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Pubbl. Mar, 26 Dic 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

Recesso e risoluzione nel contratto pubblico di appalto

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Irene Coppola


Il recesso e la risoluzione sono due istituti tipici del diritto civile e questo lavoro è una riflessione sull´operatività delle fattispecie in ambito non solo civilistico, ma anche pubblicistico, con particolare riferimento alla categoria dei contratti pubblici e dell´appalto pubblico.


ENG The termination and the dissolution are two typical institute of private law and this work is a reflection on the efficiency of them in public sphere, with particular reference to public contracts.

I deboli vogliono le leggi, i Potenti le ricusano;
gli ambiziosi, per farsi seguito, le promuovono;
i Principi, per uguagliar i Potenti co' deboli, le proteggono
.
G.B. VICO

SOMMARIO:  1. Introduzione; 2. Il paradigma giuridico dell'autotutela; 3. Il recesso, facoltà, diritto e potere: dal diritto civile al diritto amministrativo; 4. Il recesso nei contratti pubblici, tra vecchio e nuovo codice; 5. La risoluzione  strumento in  autotutela;  6. La risoluzione del contratto  pubblico di appalto  nella nuova compagine normativa del codice del 2016; 7. Natura giuridica  ed impugnazione  del  recesso e della risoluzione della amministrazione pubblica; 8. I principi della diritto pretorio amministrativo e civile;  9. Una riflessione conclusiva: atti con una doppia anima.

1. Introduzione

I contratti pubblici ed i contratti di appalto pubblico costituiscono uno dei temi più delicati e complessi, oggetto di profonda attenzione e riflessione, in ragione degli interessi e degli obiettivi da raggiungere di ampia ricaduta sul sociale, soprattutto in considerazione dei costi che spesso gravano in materia di appalti pubblici.

Dal Regio Decreto del  1923 n. 2440 (legge sulla contabilità pubblica), alla legge Merloni dell'11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici) nella sua formulazione  bis ter quater, al D. Lgs. 163 del 2006 e fino al Dlgs n. 50/2016, di espressa deriva europeista, il legislatore italiano ed il normatore europeo, sono intervenuti nella contrattualistica pubblica, per  realizzare un micro sistema fortemente impattante con il tessuto sociale, dotato di flessibilità e di non pochi profili sostanzialistici,  introducendo i nuovi istituti dei requisiti di partecipazione, del soccorso istruttorio, del contratto di avvalimento, al fine di meglio adeguare la gara alla scelta di un contraente virtuoso e adempiente.

Centrale la figura dell'ANAC (Autorità Nazionale Anti Corruzione) per affrontare i problemi legati alla crescente corruzione nei pubblici uffici e nella gestione, in particolare, degli appalti pubblici.

Di certo una normativa interessante che, in molti punti, offre spunti di ragionamento su istituti che hanno una doppia anima, sia civilistica che pubblicistica.

Di particolare interesse è la figura dell'autotutela della amministrazione pubblica con l'opportuno e necessario  esame degli istituti del recesso e della risoluzione nell' ambito della  contrattualistica pubblica.

Il punto più delicato afferisce all'esercizio di atti di natura privatistica da parte della Pubblica Amministrazione  nella fase non solo di stipulazione del contratto, ma soprattutto in quella di esecuzione dello stesso negozio.

L'utilizzo di istituti di diritto civile, come il recesso o la risoluzione, (oppure della revoca o dell'annullamento), fa molto riflettere perché, anche quando l'amministrazione pubblica agisce ed opera iure privatorum, in veste di contraente privato, (nella fase esecutiva  del contratto), la sua attività e la sua posizione contrattuale (differenziata) assumono caratteristiche e profili tali da non poter escludere ed accantonare la veste pubblica, a detrimento di una effettiva parità tra i  contraenti.

La scelta di recedere o di risolvere un contratto accende il dibattito sulla natura contrattuale o pubblica  di questo potere.

E la differenza non è di poco momento.

Incide sulla configurazione della posizione giuridica lesa e sulla giurisdizione connessa.

2. Il paradigma giuridico dell'autotutela.

"L'autotutela è quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa Pubblica Amministrazione provvede a risolvere i conflitti potenziali o attuali, insorgenti con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti od alle sue pretese"[1]

In altri termini, nella pubblica amministrazione il potere di autotutela (ius poenitendi) è garantito ad ogni Ente pubblico, o altro organo  stabilito dalla legge, in ordine alla possibilità di risolvere autonomamente (ovvero senza il ricorso al potere giurisdizionale) un conflitto di interessi attuale o potenziale con i destinatari dei provvedimenti ed, in particolare, di sindacare la validità dei propri atti producendo effetti incidenti sugli stessi, nell'ambito della più ampia e sensibile tutela dell'interesse pubblico.[2]

Solitamente l'autotutela viene distinta in autotutela decisoria o provvedimentale, quando l'amministrazione può intervenire con un atto cosiddetto di secondo grado su dei precedenti provvedimenti adottati ed  in autotutela esecutiva, nel caso in cui l'amministrazione dà effettiva attuazione a provvedimenti già emanati.

L'autotutela si esprime, in diritto pubblico, con il  potere di revoca, di sospensione, di proroga, di rimozione degli effetti dell'atto, di annullamento o convalida dell'atto stesso  e dei suoi effetti con valenza ex tunc, ovvero, ancora,  con la riforma, la sanatoria, la ratifica e rinnovazione   produttive  di  effetti ex nunc.

L'autotutela assume diversi profili: a) autotutela  spontanea; b) autotutela necessaria; c) autotutela  contenziosa.

Le origini storiche dell'istituto dell'autotutela si  ricollegano allo Stato assoluto[3] tipica forma di governo accentrata, caratterizzata dalla capacità di intervenire, sempre e comunque,  per risolvere una serie di vicende, senza dover ricorrere ad altra autorità.

Lo Stato assoluto ha portato, poi, ad una forma di governo accentrata.

L'assolutezza dello Stato, difatti, convogliava nelle mani della stessa autorità centrale tutti i poteri: legislativo, amministrativo, giurisdizionale. 

Dalle matrici storiche legate ad una concezione statuale di tipo superiore e supremo, impositivo senza grandi dialoghi con i cives, l'autotutela nello Stato moderno di diritto, assume contorni diversi e costituisce un'eccezione al principio enunciato dall'articolo 2907 c.c. secondo cui la tutela dei diritti è affidata all'attività giurisdizionale.

In effetti, allo stato dell'arte, l'autotutela è una figura di rilevante importanza sostanzialistica perché consente ad una pubblica amministrazione di intervenire su di un proprio atto (rimodulandolo) al fine di confezionare un prodotto sempre più rispondente all'interesse pubblico.

Nessuno più dell'amministrazione (soggetto autore) è in grado di operare interventi in autotutela, con atti di revoca, caducazione o annullamento di provvedimenti illegittimi o inopportuni, o con l'utilizzo delle figure del recesso o della risoluzione, quando si tratta di adeguare la condotta amministrativa ad esigenze pubblicistiche nella totale e completa salvaguardia   dei superiori  interessi pubblici.

La gestione "in proprio" dell'attività pubblica, quando è possibile, finisce con il creare un prodotto meglio adattabile alle esigenze del caso concreto che tenga in debito conto tutte quante le circostanze e gli elementi che  intervengono  sulla fattispecie.   

L'autotutela si informa e si nutre dei principi cardine del diritto amministrativo e del più generale diritto pubblico: il principio di buon andamento dell'attività amministrativa, il principio di trasparenza, il principio di legalità, il principio di efficienza, il principio di economicità, il principio di coerenza amministrativa, il principio di proporzionalità, il principio di adeguatezza, il principio di motivazione degli atti amministrativi.   

Senza  autotutela  i  succitati  principi  non  avrebbero  sostanza.

Il mutare di circostanze, interessi, situazioni, esigenze, il dinamico divenire degli eventi, richiede interventi tempestivi e "cuciti addosso" che solo l'autotutela può assicurare, autotutela che si attiva ex officio o su sollecitazione ab externo.

In sostanza, l'autotutela è un riesame, un ripensamento, "un ritornare sui fatti", una nuova valutazione delle circostanze e degli interessi; è un'accuratezza dell'attività amministrativa, un momento di riflessione ulteriore nella concretezza del raggiungimento di un risultato utile.

Essa, dunque, nel senso spiegato, non è  mero  potere pubblico, ma è  e soprattutto un dovere di intervento  su di un atto o su di un provvedimento "nato con qualche deformazione"; è una sorta di intervento chirurgico per sanare l'attività pubblica.

L'autotutela non è cristallizzata un una norma ad hoc, avente valenza generale,  ma  discende dai principi  richiamati  e si sostanzia in essi.

Il primo referente è dato dal principio di legalità di cui all'art. 97 della Carta Costituzionale.[4]

L'osservanza della legge spinge l'amministrazione a caducare e spazzare via un atto viziato dal panorama dell'attività pubblica, in sede di autotutela.

Invalidità di un atto, inopportunità di un atto, lesione di un interesse pubblico,  impongono  il ricorso all'autotutela.

L'importanza dell'autotutela  ha una ricaduta sostanziale come meccanismo deflattivo del processo.[5]

Confezionare un atto sano, impedisce il conflitto e, quindi, il ricorso all'autorità  giurisdizionale.

Il punto più delicato è individuare l'espressione dell'autotutela -nelle forma del recesso e della risoluzione (in ambito civilistico e pubblicistico)- unitamente alla  sua natura (potere negoziale o potere pubblico), fortemente rilevante ai fini della tutela processuale e dell'ottenimento di provvedimenti giustiziali.

Tale riflessione è oggetto di attento esame  nel § 8 di questo saggio.

3. Il recesso, facoltà, diritto e potere, dal diritto civile al diritto amministrativo. Una figura di grande attenzione, espressione di autotutela e di ponderata rianalisi,  è il recesso.

L'inquadramento sistemico del recesso, nell'ambito del diritto civile, è dato dal riferimento all'art.1373 cc nella parte in cui consente lo scioglimento del contratto non solo per mutuo  consenso, ma anche per altre cause previste dalla legge.

