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Pubbl. Ven, 13 Ott 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

I reati culturalmente orientati

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Michele Motta


La ´sala degli specchi´ del Codice penale è salva (forse). Una rassegna giurisprudenziale sul tema dei reati culturalmente orientati e la rilevanza attribuita dalla Corte di Cassazione alla categoria delle ´scriminanti culturali´.


Sommario: 1. Premessa - 2. La nozione di reato culturalmente orientato e la categoria delle scriminanti culturali - 3. Gli interventi della giurisprudenza di legittimità. - 3.1. Il caso dell'indiano "Sikh". - 3.2. Il caso della sposa bambina indiana. - 3.3. Il caso del marocchino, di fede musulmana, violento con i membri della propria famiglia. - 3.4. Il caso dei bambini 'rom' costretti all'accattonaggio. - 4. Considerazioni conclusive.

 

1. Premessa.

Il fenomeno dell'immigrazione, di stampo immediatamente sociologico-culturale (idiomi, piatti, e tradizioni folcloristiche non conosciute fino ad un ventennio addietro), porta in seno anche una serie di conseguenze mediatamente giuridiche.

Alcune hanno natura fisiologica, attenendo strutturalmente alla civile convivenza di etnie, diverse e diversificate, all'interno dello stesso luogo (si pensi alla questione concernente la legittimità, o meno, della presenza di alcuni simboli, quali il crocifisso, all'interno dei luoghi aperti al pubblico); altre, viceversa, esprimono la patologica incompatibilità tra l'ordinamento giuridico penale interno e le regole vigenti nel paese di origine.

L'ordinamento giuridico interno ritiene di dover predominare sulle regole del 'singolo gruppo etnico', in quanto espressione della 'cultura locale maggioritaria' (1); il secondo, invece, pretende che il primo si declini parzialmente, prendendo atto della sempre più imponente immagine che la multietnia riflette allorché, slegata dalle catene che tentavano di arginare il problema, si è diretta verso la 'sala degli specchi' del Codice Penale Italiano. 

2. La nozione di reato culturalmente orientato e la categoria delle scriminanti culturali.

La categoria dei 'reati culturalmente orientati' rappresenta quasi certamente il vessillo delle conseguenze giuridico-patologiche dell'immigrazione, ed è proprio tale fenomeno ad aver necessitato di un cospicuo intervento della giurisprudenza di merito e di legittimità, altresì suscitando, e non poco, l'attenzione della più oculata dottrina. 

Il reato può dirsi 'culturalmente orientato' allorché sussistano due diverse condizioni: la prima, di carattere obiettivo, richiede che il comportamento integri una fattispecie di reato secondo l'ordinamento giuridico penale interno; la seconda, di carattere soggettivo, richiede che l'azione delittuosa sia realizzata da un immigrato, o comunque da un appartenente ad una cultura minoritaria, il cui gruppo di appartenenza giustifica, accetta, promuove o approva il comportamento realizzato.

Ci si domanda, a questo punto, se le esimenti disciplinate all'interno del Codice Penale possano trovare applicazione allorché il sostrato sia di natura (non giuridica ma) sociale, culturale o religiosa.

Rispondere affermativamente all'interrogativo, vorrebbe dire ampliare lo spazio di operatività del 'giustificabile' (e, contestualmente, ridurre l'operatività del 'penalmente rilevante'), dando così cittadinanza giuridica alla categoria delle cd. 'scriminanti culturali', che si posizionerebbero a latere delle ordinarie 'scriminanti giuridiche'. Rispondere negativamente, invece, vorrebbe dire porre un 'freno' alle spinte esogene impedendo, in extremis, l'irruzione alla sala degli specchi.

La risoluzione dell'enigma diventa particolarmente complessa allorché entrano in gioco diritti costituzionalmente garantiti, i quali necessitano di un'inevitabile bilanciamento, a scapito dell'uno o dell'altro termine dell'alternativa.

In altre parole: il consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50, o l'esercizio di un diritto, di cui all'art. 51, possono essere invocati per giustificare il maltrattamento verso i membri della propria famiglia, sulla base di una asserita legittimazione religiosa alla correzione patriarcale?

