul punto, atteso che tale disposizione normativa viene inquadrata tradizionalmente nell'ambito delle scusanti, per le quali un problema di estensione analogica si pone in misura senza dubbio minore rispetto alle cause di non punibilità in senso stretto.

6. Disciplina delle convivenze di fatto e delle unioni civili e diritto penale alla luce della riforma

Fatte queste doverose premesse, è opportuno ora accertare in che termini la legge Cirinnà e il d.lgs. 6/2017 abbiano ridisegnato i contorni della famiglia di rilevanza penalistica, per verificare se la fisionomia che ne è derivata sia suscettibile di collegarsi proficuamente alle cangianti istanze di tutela della società odierna.

Com’è noto, la legge 76/2016 – impattando sul sistema civilistico con una profondità equiparabile alla riforma del 1975 e a quella sulla filiazione del 2012 – conferisce alle coppie omosessuali il diritto di contrarre un’unione civile, così attribuendo ad esse, per la prima volta, un riconoscimento normativo ufficiale.

Pertanto, il legislatore non ha tutelato il diritto alla vita familiare dei partner dello stesso sesso aprendo anche ad essi l’istituto matrimoniale – opzione ritenuta dalla Consulta non costituzionalmente praticabile – ma, tramite la tecnica del rinvio, si è estesa ai soggetti uniti civilmente gran parte della disciplina dei rapporti coniugali.

Il dato immediatamente registrato in chiave critica dalla dottrina penalistica, cui senz'altro si aderisce, è la pressoché totale assenza di riferimenti, tanto nella legge Cirinnà quanto nel decreto delegato, alle convivenze di fatto. Come detto, la convivenza è contemplata, infatti, dal solo art. 1 co. 36 l. 76/2016. La nuova previsione – si è tuttavia rilevato – ha un significato eminentemente simbolico, giacché l’ordinamento penitenziario aveva già in molti casi previsto una parificazione tra le due figure.

7. Note conclusive

La predetta opzione normativa, sostanziandosi in una deliberata pretermissione del convivente, conferma un’impressione già avvertita all’indomani dell’emanazione della legge Cirinnà, ossia che il legislatore abbia inteso deliberatamente distinguere la posizione dell’unito civilmente da quella del convivente, conferendo a tale ultimo status una tutela meno pregnante.

In rapporto al delineato quadro normativo due sono le soluzioni astrattamente predicabili: in primo luogo, si potrebbe interpretare il perdurante silenzio del legislatore penale in materia di convivenza come volontà di non consentire l'estensione anche al convivente more uxorio degli effetti positivi che l'ordinamento ha ricollegato all'unito civilmente e, segnatamente, dell'art. 384 c.p.

All'opposto, si potrebbe sostenere che una siffatta disparità di trattamento sia comunque colmabile attraverso un’interpretazione evolutiva, legata al contesto storico e sociale attuale, molto più incline rispetto al passato al riconoscimento di nuove forme di famiglia, cambiamento del quale il giudice penale non può non tener conto nella sussunzione delle norme penali al caso concreto.

Quest'ultima opzione interpretativa pare, a giudizio di chi scrive, preferibile, se si aderisce a quell'impostazione che riconosce al divieto di analogia in materia penale una funzione positiva e portata relativa.