Il mutuo consenso è un contratto estintivo [6] e rappresenta la regola; le parti che stipulano un contratto, con un nuovo accordo (un altro contratto) ben possono decidere di scioglierlo e di liberarsi da qualsiasi vincolo.

Un contratto elimina un precedente contratto; trattasi di un'applicazione del principio dispositivo, vero potere delle parti, sottratto ad ingerenze della legge, intesa come intervento esterno al rapporto.

E tale "modalità", ben può  interessare non solo i privati, ma anche un contratto concluso tra una P.A. ed un privato.

Il recesso, invece, che trova la sua più recente evoluzione nei contratti del consumatore[7],  può avere la sua fonte nella legge o in una pattuizione  o convenzione tra le parti.

Il recesso  è un istituto che  non si estrinseca attraverso un contratto, ma, se previsto dalla legge o da una clausola pattizia, consente ad una parte di potersi scioglier dal contratto in modo unilaterale, prescindendo dalla volontà dell'altro soggetto.[8]

Quando il recesso trova la fonte nella legge sussistono obiettivi  e funzioni fondanti: 1) dare un termine ad un contratto di durata; 2) garantire una protezione ad un soggetto più debole dal punto di vista contrattuale;  3) difendersi da vizi originari o sopravvenuti del rapporto negoziale; 4) tutelare la carenza di interesse; 5) recedere da un contratto per l'aggravarsi delle condizioni negoziali.

Ed è in questo ambito operativo che il recesso è una facoltà, un diritto, un potere.  

E' una facoltà perché il titolare può esercitarla  o non esercitarla.

E' un diritto perché rappresenta una posizione giuridica attiva predisposta nell'interesse di un soggetto e tutelata dalla norma.

E' un potere perché può ben essere  fatto valere in modo autoritario ed unilaterale senza necessità della volontà dell'altra parte (anzi) ed anche contro la volontà di  controparte.[9]

In linea generale (sono salvi i patti contrari espressione del potere dispositivo delle parti),  il recesso  da un contratto può essere  esercitato dal contraente  che  ne abbia interesse  finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione; se, trattasi di contratti di durata, il recesso può intervenire ad esecuzione avviata, ma sono salve le prestazioni eseguite.

Come  sopra accennato,  questa regola generale  può  essere stravolta dalla volontà delle parti che hanno pieno potere di decidere  diversamente  per gestire, nel miglior modo  possibile, ovvero  nel modo più adeguato alla soluzione del caso concreto,  i loro rapporti negoziali.

In altre parole l'ampio riconoscimento del potere delle parti di regolare la facoltà di sciogliersi unilateralmente dal contratto[10] consente il pieno sviluppo dell'autonomia negoziale.

Il diritto di pentirsi del contratto rappresenta un diritto espressione dello Stato  civile  e della società moderna.

L'applicazione pratica del recesso si ha con una dichiarazione.[11]

Questa dichiarazione è un negozio unilaterale recettizio  avente  la stessa forma prescritta per il contratto da cui si intende sciogliersi.

Il recesso nel contratto di appalto di diritto privato trova il suo referente nell'art. 1671 cc  il committente può recedere dal contratto....[12]

Questa norma è assolutamente vicina all'istituto del  recesso previsto per il contratto di appalto  pubblico  contemplato nel codice dei contratti pubblici del 2006 ed in quello del 2016.

Il recesso deriva da un sopravveniente difetto di  interesse negoziale e presuppone il pagamento di una sanzione pecuniaria; la risoluzione dal contratto presuppone, invece, valide ragioni derivanti , in generale, dalla cattiva esecuzione delle opere.

In  definitiva, i motivi del recesso sono piuttosto irrilevanti, anche se in campo pubblico occorre sempre e comunque giustificare i costi  e quindi il recesso, anche in mancanza di una espressa previsione, atteso che non può  perfezionarsi  se non con  il sopraggiungere della carenza di interesse pubblico;  per converso nel diritto civile il potere dispositivo delle parti consente una minore giustificazione apparente (per converso, nei casi previsti dalla legge, il legislatore dettaglia  le condizioni del recesso)  

Il recesso trova ambito operativo sia in diritto civile che in diritto amministrativo; in tale sede esso si configura come un vero potere dell'amministrazione  pubblica.

Sul punto, difatti, non può sottacersi che la  pubblica amministrazione, con il passare del tempo, sta implementando sempre di più i suoi poteri in sede di attività contrattuale.

Basti pensare che il recesso e la risoluzione, istituti utilizzabili a carattere generale nei contratti pubblici ed, in particolare,  nel contratto di appalto pubblico, trovano un vero micro sistema applicativo codificato per la prima volta con il codice dei contratti pubblici del 2006.

La veste pubblica sta influenzando sempre di più la sfera contrattuale, come può facilmente evincersi anche con il recentissimo intervento di riforma introdotto con il D.lgvo n. 50/2016.

Difatti l'art. 213 di questa nuovissima normativa di importazione europea, demanda all’ANAC l’autonoma adozione di ulteriori atti a carattere generale finalizzati a offrire indicazioni interpretative e operative agli operatori del settore (stazioni appaltanti, imprese esecutrici, organismi di attestazione) nell’ottica di perseguire gli obiettivi di semplificazione e standardizzazione delle procedure, trasparenza ed efficienza dell’azione amministrativa, apertura della concorrenza, garanzia dell’affidabilità degli esecutori, riduzione del contenzioso.  

Non solo.

La vigilanza e il controllo sui contratti pubblici e l'attività di regolazione degli stessi, sono attribuiti, nei limiti di quanto stabilito dal presente codice, all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) di cui all'articolo 19 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, che agisce anche al fine di prevenire e contrastare illegalità e corruzione.

Consegue che il potere pubblico finisce con l'avere una pervasiva forza di penetrazione sempre più forte nell'assetto  negoziale e, nello specifico, nella contrattazione in cui una parte è un contraente  amministrativo.

Non solo il recesso e la risoluzione vengono esercitate dal contraente amministrazione pubblica con larga diffusione, senza particolari limiti, ma lo stesso assetto del contratto, con il D. lgs n. 50/2016, viene ad essere condizionato da una forza esterna che si chiama A.N.A.C. che ben può creare un significativo squilibrio di posizioni con asimmetrie non sempre colmabili.

La criticità rilevata è  un problema di rapporti tra fonti eteronome e fonti autonome del contratto. 

Ecco perché questo scritto vuole essere suscettivo di riflessioni e considerazioni  anche su quest'ulteriore profilo che rende sempre più mercato e contratto  uniche figure di un mondo in evoluzione verso nuovi  bilanciamenti o contrappesi  negoziali

4. Il recesso nei contratti pubblici,  tra vecchio e nuovo codice.  

L'art. 134 del precedente codice dei contratti pubblici del 2006 statuisce: la stazione appaltante ha diritto di recedere in qualunque tempo.

Il nuovo codice (tale menzione manca nel testo del 2016) dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture [13] ( D.lgvo 50/2016) pubblicato in G.U. n. 91,  il 19 aprile 2016 ed entrato in vigore il 19/20 aprile 2016, all'art.  109 [14], mutua la proposizione pregressa e ribadisce che la stazione appaltante può recedere dal contratto, in qualunque tempo, previo il pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino nel caso di servizi o forniture, oltre al decimo dell'importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite.

Evidente che la normativa, in tema di recesso, si riferisce a tutti i contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione e non solo al contratto di appalto pubblico di lavori, servizi e forniture[15] che pur ne costituisce il paradigma e la specificità.

Le due norme art. 134 (codice del 2006) ed art.  109 (codice del 2016) sono  sostanzialmente simili; ad eccezion fatta di qualche piccola locuzione, nulla è cambiato.

Anche il numero dei commi (sei) è rimasto invariato.

Ad una lettura più attenta, meno immediata e veloce, però, una nota di distinguo c'è, ed è anche rilevante e significativa: la stazione appaltante ha il diritto di recesso (2006).....la stazione appaltante può recedere......(2016).

Il legislatore italiano, sotto la spinta del normatore europeo, nel 2006  afferma il diritto di recedere; il legislatore italiano, sotto la spinta del normatore europeo del 2016, afferma la facoltà di recedere della amministrazione pubblica in costanza di contratto, se vi sono ragioni di interesse pubblico che impongono la misura per evitare pregiudizi o condizioni inopportune. 

Questa proposizione normativa, in ordine al diritto di recedere ovvero alla possibilità di recedere, in qualunque tempo, di semplice e di immediata cognizione, è imperativa e consente di fare, già ad una prima lettura, una riflessione significativa: la pubblica amministrazione recede in qualunque momento, senza alcuna limitazione temporale, né particolari  presupposti, né  il legislatore si preoccupa di formulare o  individuare   fattispecie tipiche.

Il recesso dipende, solo ed esclusivamente, dalla amministrazione stazione appaltante.

La statuizione, sostanzialmente uguale (come prima evidenziato)  nel codice del 2006 ed in quello  del 2016,  esprime, in effetti, una posizione giuridica attiva della amministrazione pubblica che sembra  avvicinarsi più ad un potere che ad un diritto  o ad una facoltà,  perché esclude da qualsiasi interazione l'altro contraente (nello specifico l'appaltatore) che subisce, inerte, l'esercizio di recesso pubblico.

L’amministrazione ha facoltà di recedere dal contratto in qualsiasi momento dello svolgimento del rapporto, con l’unico obbligo di corrispondere all’appaltatore il corrispettivo dei lavori eseguiti, il valore dei materiali utili esistenti in cantiere  e dell'ineseguito oltre il decimo dei  costi sostenuti.

La finalità della norma  deriva dall’esigenza di consentire all’amministrazione una nuova o diversa valutazione circa la convenienza o l'appropriatezza di eseguire l’opera e, conseguentemente, nel caso di esito negativo di tale valutazione, dare luogo allo scioglimento del contratto con l’esercizio di recesso.

I fatti alla base della decisione di recedere dal contratto possono essere i più vari e consistere non soltanto in fatti sopravvenuti (ad es. fatti che non rendono più utile o economica l’opera), ma anche in una diversa valutazione di una situazione precedentemente apprezzata come positiva ai fini della realizzazione dei lavori. 