Possono essere invocati per esimere le pratiche di infibulazione femminile, realizzate nel territorio italiano, sul presupposto di una legittimazione di matrice cultural-religiosa, o le pratiche di violenza sessuale, realizzate su spose-bambine ad opera dei loro 'mariti', sul presupposto di un doveroso adempimento ai doveri coniugali, secondo quanto consentito nel paese di origine?

Puó essere invocata l'ala protettrice delle esimenti a giustificazione dello sfruttamento dei minori - indotti a lavorare precocemente, ad accattonare, rubare o rapinare - in ragione dell'asserita prassi identificativa di un'etnia (rom), che qualifica tali condotte come 'ordinari comportamenti di un vero e proprio sistema di vita'? 

L'adempimento di un dovere, scriminante di cui all'art. 51, può operare allorché il 'dovere' da adempiere, sebbene integri un comportamento giuridicamente contrario all'ordine pubblico (la conduzione di un'arma astrattamente idonea a recare offesa personale), sia contestualmente l'espressione prima di un credo religioso? 

3. Gli interventi della giurisprudenza di legittimità.

Su questi importanti interrogativi non è mancata l'elaborazione della giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato la predominanza del sistema interno sulle condotte dei gruppi etnici allorché i comportamenti posti in essere da questi ultimi, lungi dal rappresentare fisiologiche manifestazioni di una diversità tollerabile, sfocino in patologiche incompatibilità con il tessuto penalistico. 

3.1. Il caso dell'indiano "Sikh".

Così, recentemente (2), la Corte si è occupata del caso di un indiano “sikh”, accusato del reato di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975, perché “portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18,5 idoneo all’offesa per le sue caratteristiche“.

Intimatagli la consegna, da parte dell'autorità locale, aveva rifiutato di adempiere adducendo la liceità del proprio comportamento alla luce dei precetti religiosi di appartenenza, secondo i quali gli elementi identificativi del turbante e del coltello dovessero essere continuamente recati con sé.

Il giudice di merito aveva già condannato l'indiano, sul presupposto del tradizionale insegnamento secondo il quale le consuetudini (per di più, nel caso di specie, qualificabili come tali unicamente nel paese di origine) non potessero avere, nell'ambito del diritto penale, alcuna funzione abrogatrice.

Nonostante l'imputato, dinanzi alla Corte di legittimità, avesse invocato l'art. 19 della Costituzione a tutela del proprio comportamento, quest'ultima rigetta il ricorso, affermando che una società multietnica votata alla pacifica convivenza, se è vero che non richiede un abbandono a priori delle pratiche culturali e religiose diffuse nel paese di provenienza, in coerenza con il pluralismo promosso dall'art. 2 Cost., impone per contro un limite invalicabile di fronte a comportamenti lesivi della dignità umana e dei valori della società ospitante. Di tali valori, e delle leggi vigenti nel paese in cui lo straniero sceglie liberamente di soggiornare, questi è tenuto a prenderne notizia prima del suo insediamento (all'occorrenza con l'aiuto di esperti del diritto) al fine di conoscere se, e in che misura, alcune delle proprie abitudini siano, all'interno del paese ospitante, ritenute intollerabili e pertanto oggetto di repressione penale. 

3.2. Il caso della sposa bambina indiana..

La Corte ha avuto modo di esprimersi (3) sulla responsabilità da attribuire al padre di una sposa-bambina indiana, rimasto inerme di fronte alle richieste di aiuto della figlia, così assecondando i soprusi sessuali del genero. La condotta omissiva adottata veniva giustificata sul presupposto che la sopraffazione nei confronti della moglie fosse, all'interno del contesto culturale indiano, condotta diffusa e socialmente tollerata.

Nel giudizio di merito, il G.U.P. condannava il genero (anch'esso minorenne) per il reato di maltrattamenti e per quello di violenza sessuale; per contro, riteneva che il padre della ragazza fosse colpevole unicamente del reato di maltrattamenti, non ritenendo che sussistessero gli estremi del concorso nel reato di violenza sessuale, che risultava pertanto 'assorbito'.