In conclusione, spetterà, ancora una volta, all'interprete operare una valutazione costituzionalmente orientata dell' art. 384 c.p., onde estenderne l'ambito di liceità anche ai conviventi.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Valga, infatti, considerare le cause di esclusione della colpevolezza sono previste in varie parti del codice penale.
[2] Si considerino per esempio l'art. 649 c.p., le immunità e il neo introdotto art. 131 bis c.p.
[3] Peraltro, le scriminanti sono, piuttosto, spesso difficilmente distinguibili dalle cause di non punibilità in senso stretto (spesso la legge parla genericamente di "casi di non punibilità"), presupponendo, entrambe un conflitto d'interessi che però nelle cause di non punibilità in senso stretto viene risolto a monte dal legislatore escludendo la punibilità.
[4] Per un approfondimento si rinvia a F. MANTOVANI, Diritto Penale, Cedam, 2015 pp. 361 ss.
Rileva G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VI Edizione, Zanichelli, 2014, pp. 408-409 che: "al principio di inesigibilità si intenderebbe attribuire la funzione di "valvola che permette ad un sistema di norme di respirare in termini umani". E' questa una chiara ammissione del carattere "aperto" e "analogico" che si vuole assegnare al criterio in esame, come tale potenzialmente idoneo a operare anche quale canone extra-legislativo di giudizio, cioè come categoria valida ad escludere la colpevolezza pure in ipotesi non espressamente previste dalla legge, purché meritevoli di essere prese in considerazione dall'ordinamento giuridico". Tuttavia, gli autori concludono che, nonostante le forti suggestioni legate all'idea di utilizzare una categoria capace di rendere più elastiche e umane le regole formali che presiedono all'imputazione penale, è da escludere che l'inesigibilità possa assumere un ruolo scusante, rischiando la stessa di risolversi in una clausola vuota, inidonea ad indicare i criteri che dovrebbero presiedere alla soluzione dei diversi casi concreti.
[5] Si pensi per esempio alla scusante ipotizzata per escludere l'antigiuridicità della condotta del medico che, stanco a causa del faticoso turno di lavoro, si rifiuti di recarsi a visitare un paziente.
[6] Anche dette esimenti originarie, esse si distinguono dalle esimenti sopravvenute o cause di estinzione del reato di cui agli artt. 297 ss. c.c. In particolare, con le cause di non punibilità in senso stretto il legislatore esclude la punibilità di determinate condotte per ragioni di mera convenienza o di opportunità. Poiché esse, dunque, rispondono a rationes eterogenee, è rispetto ad esse tradizionalmente esclusa l'analogia la quale è invece ammessa, entro certi limiti, per le cause di giustificazione che invece rispondono a principi generali e unitari dell'ordinamento giuridico.
[7] Cass., Sez. II Pen., 7 gennaio 2016 n. 14520.
[8] Cass., Sez. VI Pen., 14 maggio 2013, n. 42818.
[9] Per tale impostazione dottrinale M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti e cause di non punibilità in senso stretto, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990, pp. 61 ss.; A. Crespi, Falsa testimonianza e possibilità di astensione dalla deposizione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1952, pp. 675 ss.; G. Maglio, F. Giannelli, Problematiche inerenti alla struttura e alla portata dell'art. 384 c.p., in Riv. pen. 1997, pp. 673 ss; G. M. Flick, L'esimente speciale dell'art. 384 comma 1 c.p. e l'aggravante generale dell'art. 61 n. 2 c.p. nel delitto di falsa testimonianza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1964, pp. 218 ss.
[10] Un'opinione dottrinale, per vero minoritaria, muovendo dal presupposto che le cause di inesigibilità codificherebbero il principio di carattere non eccezionale del nemo tenetur se detergere, ritiene che già allo stato della legislazione sia consentito pervenire ad un'interpretazione analogica dell'art. 384 co 1 c.p., facendo leva, in particolare, sul carattere non eccezionale di tale norma, siccome riconducibile ad un principio generale. Per tale opinione A. MANNA, L'art. 384 c.p. e la famiglia di fatto: ancora un ingiustificato diniego di giustizia da parte della Corte Costituzionale?, in Giur. cost., 1991, pp. 93-94.
[11] Cass., Sez. VI Pen., 28 settembre 2006 n. 35957; Cass., Sez. II Pen., 17 febbraio 2009 n. 20827; Cass. Sez. II, n. 44047 del 2009; Cass., Sez. V Pen., 22 ottobre 2010 n. 41139; Cass., Sez. VI Pen., 25 febbraio 2014, n. 16121.
[12] Cass. 34147/2015.
