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Pubbl. Mar, 20 Giu 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

La responsabilità degli enti derivante da reato

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Giuseppe Mainas


Alcune norme incriminatrici non inseriscono nel testo la dizione “persona fisica”, ma si appone il sostantivo “chiunque”; da ciò si è iniziato a domandarsi se quel riferimento generico debba riferirsi necessariamente alla persona fisica ovvero anche a quella non fisica.


Sommario: 1. Premessa; 2. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali; 3. Responsabilità giuridica dell'ente; 4. Natura giuridica e ammissibilità della responsabilità.

1. Premessa

Precedentemente, la questione era di scarsissimo rilievo, in quanto si partiva dall’assunto secondo cui «societas delinquere non potest». Tutto ciò perché, prima del decreto legilsativo n. 231/2001, ci si è sempre chiesti se potesse esistere una responsabilità penale di persone diverse da quelle fisiche. L’interrogativo è lecito perché molte delle norme incriminatrici non inseriscono nel testo la dizione di “persona fisica”, ma si appone il sostantivo “chiunque”; da ciò si è iniziato a domandarsi se quel riferimento generico debba riferirsi necessariamente alla persona fisica ovvero anche a quella non fisica, sia questa l’ente collettivo non personificato sia esso l’ente personificato. Il dibattito, svoltosi ante 2001, portò a concludere l’inammissibilità nel nostro ordinamento di una responsabilità penale delle persone fisiche. Tutto ciò sulla base di plurime argomentazioni: la giurisprudenza mai prima dell’introduzione con il decreto nel 2001 aveva riconosciuto la responsabilità delle società e gli argomenti principali sui quali si fondava la tesi dell’inammissibilità erano fondamentalmente tratti dall’art. 27 Cost. e dall’art. 197 c.p.

2. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali

La tesi dell’inammissibilità costituzionale si fondava sul principio di responsabilità penale personale, fondata su due argomenti: 

1) Una interpretazione evolutiva fornita dalla Corte Cost. con la sent. n. 364/1988, inerente l’art. 5 c.p. secondo cui il principio derivante dalla norma costituzionale afferma che la responsabilità personale va intesa come responsabilità colpevole, come divieto della responsabilità oggettiva. Come principio che pone in capo all’autore del fatto una partecipazione psichica, una volizione in ordine al fatto, un assunto che spiega quella rimproverabilità, che a sua volta spiega il finalismo rieducativo della pena di cui all’art. 27, co. 3.
Questo assunto fondamentale era ritenuto sicuramente incompatibile con l’essenza stessa dell’ente. Questa partecipazione psichica, questa consapevole partecipazione non poteva essere garantita dall’ente, diversamente da quanto potrebbe esserci per la persona fisica. Così assumendo la totale inammissibilità di tale attribuibilità.

L’art. 27 Cost. è stato inteso, nella parte in cui recita che la responsabilità penale è personale, in una accezione minima come divieto di responsabilità per fatto del terzo. Poi in una accezione più evoluta come divieto di responsabilità oggettiva non supportata da una partecipazione psichica. La dottrina sosteneva allora che sarebbe ostativa ad una responsabilità penale dell’ente l’interpretazione evolutiva del principio di personalità della responsabilità penale, quella cioè che induce a sostenere un’inammissibilità della responsabilità penale oggettiva in capo al soggetto che non ha espresso alcuna partecipazione psichica.

Ma anche qualora il citato articolo costituzionale fondi un divieto di responsabilità per fatto del terzo, sarebbe comunque inammissibile una responsabilità penale dell’ente perché, a fronte di scelte criminali commesse dai vertici dell’ente, detta responsabilizzazione penale dell’ente, nella sua interezza, recherebbe con sé un meccanismo di repressione criminale di tutti gli altri soggetti, che pur facendo parte dell’ente, in alcun modo esprimono la sua volontà e quindi la scelta criminale. Sicché si finirebbe per coinvolgere anche il socio-terzo rispetto alle condotte penalmente rilevanti poste in essere. Socio che non ha concorso alla realizzazione dell’intento criminale, quindi in caso contrario verrebbe implicato per fatto del terzo, con un evidente sbarramento e relativa violazione del suddetto principio costituzionale, fondato sull’art. 27 Cost.