Il recesso è esercitabile (e produce i suoi effetti non appena portato a conoscenza dell’appaltatore) secondo il libero apprezzamento dell’amministrazione che, peraltro, non è tenuta (quantomeno nell'immediatezza) a rendere edotto l’appaltatore dei motivi che l’hanno indotta a recedere dal contratto .

Il  diritto  recesso può essere esercitato in qualunque tempo e, perciò, a  far data dalla stipula del contratto e fino alla ultimazione dei lavori ovvero fino allo scioglimento del contratto per altra causa; è un istituto che  afferisce alla fase esecutiva del contratto e presuppone non solo l'esistenza del negozio, ma anche la messa in esecuzione dello stesso.

L’amministrazione può perciò recedere dal contratto anche quando l’appaltatore abbia perfezionato la diffida ad adempiere preordinata alla risoluzione del contratto per inadempimento dell’amministrazione stessa in base all’art.1454 cod. civ.; in questa ipotesi, il recesso prevale sulla risoluzione perché perfezionato antecedentemente ad essa, ma l’appaltatore può richiedere il risarcimento dei danni in misura superiore al 10% dovutogli per legge, considerato che il recesso non può evidentemente costituire l’espediente per limitare le obbligazioni risarcitorie dipendenti da inadempimenti del committente.

Il recesso deve essere pronunciato dall’organo deliberante dell’amministrazione o, comunque,  dall’organo competente secondo l’ordinamento interno della stessa.

L'esercizio del recesso, sia esso inteso come diritto o come facoltà, è preceduto da una formale comunicazione all'appaltatore da darsi con un preavviso non inferiore a venti giorni, decorsi i quali la stazione appaltante prende in consegna i lavori, servizi o forniture, effettua il collaudo definitivo e verifica la regolarità dei servizi e delle forniture.

Si tratta di  un adempimento la cui mancata attuazione non inficia la legittimità del recesso, poiché non è volto a tutelare interessi dell’appaltatore, ma è semplicemente preordinato a consentirgli, nel lasso di tempo assegnato, di attuare le operazioni di sua competenza perché l’amministrazione possa prendere in consegna la parte di opera realizzata ed effettuarne il collaudo.

Il mancato preavviso ha perciò l’unico effetto di dilazionare la presa in consegna dell’opera da parte dell’amministrazione.

Allorché sia stata presa in consegna l’opera, l’amministrazione deve procedere al pagamento all’appaltatore dei lavori eseguiti; si tratta dei lavori eseguiti fino alla comunicazione del preavviso di recesso o, qualora non sia stato effettuato il preavviso, fino alla comunicazione del recesso, sicché, se l’appaltatore dopo il preavviso o dopo la comunicazione del recesso abbia proseguito nell’esecuzione, per la quota parte dei lavori realizzati dopo questo momento non ha diritto ad alcun corrispettivo.

La comunicazione del recesso equivale, di fatto, al certificato di ultimazione dei lavori, con la conseguenza che il conto finale deve essere redatto dal direttore dei lavori entro il termine stabilito nel capitolato speciale ed il collaudo deve essere perfezionato con l’emissione del relativo certificato entro sei mesi dall’avvenuto recesso.

Ad avvenuto recesso, il direttore dei lavori ha il dovere di redigere lo stato di avanzamento dei lavori eseguiti fino a quel momento e, successivamente, il responsabile del procedimento deve emettere tempestivamente il relativo certificato di pagamento, dovendosi ritenere applicabile la disciplina degli interessi per ritardato pagamento, i cui termini decorrono dalla data di comunicazione del recesso poiché è questo il momento nel quale sorge il diritto dell’appaltatore al pagamento dei lavori eseguiti.

L’amministrazione, oltre al pagamento dell’indennizzo e dei lavori eseguiti, ha l’obbligo di pagare all’appaltatore il valore dei materiali utili esistenti in cantiere, di cui acquisisce la proprietà; si noti che si tratta di obbligo dell’amministrazione e non anche di diritto e, perciò, qualora l’appaltatore abbia interesse a mantenere la proprietà dei materiali, ha diritto di asportarli dal cantiere e l’amministrazione non può imporre la sua volontà di acquistarli pagandone il valore.

Nell'ipotesi in cui  l’appaltatore non eserciti il diritto di mantenere la proprietà dei materiali, sorge l’obbligo per l’amministrazione di acquistarli purché ricorrano tre condizioni: a) che si tratti di materiali già introdotti all’interno del cantiere; b) che si tratti di materiali già accettati dal direttore dei lavori; c) che si tratti di “materiali utili” e cioè di materiali che al momento del recesso non siano deteriorati, abbiano mantenuto tutte le caratteristiche di qualità e siano perciò oggettivamente utilizzabili.

Ricorrendo queste tre condizioni, l’amministrazione acquista i materiali secondo il loro valore di mercato.

L’amministrazione, infine, ha facoltà (e non obbligo, come per i materiali) di acquisire la proprietà delle opere provvisionali ed impianti di cantiere (baracche, alloggiamenti, illuminazione, ecc.), facoltà cui l’appaltatore non può opporsi.

In tal caso, a quest'ultimo, è dovuto un compenso costituito dall’importo più basso tra quello corrispondente al costo di costruzione e quello corrispondente al valore di mercato delle opere e degli impianti al momento del recesso.

Il compenso non viene corrisposto per intero, ma esclusivamente nella percentuale corrispondente alle opere e agli impianti non ammortizzati.

L’appaltatore è tenuto a rimuovere i materiali e gli impianti non acquistati dall’amministrazione nel termine assegnatogli,  che ovviamente deve essere congruo; ove l’appaltatore non effettui lo sgombero nel termine assegnatogli, l’amministrazione vi provvede d’ufficio facendolo eseguire ad altra impresa o a propri operai e ponendo la relativa spesa a carico dell’appaltatore.

5. La risoluzione strumento  in autotutela.

Altro rimedio esperibile, in sede di autotutela,  è quello della risoluzione. Prima di ricorrere ad una fase giudiziale, le parti possono agire in sede di  autotutela e decidere se sciogliere un rapporto senza rivolgersi all'autorità giudiziaria. La risoluzione produce lo scioglimento del contratto e può essere negoziale o unilaterale; è un istituto applicabile ed esercitabile (al contrario del recesso) nella sussistenza di presupposti ben definiti dal legislatore.

Nel codice civile si conoscono tre tipi di risoluzione: la risoluzione per impossibilità sopravvenuta; la risoluzione per grave inadempimento; la risoluzione per eccessiva onerosità.  

La risoluzione per impossibilità sopravvenuta[16] è contemplata all'art. 1453 cc  e si ha quando, la prestazione di una parte, all'interno di un rapporto obbligatorio, diventa oggettivamente impossibile per causa non imputabile (una sopravvenienza imprevedibile); la consegna di un'autovettura incendiata, per autocombustione, un'ora prima (rispetto al termine stabilito)  non consente più l'adempimento della prestazione  e determina lo scioglimento del rapporto che non avrebbe più senso di esistere (e non potrebbe)  in difetto di oggetto.

L'impossibilità della prestazione ha una funzione liberatoria in via generale per il debitore, ma, in ragione della natura del contratto, vi è sempre un rischio da sopportare.

Ad es. in un contratto consensuale, con efficacia traslativa immediata, se la consegna avviene dopo un mese e, nel  decorso del tempo, è accaduto qualcosa di imprevedibile che ha reso impossibile la prestazione, l'acquirente ne sopporta il  rischio essendo tenuto, in ogni caso e comunque,  a corrispondere il prezzo.

Le parti decidono se il rischio si trasferisce al momento della conclusione del contratto, al momento della consegna o al momento del trasferimento del diritto.  

La scelta operata dal legislatore italiano presuppone le regole generali sull'impossibilità, consacrate negli artt. 1256 e 1258 del c.c., e  poi  negli artt.1463 e 1464 del c.c..

In virtù dell'art.1256 cc l'impossibilità definitiva della prestazione, se dovuta a causa non imputabile al debitore, estingue l'obbligazione; l'art 1258 cc aggiunge che se la prestazione è divenuta impossibile solo in parte, il debitore si libera dell'obbligazione eseguendo la prestazione per la parte possibile;  l'art 1463 cc prevede l'ipotesi in cui, concluso il contratto con prestazioni corrispettive, una parte venga liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione senza poter richiedere la controprestazione e restituendo, secondo le regole sulla ripetizione dell'indebito, quanto già ricevuto; l'art 1464 cc statuisce, per il caso di impossibilità parziale, la riduzione della controprestazione, nonché la facoltà di recesso della parte delusa, quando non abbia un interesse apprezzabile all'adempimento parziale.

Non basta qualsiasi impossibilità.

La causa dell'impossibilità è liberatoria quando non sia imputabile al debitore, quando sia anteriore all'inadempimento, sempreché  l'impossibilità sia definitiva (art.1258 cc) e quando la prestazione è infungibile .

L'impossibilità è liberatoria solo se definitiva.

Solo il venir meno dell'interesse del creditore all'adempimento rende definitiva l'impossibilità; la temporaneità, finché perduri l'interesse del creditore,  è  compatibile  con  la  sussistenza  dell'obbligazione.

L'impossibilità totale della prestazione di una parte “libera” -cosi si esprime l'art.1463 – il debitore  e libera la controparte.

La liberazione opera in modo retroattivo.

La risoluzione opera per volontà di legge, senza bisogno di iniziativa della parte, né di intervento del giudice; ovviamente, anche la parte impossibilitata può invocarla.

La risoluzione opera dal momento dell'impossibilità.

L'impossibilità parziale riduce la prestazione e consente il recesso del contraente il cui interesse non sia più integro.

L'impossibilità non dà diritto a risarcimento; non ci sono effetti risarcitori e non vi sono norme cogenti.

Difatti  il risarcimento presuppone l'inadempimento che qui manca.

Tutte le disposizioni contenute nell'art. 1465 cc hanno carattere dispositivo e sono derogabili.