Il sostrato culturale indiano giustificava, a detta del G.U.P., la condotta connivente del padre che tollerava l'azione del genero nonostante le ripetute lamentele della giovane figlia. È intervenuta, su ricorso del Procuratore Generale della Corte d'Appello, la Corte di Cassazione.

In primo luogo, questa rimprovera al G.U.P. la superficialità mostrata nell'aver attribuito al padre della sposa-bambina una 'patente di sub-cultura', sulla quale far leva per esimerlo dal concorso (omissivo) nel reato di violenza sessuale. Atteso che nessuna 'scriminante culturale' possa essere legittimamente invocata, il caso in esame deve essere analizzato al pari di ogni altra azione delittuosa concorsuale. 

In particolare, la causalità omissiva nel reato omissivo improprio è configurabile, ex artt. 40 co 2 e 110 cod. pen., a condizione:

- che l'omittente abbia, nei confronti del soggetto passivo, una posizione di garanzia; - che sia a conoscenza dell'azione doverosa su di lui incombente al ricorrere di una certa situazione tipica di obbligo;
- che sia a conoscenza dell'evento o comunque abbia la possibilità di conoscerlo (conoscibilità);
che abbia la possibilità soggettiva di impedirlo;
- che sussista un nesso di condizionamento tra l'azione omissiva e l'evento. 

Nel caso di specie, afferma il Collegio, si è instaurato un vero e proprio 'triangolo', caratterizzato in particolare da un 'patto di ferro' tra genero e suocero, allorché quest'ultimo costringeva la figlia a soddisfare i desideri sessuali del marito non assecondando la sua volontà contraria. Egli, titolare di una posizione di protezione nei confronti del bene giuridico 'integrità psico-fisica' della figlia, in luogo di impedire la realizzazione dell'evento lesivo, di cui era a conoscenza, e che aveva la possibilità di   Impedire, contribuiva, con la propria condotta omissiva, alla sua effettiva verificazione. Pertanto, la Corte estende la responsabilità del padre a titolo di concorso omissivo improprio nel reato di violenza sessuale, non potendo essere riservata alcuna rilevanza giuridica alla scriminante culturale invocata.

3.3. Il caso del marocchino, di fede musulmana, violento con i membri della propria famiglia.

In un'altra occasione (4) la giurisprudenza di legittimità ha ribadito il costante insegnamento in tema di esimenti culturali. 

In primo luogo ha ribadito la sussistenza dell'obbligo giuridico, gravante in capo a chi si inserisca in un contesto culturale diverso da quello di provenienza, di verificare la compatibilità del proprio stile di vita rispetto all'ordinamento giuridico del paese di destinazione. Successivamente, ha escluso l'invocabilità dell'esimente dell'esercizio di un diritto, anche nella forma 'putativa' (ex artt. 51 e 59 co 4 cod. pen.), da parte dello straniero - marocchino di fede musulmana - il quale avrebbe sottoposto la moglie a percosse e maltrattamenti vari, durante i diffusi stati di ubriachezza, costringendola a rapporti sessuali (anche durante l'avanzato stato di gravidanza della stessa), nonché omettendo la corresponsione dei mezzi di sussistenza necessari al sostentamento della stessa e della prole. Queste condotte, statuisce la Corte, sarebbero contrarie a qualsiasi principio, non rappresentando espressione di alcun contesto culturale straniero, a maggior ragione di quello di appartenenza dell’imputato, avendo chiarito lo stesso ricorrente, in una propria memoria, come "esuli dalla cultura del marocchino di fede musulmana di stretta osservanza non prendersi cura del primo figlio di sesso maschile, specie nella prima infanzia, privandolo del necessario" (5).

3.4. Il caso dei bambini 'rom' costretti all'accattonaggio.

Alcuni anni fa, la Corte di Cassazione (6) valutava preliminarmente la questione concernente l'operatività dell'esimente, e in subordine quella concernente la qualificazione giuridica, con riferimento al reato compiuto dai genitori rom, nei confronti dei figli minori, costretti a tenere condotte di accattonaggio.