A livello sub-costituzionale, un argomento ostativo era tratto dall’art. 197 c.p., il quale prevede che allorché vengano in considerazione fatti contravvenzionali commessi da amministratori, rappresentanti e altre tipologie soggettive, e allorché il soggetto sia condannato a pena pecuniaria (ammenda), nel momento in cui la persona condannata non sia solvibile, scatta la responsabilità sussidiaria dell’ente. È stato detto che l’art. 197 c.p., laddove prevede la responsabilità dell’ente, anche se solo di tipo patrimoniale e sussidiario, attesterebbe la volontà dell’ordinamento di escludere la responsabilità dell’ente e ciò in quanto quella contemplata all’art. 197 c.p. non sarebbe penale, ma esclusivamente di tipo patrimoniale/sussidiario nell’ipotesi in cui la persona fisica responsabile risulti non solvibile.

2) Non mancava chi sostenne, a fronte e in opposizione a questa tesi, che tali argomenti avrebbero potuto essere superati già allora. Infatti, si affermava che spesso la decisione di commettere il reato non veniva adottata dalla singola persona fisica, ma era frutto di una politica aziendale e di impresa. Politica sostenuta dall’ente nella sua interezza. In ipotesi siffatte, sanzionare esclusivamente la persona fisica e non l’ente titolare/autore che ha deliberato quella precisa politica criminale, da un lato significherebbe semplificare il meccanismo di accertamento della responsabilità, ma soprattutto renderebbe inefficace la funzione deterrente della pena, perché punire solo la persona fisica a fronte di enti nella cui organizzazione principale la mera persona fisica è intercambiabile, significherebbe consentire all’ente sostituire la persona fisica punita e proseguire nella sua politica aziendale criminale. Così facendo si andrebbe a svilire la vera portata della norma penale, escludendo la portata special-preventiva della pena, se non inflitta anche all’ente nelle specifiche ipotesi.

Ma ancora si sostenne che non è vero che la responsabilità penale personale – nella sua accezione più evoluta di responsabilità personale colpevole – non sia applicabile all’ente, perché anche la nozione di colpa penale può essere letta in modo evolutivo ed essere estesa alle persone giuridiche, intendendola come colpa di organizzazione (parimenti a quanto avviene in altri ordinamenti, es. ordinamenti di tipo anglosassone). Così l’art. 27 Cost. non venne inteso come uno sbarramento invalicabile alla mancata imputabilità penale del fatto all’ente.

3. Responsabilità giuridica dell'ente

Il decreto legislativo n. 231/2001 ha previsto che, qualora soggetti operanti all’interno della compagine organizzativa di alcune tipologie di enti, i quali rivestano certi ruoli o espletino precise mansioni ex art. 5 del decreto, e commettano nell’interesse o a vantaggio dell’ente - e non nell’interesse esclusivo proprio - reati rientranti nel novero dei cd. reati presupposto, ex art. 25 e ss., possa scattare la responsabilità amministrativa dipendente da reato in capo all’ente.

Il decreto prevede che verificatesi tre condizioni (sono principalmente tre le condizioni integranti la fattispecie oggettiva della responsabilità dell’ente) possa contestarsi all’ente, ferma la responsabilità penale della persona fisica che il reato presupposto lo ha commesso, questa autonoma, distinta - pur se connessa - responsabilità della persona giuridica.

Le tre condizioni:

  1. Soggetti ex art. 5, co. 1 d.lgs. 231/2001, che svolgano precise mansioni e che ricoprano un preciso ruolo all’interno della società;
  2. Il reato non deve essere commesso per un interesse proprio della persona fisica, bensì – come recita la norma – nell’interesse o a vantaggio dell’ente; formulazione che ha dato luogo a annosi dibattiti per l’interpretazione delle suddette dizioni (risolti da Sez. Unite Tyssen-Krupp 2014).
  3. Il soggetto-persona fisica deve aver commesso non un reato qualsiasi, ma uno dei reati-presupposto per i quali e solo per i quali la legge fa scattare la responsabilità dell’ente.

Verificatesi queste condizioni la persona fisica risponderà del reato e conseguentemente sarà possibile contestare parimenti all’ente la responsabilità in oggetto. Salvo che l’ente non dimostri di aver adottato, efficacemente, modelli di organizzazione idonei, cioè a meno che non dia la prova della non addebitabilità, della non commissibilità di quel reato, per un’omessa attuazione di un modello di legalità aziendale idoneo a prevenire la commissione di quel reato, così che quel reato sia stato commesso non perché si sia avuta una omissione dell’ente, ma perché il soggetto-persona fisica abbia fraudolentemente eluso lo stesso.