Il tema dell'inadempimento diventa centrale nella fattispecie della risoluzione per inadempimento.[17]

L'allocazione sistemica è data dall'art. 1453 cc.; la fattispecie di base è un contratto; l'inadempimento non deve essere di scarso rilievo; l'attore che agisce per la risoluzione deve provare  l'inadempimento .

"L'inadempimento è l'infedeltà ai doveri imposti dal contratto "[18] 

L'inadempimento è rilevante solo quando è grave; deve essere "un inadempimento tale da lasciar ritenere che la parte offesa, se lo avesse previsto , non avrebbe stipulato"[19]

Sempre in via stragiudiziale ed in autotutela,  la risoluzione può ottenersi come effetto di una diffida ad adempiere entro un termine essenziale con la previsione dell'effetto risolutivo in costanza di inadempimento.

La diffida, il termine essenziale e la clausola risolutiva espressa, rappresentano i rimedi risolutivi di un negozio  affetto da qualche intollerabile vizio o patologia nel momento esecutivo che consentono al contraente virtuoso di sciogliersi dal contratto senza ricorrere alla sentenza, cioè senza ricorrere all'intervento dello Stato attraverso l'ufficio giudiziario.

Altra fattispecie risolutoria è la clausola risolutiva espressa che  necessita  a) di apposita previsione in un codicillo; b)inadempimento intollerabile; c) dichiarazione del creditore che vuole sciogliersi dal vincolo.

Trattasi di una fattispecie a  formazione progressiva.

Con riferimento al termine essenziale, invece, la risoluzione avviene senza intervento del giudice quando scade inutilmente un termine essenziale per l'adempimento della prestazione.

Il termine essenziale deve essere individuato dalle parti in modo preciso e puntuale.

Anche  in questo caso deve essere espressamente previsto a) il termine essenziale; b) deve realizzarsi un inadempimento e c) seguire la  dichiarazione del contraente creditore di risoluzione affinché possa perfezionarsi  la fattispecie risolutoria.

Anche l'eccessiva onerosità incide sulle fattispecie negoziali ed, in particolare, su quelle a  lunga esecuzione temporale.

Il referente  sistemico della figura è dato dall'art. 1467 cc e ss.

L'eccessiva onerosità è una circostanza che può intercorrere tra il momento della conclusione del contratto ed il momento della sua esecuzione.

L'aumento  inatteso ed oneroso del prezzo di una fornitura può spingere la parte gravata ad eseguire il contratto, a risolverlo per eccesso di onerosità oppure a richiedere una modifica della prestazione  che possa consentire  il giusto ripristino  dell' equilibrio sinallagmatico.

Trattasi di un rimedio che consente ai contraenti di ripristinare il sinallagma e di ottenere la certezza dell'esecuzione della prestazione, in pieno spirito di collaborazione e di serenità.

La sopravvenienza regolata dal legislatore civilistico è ben precisata e circostanziata:  a) gravosità  eccessiva; b) contratti a prestazione corrispettive ad esecuzione periodica o continuata, c) (gravosità dovuta ad) un evento straordinario ed imprevedibile.

La straordinarietà e l'imprevedibilità dell'evento devono essere valutate in ragione della capacità di previsione  dell'uomo medio[20].

Di certo, in concreto, non è semplice la valutazione circa l'elemento di straordinarietà o imprevedibilità dell'evento, tant'è vero che vi sono casi simili trattati anche in modo diverso.

Occorrerebbe fissare criteri più stringenti, anche se la criticità resta perché non è possibile avere certezze se non quando si verifica la fattispecie.

L'onerosità va valutata in senso oggettivo e non secondo parametri di relatività o soggettività.

L'onerosità eccessiva è una onerosità insopportabile che va valutata al tempo dell'adempimento e non a quello della decisione;

Si ha eccessiva gravosità  tutte le volte in cui si realizza una rottura, sostanzialmente indesiderata (e quindi fuori dal patto) del bilanciamento tra prestazione e controprestazione.

Nella disciplina specifica del contratto di appalto in ambito civile, solo due norme consentono di affrontare la tematica della risoluzione.

Difatti, nel contratto di appalto di diritto privato, la risoluzione è un'ipotesi contemplata dall'art. 1668 cc quando le difformità o i vizi dell'opera sono tali ad renderla  inadatta alla sua destinazione.[21]

L'art. 1672 cc, invece, prevede anche l'ipotesi di risoluzione dell'appalto privato per impossibilità di esecuzione dell'opera per causa non  imputabile a nessuna delle parti.[22]

6. La risoluzione del contratto  pubblico di appalto  nella nuova compagine  normativa del codice del 2016.

La risoluzione del contratto era trattata nel codice dei contratti pubblici del 2006  agli articoli  da 135 a 140; in particolare: Art. 135 Risoluzione del contratto per reati accertati e per revoca dell'attestazione di qualificazione; Art. 136 Risoluzione del contratto per grave inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo; Art. 137 Inadempimento di contratti di cottimo; Art. 138 Provvedimenti in seguito alla risoluzione dei contratti; Art. 139 Obblighi in caso di risoluzione del contratto; Art. 140 Procedure di affidamento in caso di fallimento dell’esecutore o risoluzione del contratto.

Nel codice entrato in vigore il 20 aprile del 2016, un solo articolo è dedicato alla risoluzione e, precisamente,  l'articolo 108[23] che, in sostanza, finisce con l'assorbire varie fattispecie, contemperando anche una sintesi ed una precisazione tra la previsione dei tipi attuali e quella pregressa.   

Il nuovo codice, difatti, statuisce una serie di fattispecie tassative, ovvero un insieme di casi che impongono ed autorizzano una richiesta di risoluzione e, quindi, di scioglimento negoziale a favore e  da parte della amministrazione  pubblica.

Sono state soppresse le singole fattispecie di risoluzione previste dal codice del 2006 (gravi inadempimenti, reati, applicazione di misure di prevenzione o di sentenze penali....) con l'accorpamento nell'unica norma di cui all'art.  108  in vigore, come anzidetto, dal 20 aprile del 2016.

Vi sono singole e nuove ipotesi di risoluzione espressamente contemplate e dettagliate dal normatore, leggibili nella norma di riferimento.

Non  è  contemplata ad hoc la risoluzione per eccessiva onerosità, con conseguente e perfetta applicazione del regime civilistico, in punto di principi e regole di diritto, anche in ambito pubblicistico.

In alcuni casi è obbligatorio risolvere il contratto; in altri casi è facoltà della pubblica amministrazione optare per la risoluzione.

La risoluzione è facoltativa  quando vi sia stata : a)  modifica sostanziale del contratto; b) mutamento delle soglie; c) mancanza delle condizioni soggettive dell'aggiudicatario; d) l'appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell'Unione europea in un procedimento ai sensi dell'articolo 258 TFUE, o di una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice;

La risoluzione è obbligatoria quando siano state accertate:  a) false dichiarazioni o dichiarazioni mendaci dell'appaltatore; b) misure di prevenzione antimafia nei confronti dell'appaltatore. 

Al comma n. 3  del citato nuovo articolo,  vi è una previsione generale di risoluzione tutte le volte in cui il direttore dei lavori (espressione sul campo tecnico della amministrazione pubblica) accerti un grave inadempimento dell'appaltatore, tanto rilevante  da compromettere la corretta esecuzione dell’opera o meglio la buona riuscita dei lavori.[24]

Questo accertamento rappresenta una vera e propria condizione per l’attuazione di questa forma di risoluzione.

Il direttore dei lavori invia una relazione particolareggiata, contenente l’indicazione degli inadempimenti rilevati e la loro incidenza sulla corretta esecuzione dei lavori corredata da tutti i documenti necessari, al responsabile del procedimento che invita l'appaltatore a fornire controdeduzioni a sua difesa, altrimenti si procederà senz'altro alla risoluzione.

Non solo.

Nel codice del 2006 il  responsabile del procedimento doveva valutare la fondatezza dei rilievi formulati dal direttore dei lavori e, se non condivisi, (o non ritenuti tali da integrare gli estremi del grave inadempimento per  giustificare la risoluzione), aveva  facoltà di non dare luogo alla prosecuzione del procedimento finalizzato alla risoluzione.

Per il normatore del  2016,  la disciplina è ancora più stringente, perché  il responsabile del procedimento non può esprimere valutazioni, ma, vincolato alla relazione del direttore dei lavori (esclusivo tecnico autorizzato e competente nella valutazione dell'inadempimento del contratto), è tenuto (ha il diritto, il dovere ed il potere) a formulare una proposta alla stazione appaltante, previo esame delle controdeduzioni dell'impresa . [25]

L'organo decisionale dell’amministrazione, nell’assumere le sue determinazioni definitive in ordine alla risoluzione del contratto, dispone perciò di tre atti (la relazione del direttore dei lavori, le controdeduzioni dell’appaltatore (ove ricorrano) e la proposta del responsabile del procedimento).

L'organo ne apprezza liberamente il contenuto e, se ritiene, (potrebbe anche non farlo) dispone la risoluzione del contratto, fatto salvo l’obbligo  di  motivare  la  scelta  operata.

Emanato il provvedimento di risoluzione contrattuale occorre procedere con gli atti di seguito indicati: a) la redazione dello stato di consistenza, che deve avvenire immediatamente dopo la comunicazione all’appaltatore  del  provvedimento di risoluzione; b) l’avvio immediato delle procedure per il completamento dei lavori; c) la liquidazione finale dei lavori dell’appalto risolto, da effettuare subito dopo il riappalto dei lavori; d) il collaudo, che deve aver luogo dopo l’ultimazione dell’intera opera e riguardare anche la parte di opere eseguita dal primo appaltatore.

Il completamento dei lavori impone una nuova gara o un nuovo affidamento .

7. Natura giuridica ed impugnazione del recesso e della risoluzione della amministrazione pubblica.

Il recesso e la risoluzione sono deliberazione assunte dalla amministrazione pubblica in atti di determina che hanno forma, natura, sostanza, di provvedimenti amministrativi.[26]

Tipicamente si tratta dell'atto amministrativo conclusivo di una sequenza di atti all'interno di un procedimento amministrativo supervisionato da un responsabile del procedimento amministrativo.