Con riguardo al primo profilo, la Corte esclude la possibilità di invocare, in tema di riduzione e mantenimento in servitù (art. 600 c.p.), la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto, per richiamo alle consuetudini delle popolazioni zingare di usare i bambini nell’accattonaggio, essendo l'efficacia di una consuetudine subordinata all'espresso richiamo da parte di una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all’art. 8 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Con riguardo poi alla richiesta di ricondurre la condotta, tuttalpiù, nell'ambito di operatività del (più mite) reato di maltrattamento (art. 572 cod. pen.), piuttosto che in quello (più grave) del reato di riduzione e mantenimento in schiavitù (art. 600 cod. pen.), valorizzando il rilievo per cui, alla luce delle millenarie tradizioni afferenti i popoli di etnia rom, l'accattonaggio sarebbe espressione di un vero e proprio sistema di vita, la Corte ribadisce la correttezza della qualificazione giuridica compiuta dalle precedenti elaborazioni giurisprudenziali. Ritiene pertanto che siano ravvisabili gli estremi del reato di riduzione in schiavitù nella condotta di colui che mantiene lo stato di soggezione continuativa del soggetto passivo, senza che la sua mozione culturale o di costume possa dirsi idonea ad escludere l’elemento psicologico del reato.

4. Considerazioni conclusive.

La sala degli specchi è salva. Forse. O quantomeno quella italiana.

Attesa  l'indiscutibile correttezza giuridica (e la totale condivisibilità) dell'elaborazione ermeneutica della Corte di legittimità, ritengo tuttavia che non meriti di essere sottovalutato - né tantomeno denigrato -  lo 'straniamento' percepito dallo straniero che si veda condannare alla luce di un sistema di regole profondamente diverso da quello di origine. 

Straniamento che, (per quanto sia pacificamente irrilevante sotto il profilo delle conseguenze giuridiche), può essere compreso solo invertendo le posizioni ed  indossandone i panni.

Ed eravamo stranieri, noi italiani, quando l'opinione pubblica fu indignata alla notizia dell'arresto (e della successiva condanna da parte del tribunale svedese), di un italiano accusato di aver percosso il figlio al ristorante (7); in quell'occasione, un ragionamento logico-giuridico avrebbe forse dovuto prendere il posto dell'aspra polemica generatasi, e la cui eco, ancor oggi, riecheggia nella 'sala degli specchi' del codice. Quello svedese, però.

Potrebbe allora concludersi - in maniera volutamente provocatoria - che, mutatis mutandis, l'atteggiamento di plauso (indiscusso) verso l'elaborazione della Corte di legittimità, per dirsi totalmente coerente, dovrebbe essere necessariamente accompagnato dalla consapevolezza che, in diritto come in ogni altra scienza esatta, ad ogni formula diretta ne corrisponde una inversa. E che non può accettarsi la veridicità scientifica e i meccanismi di funzionamento della prima, se non accettando la condizione di esistenza della seconda.

 

Note e riferimenti bibliografici
(1) per tutti BASILE, immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano, 2010.
(2) Cassazione Penale, Prima Sezione, nº 24084/2017.
(3) Cassazione Penale, Terza Sezione, nº 40663/2016.
(4) Cassazione Penale, Terza Sezione, nº 14960/2015.
(5) Nel caso di specie potrebbe persino giungersi ad escludere la riconducibilità del caso di specie nell'alveo dei 'reati culturalmente orientati'. Ove si aderisse alla ricostruzione dottrinale enunciata in precedenza, rileverebbe l'assenza del secondo requisito, di carattere subiettivo, secondo il quale potrebbe aversi tale tipologia di reato solo a condizione (necessaria ma non sufficiente) che la condotta posta in essere sia tollerata, approvata o promossa dal gruppo etnico di appartenenza. Ne conseguirebbe, pertanto, la configurazione del reato de quo come reato ordinario.
(6) Cassazione Penale, Quinta Sezione, nº 37368/2012.
(7) L'uomo aveva contravvenuto ad una legge svedese, vigente sin dagli anni '60, che impedisce ogni forma di offesa (anche lieve) nei confronti dei minori. Venne pertanto condannato al pagamento di 725 euro.