[13] La sentenza in esame chiude il “caso Infinito”, procedimento particolarmente articolato, che tratta diverse questioni di diritto. L’imputata, condannata in primo e secondo grado per favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), avendo aiutato il suo partner convivente ad eludere le investigazioni dell’autorità procedente, ricorreva in Cassazione, lamentando la mancata applicazione dell'art. 384 c.p. che, secondo la tesi difensiva, si applicherebbe anche alle ipotesi di favoreggiamento-mendacio in favore del convivente more uxorio.
[14] Sul punto, in particolare, G. Marinuncci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffré Editore, 2015 p. 77.
[15] Va, tuttavia, sottolineato che il comma secondo dell'art. 384 c.p. conferisce rilievo, sia pure indirettamente, ai conviventi. Convive, pertanto, nella stessa norma la mancata considerazione dei conviventi per alcuni fini (non punibilità prevista dal primo comma) e la loro considerazione per altri (non punibilità prevista dal secondo comma), ciò che da taluno è stato definito la punta dell'iceberg dell'incoerenza dello statuto penale in materia di famiglia di fatto.
[16] In tal senso, particolarmente rilevante sembrerebbe essere la sentenza della Corte di Cassazione n. 35067/06, perché idonea a fornire uno spaccato del dibattito giurisprudenziale. La pronuncia, ritenendo non applicabile l’art. 384 c.p. al convivente, chiarisce che tale mancata applicazione sia coerente e rispettosa del principio d’uguaglianza sostanziale, attesa la profonda diversità del rapporto coniugale da quello di convivenza. Quanto detto chiude la strada ad ogni tipo di meccanismo estensivo.
[17] In via preliminare, una eventuale soluzione estensiva richiederebbe una pronuncia additiva. Nondimeno, ciò non può essere consentito, perché la Corte finirebbe per esercitare potestà discrezionali di monopolio legislativo.
[18] La tesi, invero, è stata sostenuta anche in tempi recentissimi. Con la pronuncia n. 140 del 2009, il Giudice delle Leggi ha ribadito la diversa natura costituzionale delle due forme di unione, che non può non riflettersi nell’esimente in questione.
[19] Le pronunce costituzionali richiamate sono state, tuttavia, severamente criticate da una parte della dottrina cui l'approccio del giudice delle leggi è sembrato ancorato ad una concezione del paradigma familiare non più in linea con l'epoca contemporanea, caratterizzata da un'indiscutibile rilevanza sociale della famiglia di fatto. Si è, in particolare, contestata l'affermazione secondo cui un intervento additivo sarebbe precluso alla Corte siccome espressione di un'inammissibile ingerenza nelle scelte politico-criminali del legislatore, rilevandosi che ciò potrebbe privare di contenuti effettivi il sindacato sulla ragionevolezza delle norme.
[20] L'art. 649 c.p., quale norma di chiusura in materia di delitti contro il patrimonio, esclude la punibilità di alcuni delitti contro il patrimonio ed impone un doppio regime a seconda dell'intensità del vincolo di parentela che lega l'autore del reato al soggetto passivo (non punibilità o punibilità a querela della persona offesa).
a norma è generalmente (anche se non mancano opinioni in altro senso) intesa quale causa di non punibilità in senso stretto: il legislatore del '30 ha ritenuto di bilanciare l'interesse alla punizione statuale dei delitti contro il patrimonio con l'interesse alla tutela dell'unità della famiglia; in tale prospettiva, si è ritenuto che la punibilità dei delitti contro il patrimonio commessi in danno di familiari potrebbe minare la stabilità e unità della famiglia medesima, per cui si è ritenuto di rinunciare alla punizione di tali fatti, ritenuti, peraltro, meno offensivi se commessi in ambito familiare. E' stata evidenziata, per giunta, una peculiarità dei rapporti patrimoniali nell'ambito della famiglia che giustificherebbe l'esclusione della punibilità e che è data da una particolare comunanza d'interessi con conseguente confusione di sostanze (come si legge nella Relazione al codice penale).