Tramite un provvedimento amministrativo si crea, modifica o estingue una determinata situazione giuridica soggettiva al fine di realizzare un particolare interesse pubblico affidato alla cura della pubblica amministrazione che ha posto in essere il provvedimento.

Come tutti i provvedimenti amministrativi, essi presentano i seguenti caratteri e requisiti: tipico, per essere valido deve essere espressamente previsto dall'ordinamento; nominativo, per ogni interesse pubblico alla cui cura l'amministrazione è preposta deve essere previsto il corrispondente provvedimento amministrativo; autoritativo, produce i suoi effetti nonostante e anche contro la volontà del destinatario o dei destinatari; unilaterale, è manifestazione della sola volontà dell'amministrazione; esecutorio, le autorità pubbliche ne possono dare immediata e diretta esecuzione, senza che sia necessaria una preventiva pronuncia giurisdizionaleinoppugnabile,  perché  dopo la scadenza dei termini di proposizione, esso non è più impugnabile da parte degli interessati tramite ricorsi amministrativi o giurisdizionali .

Non solo.

Il recesso e la risoluzione presuppongono l'esistenza di un rapporto negoziale, o meglio di un contratto.

La caratteristica ulteriore di tali provvedimenti è data dal fatto che essi incidono  nella fase di esecuzione del contratto che è fase di natura strettamente privatistica.

La pubblica amministrazione, però, anche quando agisce iure privatorum, non può non conservare la sua natura pubblicistica ed i suoi atti di intervento assumono, di regola, sempre la forma  e la natura di atti amministrativi o rectius di provvedimenti amministrativi.[27]

Nel caso in questione  non  ci si può esimere da una giusta riflessione: il recesso e la risoluzione sono istituti tipici del diritto privato, però quando ad esercitarli vi è una pubblica amministrazione essi perdono la connotazione strettamente privatistica ed assumono veste e profilo pubblicistico. 

Tale considerazione non è meramente accademica, ma rappresenta un problema sostanziale, di non poca criticità, che incide in particolar modo sulla  ricaduta  del recesso e della risoluzione in ambito giustiziale.

Sono atti che intervengono in una fase privatistica di esecuzione del contratto, ma sono atti amministrativi.

Discusso è se incidono su diritti soggettivi o su interessi legittimi e se vanno impugnati innanzi al Giudice Ordinario o innanzi al Giudice Amministrativo.

Tutte queste spinosità ancora non hanno ottenuto una risposta univoca.

Il problema è aperto.

Ed ancora si discute se il recesso e la risoluzione  siano espressione di un potere contrattuale della amministrazione pubblica e non una potestà di carattere amministrativo.

8. I principi della diritto pretorio amministrativo e civile.  

Di interesse fondamentale è la sentenza del  Consiglio di Stato, sez. VI, 17 marzo 2014, n. 1312 (sul recesso unilaterale dal contratto pubblico ex art. 1, comma 13, D.L. n. 95/2012) perché  approfondisce il tema della natura dell’atto di recesso (e di risoluzione) dai contratti pubblici da parte dell’amministrazione.[28]

Tale pronuncia è comunque estensibile ad una serie di considerazione anche in ordine alla risoluzione operata dalla amministrazione pubblica.

In  sostanza la pronuncia in questione interessa l'ambito degli atti di autotutela della amministrazione esercitati nella fase di esecuzione negoziale.

La questione sottoposta all’esame del Collegio riguarda una fattispecie di applicazione dell’art. 1, comma 13, del d..l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, che attribuisce alle amministrazioni pubbliche, “che abbiano validamente stipulato un autonomo contratto di fornitura o di servizi [...] il diritto di recedere in qualsiasi tempo dal contratto, previa formale comunicazione all’appaltatore, con preavviso non inferiore a quindici giorni e previo pagamento delle prestazioni già eseguite, oltre al decimo delle prestazioni non ancora eseguite”; quanto sopra, quando “i parametri delle convenzioni stipulate da Consip s.p.a., ai sensi dell’art. 26, comma 1, della legge 23 dicembre 1999, n. 488, successivamente alla stipula del predetto contratto, siano migliorativi rispetto a quelli del contratto stipulato e l’appaltatore non acconsenta ad una modifica delle condizioni economiche, tale da rispettare il limite, di cui all’art. 26, comma 3, della legge 23 dicembre 1999, n. 488”.

Nella medesima disposizione è anche precisato che il diritto di recesso di cui trattasi “si inserisce automaticamente nei contratti in corso, ai sensi dell’art. 1339 del codice civile”.

Nella situazione in esame detta rescissione veniva applicata ad un contratto di appalto, concluso fra la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei e la Sisma s.r.l., per un servizio di assistenza medica per il personale: servizio, che si intendeva sostituire in base alla convenzione Consip per la Gestione integrata della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, approvata con D.D.G. in data 8 febbraio 2012.

Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, sez. IV, n. 1965/13 del 15 aprile 2013 veniva accolto il ricorso, al riguardo proposto dalla società Sisma, previo riconoscimento della sussistenza di giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendosi esercitato un potere autoritativo di recesso e non un diritto potestativo di natura civilistica.

Nel merito, la citata sentenza riteneva erroneo il raffronto fra il singolo contratto da valutare e i parametri Consip, riferiti alla spesa complessivamente sostenuta dall’Amministrazione per tutti i contratti aventi un determinato oggetto, mentre nel caso di specie il servizio sarebbe peggiorato e reso più costoso del 26%, peraltro senza il previsto preavviso per l’eventuale adeguamento dell’appaltatore alle presunte condizioni migliorative.

In sede di appello (n. 4287/13, notificato il 22 maggio 2013), il Ministero per i beni e le attività culturali insisteva, in via pregiudiziale, affinché venisse riconosciuta in materia la giurisdizione del giudice ordinario, a norma dell’art. 244 del Codice dei contratti pubblici e dell’art. 133 del Codice del processo amministrativo, riguardando la controversia la fase esecutiva dell’appalto.

In attuazione degli obiettivi pubblicistici della cosiddetta spending review, infatti, sarebbe stata attribuita all’Amministrazione una facoltà, già riconosciuta per il committente privato a norma dell’art. 1671 c.c.

L’impugnativa di primo grado, inoltre, avrebbe dovuto essere ritenuta inammissibile, per omessa notificazione alla società controinteressata (RTI COM, nuova aggiudicataria in base alla convenzione Consip).

Nel merito, si sottolineava come la disamina del giudice di primo grado fosse stata circoscritta ad un “gretto ambito aritmetico”, senza considerare come – attraverso il sistema Consip – fosse stata avviata una gestione integrata della sicurezza nei luoghi di lavoro, con coordinamento centrale e specialistico.

Con la convenzione unica nazionale, basata su un’indagine capillare circa i costi sostenuti, sarebbero state rese possibili ingenti economie di scala, con immediato contenimento di spesa di 5 milioni di euro nel triennio: i contratti sostituiti dalla convenzione Consip, pertanto, avrebbero dovuto essere valutati nel loro insieme.

La società SISMA, costituitasi in giudizio, faceva presente che l’appalto sarebbe comunque cessato ad ottobre 2013 e sottolineava l’estraneità alla controversia della nuova aggiudicataria.

Circa la natura del potere esercitato dall’Amministrazione, inoltre, veniva appoggiata la tesi del carattere pubblicistico e autoritativo dello stesso.

Premesso quanto sopra, il Collegio ritiene fondata ed assorbente l’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione, sollevata dal Ministero appellante.

Infatti, in via generale, l’Amministrazione, come soggetto giuridico, può agire non solo in forma autoritativa, ma anche in base ai modelli interprivati, restando soggetta in quest’ultimo caso alle medesime regole vigenti per i privati nei loro rapporti.

Tale dualismo emerge in modo evidente nella materia contrattuale, che vede l’Amministrazione soggetta a regole dettate nell’interesse pubblico per la scelta dell’altro contraente, con applicazione però delle norme di diritto privato dopo l’instaurazione del rapporto negoziale, fonte di diritti soggettivi e di correlativi obblighi fra le parti; a tale differente linea concettuale corrisponde il riparto di giurisdizione, che assegna al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di “affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, svolti da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria, ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale [....]”(cfr. art. 244 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, nonché art. 133, comma 1, lettera e), n. 1 Cod. proc. amm.), mentre spetta al giudice ordinario la cognizione su controversie, attinenti alla fase esecutiva del contratto (cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 10 febbraio 2010, n. 691; IV, 2 febbraio 2010, n. 469; Cass. SS.UU. 22 agosto 2007, ord. n. 17829).

Nell’ambito di detta fase esecutiva, è stata ritenuta espressione di un irrinunciabile potere autoritativo di valutazione discrezionale dei requisiti del contraente, il recesso dell’appaltatore ai sensi dell’art. 11, commi 2 e 3 d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), per sospetto di infiltrazioni mafiose nell’impresa appaltatrice, con conseguente cognizione del giudice amministrativo (Cass., SS.UU., 11 gennaio 2011, n. 391; 29 agosto 2008, n. 21928; 17 dicembre 2008, n. 29425), ma non anche il recesso effettuato nella fase esecutiva, da considerare paritetica e rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario (Cass. SS.UU., 28 novembre 2008, n. 28345; Cons. Stato, V, 7 gennaio 2009, n. 8; Cons. Giust, Amm. Reg. Sic. 28 settembre 2007, n. 883; Cons. Stato, V, 14 maggio 2010, n. 2959 e 10 febbraio 2010, n. 691; Cons. Stato, IV, 2 febbraio 2010, n. 469).

Al medesimo giudice ordinario si ritiene affidato ogni atto successivo all’aggiudicazione ed alla stipula del contratto, ivi compresa la revoca dell’aggiudicazione stessa per sopravvenuti motivi di opportunità (cfr. in tal senso Cass., SS.UU., 11 gennaio 2011, n. 391).

Così, il Collegio non ritiene che il citato art. 1, comma 13, del d.-l. n. 135 del 2012 possa corrispondere all’attribuzione di una potestà, che consenta all’Amministrazione – già parte di un rapporto contrattuale a regolazione civilistica – di intervenire ab extra sul rapporto stesso in forma e modalità autoritativa, in modo tale da svincolarsi dagli obblighi contrattuali assunti per affermate esigenze di interesse pubblico.

Non confermano tale indirizzo, infatti, né il testo, né la ratio della norma in esame: il primo, in quanto assegna in modo esplicito all’Amministrazione un “diritto” di recesso e la seconda (coincidente con la possibilità di ottenere prestazioni “migliorative”, in base ai parametri delle convenzioni stipulate da Consip), poiché detta finalità viene perseguita con una fattispecie di recesso unilaterale del contratto, che costituisce mera specificazione di quanto comunque consentito al committente, nell’ambito dei contratti di appalto, a norma dell’art. 1671 Cod. civ..

Sono già assicurate dalla norma ricognitiva del diritto in questione (lex specialis rispetto al citato art. 1671 Cod. civ.), pertanto, le finalità di interesse pubblico al perseguimento di economie di scala ed alla omogeneità dei costi delle forniture e dei servizi, commissionati da pubbliche amministrazioni tramite un centro specializzato per i loro approvvigionamenti con inerente contrattazione centralizzata, in capo a una figura, organizzativa (oggi la  Consip s.p.a.) istituita per un tale scopo.

Una volta formalizzate le convenzioni, che dovrebbero assicurare detti parametri di maggiore convenienza, ogni altra forma di contrattazione è dichiarata nulla (art. 1, comma 1, d.-l. n. 95 del 2012) e solo in via transitoria – per i contratti stipulati prima della data di entrata in vigore del ricordato d.-l. n. 95 del 2012 (convertito dalla l. 7 agosto 2012, n. 135) – si attribuisce appunto al contraente pubblico il diritto di recesso in questione, con successiva adesione alla convenzione Consip, ove l’appaltatore non acconsenta a modificare in senso conforme le condizioni contrattuali (con pagamento comunque, in caso di non adesione di detto appaltatore, delle prestazioni già eseguite e di un decimo di quelle da eseguire: art. 1 cit., comma 13).

Costituisce, pertanto, esercizio di un potere a carattere contrattuale dell’Amministrazione – in forza di una clausola contrattuale inserita ex lege, a norma dell’art. 1339 cc. – e non espressione di una potestà pubblica, che sarebbe in sé estrinseca al sinallagma contrattuale, l’esercizio del diritto di recesso, che la legge riconosce nella situazione anzidetta.

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 del Codice del processo amministrativo, con declaratoria della cognizione del giudice ordinario sulla questione prospettata.

E' una sentenza che fa riflettere.

E' una sentenza che merita attenzione.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto che tale forma di recesso costituisca l’esercizio di un potere a carattere contrattuale dell’amministrazione – in forza di una clausola contrattuale inserita ex lege, a norma dell’art. 1339 cod. civ. – e non l’espressione di una potestà pubblica, che sarebbe in sé estrinseca al sinallagma contrattuale. Anche successivamente il  Consiglio di Stato, sez. V - 25 novembre 2015, n. 5356, seppur in modo meno specifico, è intervenuto affermando: nel settore dell'attività negoziale della pubblica amministrazione e, in particolare, in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, la cognizione dei comportamenti e degli atti assunti prima dell'aggiudicazione della gara (compresi tra tali atti anche quelli di autotutela pubblicistica e questi ultimi pure dopo la conclusione del contratto), e nella successiva fase compresa tra l'aggiudicazione e la conclusione del contratto, spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; mentre le controversie relative alla fase di esecuzione del contratto (salvo quelle, tassativamente indicate, relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti, alla clausola di revisione prezzi e ai provvedimenti applicativi dell'adeguamento dei prezzi) rientrano nella giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria(cfr. da ultimo Cass. civ., Sez. I, 25 maggio 2015, n. 10743; Sez. I, 30 aprile 2015, n. 8842; Cons. Stato, Ad. plen., 20 giugno 2014, n. 14; Sez. V, 31dicembre 2014, n. 6455).

La pronuncia del Consiglio di Stato è affermativa della natura contrattuale del recesso (o della risoluzione) esercitata dalla amministrazione pubblica ed è affermativa, conseguentemente, della giurisdizione ordinaria sul punto.[29]

Di certo il problema è stato ed è oggetto di attenzione con orientamenti ondivaghi che segnano  labili confini.

Interessante un piccolo scorcio giurisprudenziale anche risalente negli anni, al fine di meglio comprendere la vexata quaestio.

Lo stesso Consiglio di Stato,  sez. IV, 28 febbraio 1956, n. 281[30] afferma  che l'atto unilaterale con cui la P.A. rescinde un contratto di appalto di un’opera pubblica, ai sensi dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n.2248, All. F per inadempienza dell'appaltatore, non ha natura di atto amministrativo; pertanto il ricorso che lo impugna esula dalla giurisdizione del C.d.S”. Per la  Corte di  Cassazione, sezioni unite civili, 22 settembre 1984, n. 4819,[31] “il giudice ordinario, cui l'appaltatore di opere pubbliche, destinatario del provvedimento di rescissione del contratto adottato nei suoi confronti dalla p.a. ai sensi dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n.2248, all.F, chieda la dichiarazione di risoluzione dell'appalto per inadempimento dell'amministrazione e la condanna stessa ai danni, pur non potendo adottare statuizioni incidenti sulla risoluzione del rapporto determinata dall'anzidetto provvedimento, è tuttavia munito di giurisdizione a ricondurla a inadempimento della stazione appaltante e a sanzionarlo mediante le opportune statuizioni risarcitorie”.

Il T.A.R. Lazio, sezione II, 30 aprile 1980, n.290[32]: “Il provvedimento con il quale l’Amministrazione committente dichiara la rescissione del contratto per non aver l'appaltatore ripreso i lavori nel termine all'uopo assegnato, non costituisce un atto amministrativo, sebbene estrinsecazione di poteri di natura privatistica e, pertanto, è impugnabile davanti all'Autorità giudiziaria ordinaria.

La Corte di Cassazione, SS.UU. 26 luglio 1985, n. 4342[33]:“La controversia relativa alla giustificabilità o meno del rifiuto dell’appaltatore di opera pubblica di dare inizio ai lavori (nella specie motivato in relazione alla necessità di acquisire anche l’appalto di lavori strettamente collegati) e, correlativamente, alla legittimità della rescissione del rapporto da parte della P.A. appaltante a fronte di detto rifiuto in applicazione dell’art.340 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, concerne, in costanza di un rapporto regolarmente concluso ed approvato nelle forme di legge, diritti e obblighi di natura contrattuale e spetta quindi alla giurisdizione dell’A.G.O.".

La Corte di Cassazione, 30 luglio 1996, n.6908[34], in Il Foro italiano, 1997, I, 891-902: “La comunicazione del provvedimento di risoluzione del contratto di appalto di opera pubblica, adottato ai sensi dell’art. 27 r.d. 350/1895, non esige le forme e le modalità delle notificazioni degli atti giudiziari, essendo sufficiente che avvenga con qualunque mezzo idoneo a portare a conoscenza dell’interessato l’adozione del provvedimento rescissorio”.

Il T.A.R. Lazio, sez. III, 7 novembre 1984, n.557[35]: “Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia avente per oggetto l’atto con cui l’amministrazione appaltante ha disposto la rescissione del contratto ai sensi dell’art. 340 l. 20 marzo 1865, n.2248, all. F”; il T.A.R. Puglia, sez. Lecce, 12 febbraio 1986, n.23[36], in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1986, p.1443: “In tema di contratti di appalto, nonostante che la normativa che disciplina, in materia, i poteri di autotutela della p.a. non appaia interpretabile nel senso di attribuire alla p.a. appaltante una posizione di supremazia nei confronti dell'appaltatore, la corte di cassazione, tuttavia, sulla base di un orientamento ormai consolidato, qualifica come amministrativo l'atto con il quale la stazione appaltante rescinde il rapporto, ai sensi dell’art.340, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, e come interesse legittimo la connessa posizione giuridica dell’appaltatore. Quest’ultimo deve quindi agire dinanzi al giudice amministrativo per l’annullamento dell’atto illegittimo, mentre deve proporre davanti al giudice ordinario la conseguente ed eventuale azione risarcitoria”. La V Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 8 marzo 2005, n. 950: Sussiste il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo quando viene in rilievo una controversia sulla risoluzione di un contratto d’appalto di lavori pubblici, disposta unilateralmente dalla P.A., per inadempimento dell’appaltatore, poiché la questione involge posizioni di diritto soggettivo. Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2000, n. 5710. 

9. Una riflessione conclusiva:  atti con una doppia anima.

Questo scritto ha consentito (e consente) al lettore di soffermare la sua attenzione sugli istituti del recesso e della risoluzione applicati sia in diritto civile che in diritto  amministrativo.

Il recesso e la risoluzione, nei contratti pubblici, sono espressione di attività amministrativa, perché provenienti da una pubblica amministrazione all'esito di un dettagliato procedimento amministrativo.

Il  dibattito è  comunque  aperto circa la natura giuridica di questi atti.

Si oscilla tra una configurazione di potere contrattuale ed un'affermazione di potere amministrativo della amministrazione pubblica.

Non solo.

La discussione si accende ancora di più se  si analizzano le posizioni giuridiche attive (diritto o interesse) che vengono coinvolte ed eventualmente lese nel momento applicativo ed operativo  di queste fattispecie (recesso e risoluzione).

Di sicuro la riflessione non è di poco momento perché  l'inquadramento nell'uno o nell'altro tipo, contribuisce a determinare la giurisdizione del Giudice ordinario o del Giudice amministrativo.

Evidente la necessità di  un ammodernamento della lettura che porti ad intendere le figure non più con confini privatistici o pubblicistici netti e nitidi, ma con linee applicative più ampie in sede ordinamentale.

Si tratta di fattispecie spurie perché non  suscettive di essere configurate come assolutamente privatistiche o assolutamente pubblicistiche, quando, sul piano negoziale,  non ci sono solo cittadini privati, ma interviene  anche la amministrazione pubblica.

E, senza alcun dubbio, non può sottacersi che la presenza di un'amministrazione pubblica, seppur in regime iure privatorum, incide (eccome) sull'assetto  contrattuale.