In ragione della natura giuridica di tale disposizione che, come detto, configura una causa di non punibilità in senso stretto, come tale eccezionale e di stretta interpretazione, l'orientamento maggioritario ne ha sempre escluso l'applicazione analogica al convivente more uxorio e al rapporto di affiliazione (pure non contemplato dalla norma in esame). Infatti, le cause di non punibilità in senso stretto presentano carattere eccezionale che preclude l'estensione del loro ambito applicativo visto che le valutazioni di politica criminale ad esse sottese sono legate alle caratteristiche specifiche della situazione di volta in volta presa in considerazione dal legislatore. Tuttavia, di recente la Corte di Cassazione, sentenza n. 39480/2015, ha esteso la norma in esame anche al convivente more uxorio alla luce dell'evoluzione che ha interessato il concetto di famiglia e riconoscendo che la ratio di tale disposizione sia quella di tutelare non la famiglia in quanto tale ma i vincoli affettivi la cui stabilità è data dalla convivenza. Peraltro, anche la Corte Costituzionale, con sentenza n. 223/2015, rigettando la questione di costituzionalità dell'art. 649 c.p., ha superato il pregresso orientamento che riteneva giustificata la disparità di trattamento del convivente more uxorio in ragione del fatto che la famiglia di fatto manca dei caratteri di stabilità propri del vincolo coniugale. Nella sentenza la Corte ha evidenziato che la norma, che rientra nell'ambito delle cosiddette norme penali di favore, fonda una disciplina anacronistica alla luce dell'evoluzione sociale in materia di famiglia; tuttavia, spetta al legislatore effettuare un nuovo bilanciamento degli interessi coinvolti dalla disciplina in esame.
[21] La vicenda è trattata diffusamente dalla sentenza della Cassazione n. 34339/05, con cui gli ermellini qualificano l’istituto come causa di non punibilità, basata sul bilanciamento tra contrapposti interessi: repressione illeciti penali‐valore unità della famiglia.
[22] In particolare, la legge ha introdotto una espressa definizione di convivenza. Prescindendo dal discutere dell'aporia normativa in cui è caduto il legislatore il quale continua a parlare di convivenza "di fatto", pur introducendo una espressa regolamentazione normativa del fenomeno della convivenza, va evidenziato che all'art. 1 co 36 è stato espressamente previsto che: "Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile".
[23] Così G.L. Gatta, Unioni civili tra persone dello stesso sesso e convivenze di fatto: i profili penalistici della Legge Cirinnà, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 11 maggio 2016.
[24] L’art. 28 co. 1 lett. c l. 76/2016, sulla base del quale è stato adottato il decreto in esame, facendo salve tutte le disposizioni della legge, consentiva al Governo di adottare entro sei mesi dall’entrata in vigore «uno o più decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: […] c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti».
Stante la limitazione dell’oggetto della delega alla sola materia delle unioni civili, nel decreto delegato un intervento sulle convivenze di fatto risultava precluso e il Governo non ha potuto che legiferare esclusivamente con riferimento alle coppie omosessuali. Da parte di G.L. Gatta, Unioni civili tra persone dello stesso sesso: profili penalistici. Nota a margine del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, si segnala che lo schema di decreto delegato appare eccedere i limiti della delega legislativa, nella misura in cui l'equiparazione delle parti dell'unione civile ai coniugi non risponde al vincolo teleologico di cui all'art. 1 co 20 della l. 76/2016, cioè al solo fine di tutelare i diritti e rafforzare gli obblighi derivanti dall'unione civile. Emblematici, in tal senso, risultano i casi dell'abuso d'ufficio e dell'aggravante dell'omicidio.
[25] Quanto agli effetti in malam partem, invece, già nella relazione illustrativa il Governo ha posto l’accento sulla possibilità che dall’estensione della definizione del concetto di prossimi congiunti derivi la punibilità per il reato di abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 c.p. dell’unito civilmente che non si sia astenuto nonostante la ricorrenza di un conflitto di interesse.
[26] In più, nell’ambito del medesimo decreto attuativo, all’art. 1, lett. b, si prevede l’introduzione nel corpo del codice penale del nuovo art. 574 ter, che parifica, agli effetti della legge penale, il termine “matrimonio” alla “unione civile” e il termine “coniuge” a quello di “parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”, laddove il codice vi faccia riferimento come elemento costitutivo del reato ovvero come circostanza aggravante.
[27] Quanto al problema della portata, assoluta o relativa, del divieto di analogia in materia penale, si è passati dall'intendere questo divieto in senso assoluto, quale stretto corollario della tassatività e della legalità formale in materia penale, a temperarne la portata in senso relativo. Si riconosce, così, il divieto di analogia delle sole norme che vanno a sfavore del reo (analogia in malam partem), mentre si consente l'interpretazione analogica in bonam partem. Sotto questo profilo, si attribuisce al divieto di analogia in parola una funzione negativa di minore limitazione della libertà possibile ed una funzione positiva di maggiore estensione possibile della liceità penale. Sul punto si rinvia a F. MANTOVANI, op. cit., pp. 74 ss.