Basti pensare anche soltanto alla disciplina del nuovo codice sugli appalti pubblici che nella previsione dell'art. 108 (recesso) e dell' art. 109 (risoluzione) ha contemplato una disciplina ad hoc per l'appalto pubblico.

Innegabile è  la posizione differenziata della pubblica amministrazione.

Innegabile è la tutela ed il raggiungimento dell'interesse pubblico che rafforza, sempre e comunque, lo status dell'amministrazione con i suoi ampi poteri  in sede contrattuale..

Trattasi, in vero, in ordine agli istituti del recesso e della risoluzione, in ambito pubblicistico,  di atti con una doppia anima.

L'anima  civilistica e l'anima pubblicistica, infatti, ne rappresentano una  peculiare caratteristica.

Vi è una commistione tale che spesso risulta difficile distinguere i confini e  l'incidenza  su diritti o interessi  del contraente  destinatario del recesso o della risoluzione.

Per questa ragione sembra effettivamente essere preferibile la configurazione di  una doppia impugnativa.

Doppia anima  uguale a doppia impugnativa.

Il giudice ordinario ed il giudice amministrativo, sinergicamente, in un rapporto collaborativo giustiziale e, ciascuno per la propria competenza, provvederanno a formare una tutela mista, complessa e progressiva, a favore di chi la richiede avverso atti  della amministrazione pubblica configurabili come recesso e come risoluzione.

Nulla osta ad impugnare il recesso o lo risoluzione innanzi al G.O. perché espressioni di  potere contrattuale esercitato dalla P.A. in  spregio  del diritto dell'appaltatore e nulla osta ad impugnare  il recesso  o la risoluzione (rectius: atti)  innanzi al G.A. perché espressione  di   potere pubblico e amministrativo esercitato dalla P.A. in lesione di un interesse legittimo dell'appaltatore. 

 