[28] Nell’ambito di questa opera di armonizzazione del sistema, si è intervenuti anche sull’art. 649 c.p. introducendo il comma 1-bis attraverso il quale si è prevista la non punibilità nel caso in cui i fatti di cui alla norma siano commessi “in danno della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.
Di recente, con l'ordinanza del 21 aprile 2017 n. 105, il Tribunale di Matera ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui non stabilisce la non punibilità anche dei fatti criminosi previsti dal titolo XIII del libro II del codice penale commessi in danno di un convivente more uxorio. In aggiunta ai profili di illegittimità costituzionale già in passato più volte sottoposti alla Corte Costituzionale – per i quali si rinvia alla lettura dell’ordinanza – il provvedimento merita attenzione per gli spunti relativi alla recente regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Proprio il paragone tra le unioni civili tra persone dello stesso sesso (oggi ricomprese nell’art. 649 c.p.) e la convivenza more uxorio (che ne risulta, invece esclusa), ad avviso del giudice a quo dovrebbe spingere la Corte Costituzionale ad effettuare una nuova valutazione della questione che tenga conto «dell’attuale realtà sociale, senza alcun dubbio profondamente mutata rispetto a quella esistente ed esaminata dal Legislatore storico, nell’ottica di un’esegesi in sintonia ed al passo con i tempi dello stesso concetto costituzionale di famiglia». Questa nuova valutazione si rende necessaria – a maggior ragione – «all’indomani dell’entrata in vigore della legge sulle unioni civili, costituenti il complesso portato ed agognato punto di approdo della presa d’atto di un mutato costume sociale e dell’esistenza di nuclei familiari ontologicamente diversi dalla classica famiglia fondata sul matrimonio, ma nondimeno connotati, in punto di fatto, da una affectio e da una comunanza di vita e di intenti tra i propri componenti». In conclusione – si legge nell’ordinanza – si ritiene «irragionevole, irrazionale e gravemente discriminatorio l’attuale assetto di disciplina tra il trattamento dei reati commessi in danno di coniuge non legalmente separato o di una parte di una unione di persone dello stesso sesso (non punibili ex art. 649 c.p.) e quelli commessi in danno di convivente more uxorio (punibili perché non applicabile l’art. 649 c.p.)».
[29] Cass. Sez. II Pen., n. 44047/2009.
[30] Corte Cost. n. 223/2015. Nella sentenza la Corte spiega che il bilanciamento tra l'interesse alla repressione dei delitti indicati e quello alla tutela di beni afferenti la vita familiare è compiuto dal legislatore penale in modo che il grado della protezione in parola sia direttamente proporzionale all'intensità della relazione esistente tra il reo e la persona offesa: facendosi così corrispondere la non punibilità dell'autore al reato commesso in danno dei familiari diretti e rimettendosi, invece, alla vittima la decisione sull'attivazione della reazione penale in caso di reati commessi nei confronti di congiunti meno stretti. La Corte rievoca, altresì, le ragioni comunemente addotte a fondamento della scelta compiuta dal legislatore alla base dell'art. 649 c.p.: a parte la pericolosità asseritamente meno intensa di chi delinque in ambito familiare, si evidenzia, in genere, il rischio che le indagini necessarie all'accertamento del reato e la successiva punizione del responsabile provochino danni alla qualità della relazione familiare maggiori di quelli derivanti dalla mancata punizione del fatto. Viene prospettata, per altro verso, una peculiarità dei rapporti patrimoniali interni alla famiglia che si sostanzierebbe in una specie di "confusione di sostanze, di comune destinazione dei beni per piena comunicazione dei diritti, per continuazione di personalità, per necessaria società di vita", in sintesi una comunanza di interessi che legittimerebbe, all'interno della famiglia, un assetto di protezione dei diritti sul patrimonio diverso da quello ordinariamente vigente.
[31] Condizione questa, per converso, evocata nel primo testo originariamente trasmesso alle Camere ed eliminata per scongiurare la paventata disparità di trattamento con il coniuge, per il quale tale presupposto non è affatto richiesto dalla norma.