Note e riferimenti bibliografici
[1] F. BENVENUTI, voce Autotulela in Diritto Amministrativo, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1959, 539.
[2] Vedi sul tema dell'autotutela l'importante lavoro di A. SATURNO, L'autotutela privata. I modelli della ritenzione e dell'eccezione di inadempimento in comparazione col sistema tedesco, Napoli, 1995.
[3] G. GHETTI, voce Autotutela  della Pubblica Amministrazione , in Digesto  delle Discipline Pubblicistiche, volume II, 2002, 80 e ss.
[4] I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e la imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.
[5] L'autotutela nel settore pubblico tributario  consente all' amministrazione finanziaria di intervenire  in caso di errore lesivo dei diritti del destinatario; in definitiva, nell'ipotesi di un atto viziato all'Amministrazione è data la possibilità non solo di emendarlo ma anche di ritirarlo, evitando in tal modo di danneggiare ingiustamente il contribuente. Il potere di autotutela spetta all' ufficio che ha emanato l'atto, competente per gli accertamenti d'ufficio; può essere esercitato d'ufficio o su istanza. Il fondamento normativo dell'autotutela tributaria, oltre che il principio di legalità, è l'art. 2-quater del d.l. 30 settembre 1994, n. 564, convertito, con modificazioni, nella l. 30 novembre 1994, n. 656 ed anche il d.m. 11.02.1997. Questa disposizione prevede che l'autotutela fiscale possa esplicarsi per varie ragioni.  L'annullamento può avvenire per vizi formali e/o sostanziali. L'Amministrazione finanziaria procedere in autotutela  quando:sussista un errore di persona; un evidente errore logico o di calcolo; un errore sul presupposto dell'imposta o in caso di doppia imposizione; omessa considerazione del pagamento avvenuto; errore materiale del contribuente. L'istanza in autotutela, deve opportunamente contenere alcuni elementi, in mancanza dei quali l'ufficio può avere maggiori difficoltà e/o impossibilità nella revisione dell'atto. Tali elementi sono: indicazione dell'atto di cui si richiede l'annullamento totale o parziale; motivi della richiesta di annullamento; documentazione dimostrativa di supporto; copia di un documento di riconoscimento in corso di validità. La presentazione dell'istanza non origina l'automatica sospensione dei termini per la presentazione di ricorso alla Commissione tributaria. E'  prudenziale avviare un previo rapporto di collaborazione e fiducia con l'ufficio  e successivamente presentare ricorso (reclamo - mediazione ) secondo la procedura del  decreto delegato n.546 del 1992 al fine di evitare  la scadenza  dei termini impugnatori.
[6] G. DE NOVA Il recesso, voce in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile vol. XVI, Torino , 2003,  314 e ss.
Sul punto vedi anche: E. GABRIELLI, Vincolo Contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985; C.M. BIANCA, Diritto Civile, Il Contratto, 3, Milano, 1987.
[7] La tutela rintracciabile nel Codice del Consumo (D.lgs. n. 206/2005) e nel Codice Civile varia a seconda del luogo in cui si perfezioni la transazione commerciale.
[8] Cassazione civile del  14/12/1985 n. 6347 in GC 1986,I, 1394 con nota di M. COSTANZA ammette il recesso anche nei contratti a tempo indeterminato. F. GALGANO, Diritto civile  e commerciale, Padova, 1990, II, 1, 412 sostiene una applicazione più ampia del recesso anche al di fuori delle ipotesi tradizionali.
[9] Il recesso può afferire a contrati reali, a contratti obbligatori, in contratti preliminari.
[11] Il recesso prevede, di regola, un prezzo da corrispondere per compensare una sorta di pregiudizio che subisce l'altro contraente  una volta sciolto il vincolo negoziale (la caparra penitenziale).
[12] Vedi B. GIANNATTASIO, L'appalto in Trattato Cicu Messineo, Milano, 1977, p. 302.; D. RUBINO, L'appalto, in Trattato di  Diritto Civile Italiano di F. Vassalli, Torino, 1980 pp. 828, 830.
[13] È stato pubblicato nel Supplemento Ordinario n. 10 alla G.U. 19/04/2016, n. 91, il Decreto Legislativo 18/04/2016, n.50, recante “Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”.Si tratta del nuovo Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, cioè il provvedimento - attuativo della delega di cui alla L. 28/01/2016, n. 11, con il quale si è provveduto al recepimento delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE in materia di contratti pubblici di appalto e concessione, nonché al riordino complessivo della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, già contenuta nel Codice di cui al D.Lgs. 163/2006 e nel Regolamento di attuazione di cui al D.P.R. 207/2010. Inoltre il nuovo Codice -sulla scorta della Direttiva 2014/25/UE concernente l’aggiudicazione dei contratti pubblici di concessione -regola per la prima volta in modo organico le concessioni, le concessioni autostradali ed i contratti di partenariato pubblico e privato (PPP).
[14] Art. 109  D.lgvo 50/2016:Art.109 (Recesso)
1. Fermo restando quanto previsto dagli articoli 88, comma 4-ter e 92, comma 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, la stazione appaltante può recedere dal contratto in qualunque tempo previo il pagamento dei lavori eseguiti o delle prestazioni relative ai servizi e alle forniture eseguiti nonché del valore dei materiali utili esistenti in cantiere nel caso di lavoro o in magazzino nel caso di servizi o forniture, oltre al decimo dell’importo delle opere, dei servizi o delle forniture non eseguite2. Il decimo dell’importo delle opere non eseguite e’ calcolato sulla differenza tra l’importo dei quattro quinti del prezzo posto a base di gara, depurato del ribasso d’asta e l’ammontare netto dei lavori, servizi o forniture eseguiti.3. L’esercizio del diritto di recesso è preceduto da una formale comunicazione all’appaltatore da darsi con un preavviso non inferiore a venti giorni, decorsi i quali la stazione appaltante prende in consegna i lavori, servizi o forniture ed effettua il collaudo definitivo e verifica la regolarità dei servizi e delle forniture. 4. I materiali, il cui valore è riconosciuto dalla stazione appaltante a norma del comma 1, sono soltanto quelli già accettati dal direttore dei lavori o del direttore dell’esecuzione del contratto, se nominato, o del RUP in sua assenza, prima della comunicazione del preavviso di cui al comma 3. 5. La stazione appaltante può trattenere le opere provvisionali e gli impianti che non siano in tutto o in parte asportabili ove li ritenga ancora utilizzabili. In tal caso essa corrisponde all’appaltatore, per il valore delle opere e degli impianti non ammortizzato nel corso dei lavori eseguiti, un compenso da determinare nella minor somma fra il costo di costruzione e il valore delle opere e degli impianti al momento dello scioglimento del contratto.6. L’appaltatore deve rimuovere dai magazzini e dai cantieri i materiali non accettati dal direttore dei lavori e deve mettere i magazzini e i cantieri a disposizione della stazione appaltante nel termine stabilito; in caso contrario lo sgombero è effettuato d’ufficio e a sue spese.
[15] Qualche spunto di riflessione sul punto non può mancare se si considera che la previsione generale del recesso della pubblica amministrazione manca nel codice dei contratti pubblici, mentre è esplicitato solo il recesso della stazione appaltante.
[16] R. SACCO, voce Risoluzione per impossibilità sopravvenuta in Digesto delle Discipline Privatistiche. sezione civile, vol. XVIII, Torino 2002, 53 e ss.
[17] R. SACCO, voce Risoluzione per  inadempimento  in Digesto delle Discipline Privatistiche. sezione civile, vol. XVIII, Torino 2002, 56 e ss.
[18] R.SACCO, op. cit.  60.
[19] Cass. civ.  29.9.94, n. 7937. GI, 1995, I, 1, 1010.
[20] P. GALLO, in  voce Eccessiva Onerosità Sopravvenuta in Digesto delle Discipline Privatistiche, sezione civile, vol.  VII, Torino 2002, 238 e ss ; Cass. II sez. 15/12/1984 n. 6574, GC, 1985, I, 1706.
[21]  C. VIGNALI,  L'appalto immobiliare, Rimini, 1991, 127 e ss.;
[22]  G. COTTINO,  Contratti Commerciali,  in Trattano di diritto commerciale di  F. Galgano, Padova,  1991,  720
[23] Art. 108. Risoluzione.
1. Fatto salvo quanto previsto ai commi 1, 2 e 4, dell'articolo 107, le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di sua efficacia, se una o più delle seguenti condizioni sono soddisfatte:a) il contratto ha subito una modifica sostanziale che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto ai sensi dell'articolo 106;b) con riferimento alle modificazioni di cui all'articolo 106, comma 1, lettere b) e c) sono state superate le soglie di cui al comma 7 del predetto articolo; con riferimento alle modificazioni di cui all'articolo 106, comma 1, lettera e) del predetto articolo, sono state superate eventuali soglie stabilite dalle amministrazioni aggiudicatrici o dagli enti aggiudicatori; con riferimento alle modificazioni di cui all'articolo 106, comma 2, sono state superate le soglie di cui al medesimo comma 2, lettere a) e b) ; c) l'aggiudicatario si è trovato, al momento dell'aggiudicazione dell'appalto in una delle situazioni di cui all'articolo 80, comma 1, per quanto riguarda i settori ordinari ovvero di cui all'articolo 170, comma 3, per quanto riguarda le concessioni e avrebbe dovuto pertanto essere escluso dalla procedura di appalto o di aggiudicazione della concessione, ovvero ancora per quanto riguarda i settori speciali avrebbe dovuto essere escluso a norma dell'articolo 136, comma 1, secondo e terzo periodo; d) l'appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell'Unione europea in un procedimento ai sensi dell'articolo 258 TFUE, o di una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice. 2. Le stazioni appaltanti devono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di efficacia dello stesso qualora: a) nei confronti dell'appaltatore sia intervenuta la decadenza dell'attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci; b) nei confronti dell'appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l'applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all'articolo 80. 3. Quando il direttore dei lavori o il responsabile dell'esecuzione del contratto, se nominato, accerta un grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell'appaltatore, tale da comprometterne la buona riuscita delle prestazioni, invia al responsabile del procedimento una relazione particolareggiata, corredata dei documenti necessari, indicando la stima dei lavori eseguiti regolarmente, il cui importo può essere riconosciuto all'appaltatore. Egli formula, altresì, la contestazione degli addebiti all'appaltatore, assegnando un termine non inferiore a quindici giorni per la presentazione delle proprie controdeduzioni al responsabile del procedimento. Acquisite e valutate negativamente le predette controdeduzioni, ovvero scaduto il termine senza che l'appaltatore abbia risposto, la stazione appaltante su proposta del responsabile del procedimento dichiara risolto il contratto. 4. Qualora, al di fuori di quanto previsto al comma 3, l'esecuzione delle prestazioni ritardi per negligenza dell'appaltatore rispetto alle previsioni del contratto, il direttore dei lavori o il responsabile unico dell'esecuzione del contratto, se nominato gli assegna un termine, che, salvo i casi d'urgenza, non può essere inferiore a dieci giorni, entro i quali l'appaltatore deve eseguire le prestazioni. Scaduto il termine assegnato, e redatto processo verbale in contraddittorio con l'appaltatore, qualora l'inadempimento permanga, la stazione appaltante risolve il contratto, fermo restando il pagamento delle penali. 5. Nel caso di risoluzione del contratto l'appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto.6. Il responsabile unico del procedimento nel comunicare all'appaltatore la determinazione di risoluzione del contratto, dispone, con preavviso di venti giorni, che il direttore dei lavori curi la redazione dello stato di consistenza dei lavori già eseguiti, l'inventario di materiali, macchine e mezzi d'opera e la relativa presa in consegna.7. Qualora sia stato nominato, l'organo di collaudo procede a redigere, acquisito lo stato di consistenza, un verbale di accertamento tecnico e contabile con le modalità di cui al presente codice. Con il verbale è accertata la corrispondenza tra quanto eseguito fino alla risoluzione del contratto e ammesso in contabilità e quanto previsto nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante; è altresì accertata la presenza di eventuali opere, riportate nello stato di consistenza, ma non previste nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante. 8. Nei casi di cui ai commi 2 e 3, in sede di liquidazione finale dei lavori, servizi o forniture riferita all'appalto risolto, l'onere da porre a carico dell'appaltatore è determinato anche in relazione alla maggiore spesa sostenuta per affidare ad altra impresa i lavori ove la stazione appaltante non si sia avvalsa della facoltà prevista dall'articolo 110, comma 1. 9. Nei casi di risoluzione del contratto di appalto dichiarata dalla stazione appaltante l'appaltatore deve provvedere al ripiegamento dei cantieri già allestiti e allo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze nel termine a tale fine assegnato dalla stessa stazione appaltante; in caso di mancato rispetto del termine assegnato, la stazione appaltante provvede d'ufficio addebitando all'appaltatore i relativi oneri e spese. La stazione appaltante, in alternativa all'esecuzione di eventuali provvedimenti giurisdizionali cautelari, possessori o d'urgenza comunque denominati che inibiscano o ritardino il ripiegamento dei cantieri o lo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze, può depositare cauzione in conto vincolato a favore dell'appaltatore o prestare fideiussione bancaria o polizza assicurativa con le modalità di cui all'articolo 93, pari all'uno per cento del valore del contratto. Resta fermo il diritto dell'appaltatore di agire per il risarcimento dei danni.
[24] Resta anche l'ipotesi della risoluzione per ritardi che incidano notevolmente sull'esecuzione della prestazione e sull'interesse pubblico
[25] Se l'appaltatore omette di rispondere, nel termine assegnatogli, alle contestazioni mossegli, il responsabile del procedimento, deve necessariamente proporre la risoluzione del contratto all’amministrazione. È da ritenere che il termine assegnato all’appaltatore non abbia natura perentoria e che perciò tanto il responsabile del procedimento quanto l’organo deliberante dell’amministrazione possano prendere in considerazione, e perciò valutare, le controdeduzioni dell’appaltatore tardive, purché naturalmente siano ricevute prima della adozione dei provvedimenti di rispettiva competenza (proposta e decisione).
[26] Il provvedimento amministrativo, nel diritto amministrativo, indica un particolare tipo di atto amministrativo con il quale un'autorità amministrativa manifesta la propria volontà, nell'esercizio dei suoi poteri.
[27] Sul principio di neutralità della amministrazione pubblica vedi  R. PEREZ,  Il «Piano Brunetta» e la riforma della pubblica amministrazione, Santarcangelo di Romagna,  2010.
[28] La massima:  L’art. 1, comma 13, del d.l. n. 135 del 2012, non corrisponde all’attribuzione di una potestà, che consente all’Amministrazione – già parte di un rapporto contrattuale a regolazione civilistica – di intervenire ab extra sul rapporto stesso in forma e modalità autoritativa, in modo tale da svincolarsi dagli obblighi contrattuali assunti per affermate esigenze di interesse pubblico. Non confermano tale indirizzo, infatti, né il testo, né la ratio della norma in esame: il primo, in quanto assegna in modo esplicito all’Amministrazione un “diritto” di recesso e la seconda, coincidente con la possibilità di ottenere prestazioni “migliorative”, in base ai parametri delle convenzioni stipulate da Consip, viene perseguita con una fattispecie di recesso unilaterale del contratto, che costituisce mera specificazione di quanto comunque consentito al committente, nell’ambito dei contratti di appalto, a norma dell’art. 1671 Cod. civ 2. Costituisce esercizio di un potere a carattere contrattuale dell’Amministrazione – in forza di una clausola contrattuale inserita ex lege, a norma dell’art. 1339 Cod. civ. – e non espressione di una potestà pubblica, che sarebbe in sé estrinseca al sinallagma contrattuale, l’esercizio del diritto di recesso, che la legge riconosce nella situazione anzidetta.
[29] In dottrina si segnalano: A.D. GIANNINI, In tema di recesso unilaterale dal contratto di appalto, in Giur. op. pubbl., 1-1941, 344 ss.; A. CIANFLONE, G. GIOVANNINI, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2012, 1910 ss.; G. PELLEGRINO, Art. 134. Recesso, in Codice degli appalti pubblici, a cura di R. GAROFOLI, G. FERRARI, Roma, Neldiritto, 2012; F. GOGGIAMANI, Il recesso, in Trattato sui Contratti Pubblici, diretto da M.A. SANDULLI, R. DE NICTOLIS, R. GAROFOLI, Milano, 2008, 3661 ss.; F.G. SCOCA, A. POLICE, La risoluzione del contratto di appalto di opere pubbliche, in Riv. trim. app., 1997, 44 ss.; M. STOLFI, Appalto (contratto di), in Enc. Dir., Milano, 1958, II, 629 ss.; M. NUNZIATA, Il recesso delle Stazioni Appaltanti dal contratto di appalto pubblico, in Codice degli appalti pubblici, a cura di A. CANCRINI, C. FRANCHINI, S. VINTI, Torino, 2014, 877 ss.; L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, Milano, 1988; D. RUBINO, L’appalto, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. Vassalli, Torino, 1980; W. D’AVANZO, Recesso (Diritto civile), in Noviss. Dig. it., XIV, Torino, 1968, 1028 ss.;
[30]  Consiglio di Stato, sez. IV, 28 febbraio 1956, n. 281, in  Il Consiglio di Stato, 1956,148;
[31] Corte di  Cassazione,  SS.UU., 22 settembre 1984, n. 4819, in Il Foro Italiano, 1985, I, 132, con nota di C.M. BARONE;
[32] T.A.R. Lazio, sezione II, 30 aprile 1980, n.290, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1980, II, 106;
[33] Corte di Cassazione,  SS.UU., 26 luglio 1985, n.4342, in Archivio giuridico opere pubbliche, 1985,  1497-1502;
[34]  Corte di Cassazione, 30 luglio 1996, n.6908, in Il Foro italiano, 1997,I, 891-902:
[35] T.A.R. LAZIO, sez. III, 7 novembre 1984, n.557, in I Tribunali Amministrativi Regionali, 1984, I, 3602;
[36] T.A.R. Puglia, sez. Lecce, 12 febbraio 1986, n.23, in Archivio giuridico delle opere pubbliche, 1986, 1443.


Note e riferimenti bibliografici