Il decreto affianca così, alla responsabilità penale della persona fisica, una responsabilità dell’ente. In realtà affianca senza però far coincidere le due fattispecie di responsabilità, perché quella dell’ente è molto più articolata: mentre la persona fisica risponde se del reato appaiono l’elemento oggettivo e quello soggettivo, quella dell’ente si compone di una pluralità di elementi, tra i quali la condotta del soggetto agente è solo uno dei tre necessari e fondamentali per la configurazione del fatto illecito addebitabile, a cui si aggiunge la commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente, la commissione da parte di uno specifico soggetto e ancora una colpa di organizzazione o mancata adozione o insufficiente ed inefficace attuazione dei modelli di organizzazione in funzione di prevenzione.

La responsabilità dell’ente, anche se definita amministrativa dipendete da reato presupposto, ricade nella competenza del giudice penale e non dell’autorità amministrativa (pur se definita in quanto tale). L’accertamento penale deve essere svolto all’interno di tutte le procedure e le garanzie proprie del procedimento penale a carico della persona fisica (ex artt. 34 e 35 d.lgs 231/2001).

Il problema sullo fondo si pone per la natura giuridica della responsabilità dell’ente: nonostante i continui interventi della giurisprudenza, Cassazione e Corte di Giustizia UE 2012, abbiano propeso per la natura amministrativa, nel dibattito è emersa la tesi della natura penale, di quella amministrativa di un tertium genus; sullo sfondo il problema di fondo che accomuna il dibattito si svolge soprattutto attorno alla realtà della natura giuridica della stessa. Il legislatore con il decreto in commento, che disciplina la responsabilità dell’ente, ha voluto superare l’assunto societas delinquere non potest. Questione a cui è risultata intimamente connessa quella dell’ammissibilità della costituzione di parte civile proposta direttamente nei confronti dell’ente.

4. Natura giuridica e ammissibilità della responsabilità

A) Ambito soggettivo di applicazione, a chi si applica il decreto 231/2001: art. 1, persone giuridiche, associazioni, società, soggetti anche privi di personalità giuridica, precisando che non si applica allo Stato, agli enti territoriali, agli enti pubblici economici, agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale. Nonostante questo impegno descritto del legislatore al fine di perimetrale l’ambito soggettivo di applicazione, sono sorti comunque ulteriori quesiti a riguardo: ci si è chiesti se fosse applicabile la disciplina all’impresa individuale, alle società capogruppo, alle holding, alle società locali miste, ecc.

B) Interesse o vantaggio: che cosa deve intendersi precisamente? Interesse e vantaggio (la norma afferma «il reato deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente») sono due nozioni tra loro equivalenti, ovvero sono due criteri di addebito diversi, ontologicamente distinti? Sono criteri alternativi, per cui è sufficiente la presenza di uno di essi per poter configurare il reato, alla presenza di ogni ulteriore requisito richiesto? Prima questione sulla quale la Cassazione ripetutamente è intervenuta.
Dal momento in cui il legislatore ha iniziato ad inserire nel catalogo dei reati presupposto quelli colposi (omicidio colposo in violazione delle norme sull’antinfortunistica sui luoghi di lavoro, caso Tyssen), a partire cioè da quando è possibile contestare all’ente la responsabilità di un reato commesso dall’amministratore di tipo tuttavia colposo, ci si è chiesti come il criterio dell’interesse possa ritenersi compatibile con la struttura colposa del reato presupposto: quando il reato presupposto è doloso, non occorre la condotta e l'evento, si può finalizzare la condotta al soddisfacimento dell’interesse dell’ente; si può commettere il reato presupposto proprio nell’interesse dell’ente, senza alcun dubbio nascente a riguardo. Diversamente quando il reato è colposo, cioè quando lo scopo, l’evento, non è voluto, ci si domanda come questo possa essere commesso nell’interesse dell’ente, se l’ubi consistam della colpa è nell’involontarietà dell’evento.
Non volendosi l’evento, come sarà possibile finalizzare la condotta al perseguimento dell’interesse dell’ente? Come la colpa può essere compatibile con la responsabilità dell’ente derivante dalla natura colposa del reato presupposto?

C) Posto che l’ente può dimostrare la sua non colpa, provando la sua non negligenza nell’adozione di specifici modelli organizzativi, si pone il problema di quali e come debbano essere posti in essere questi modelli organizzativi. Inoltre, si dibatte sulla natura giuridica della mancata punibilità in relazione all’adozione di detti modelli, se questo deve essere ricondotto a una causa di estinzione (o esclusione) della punibilità. Insomma, qual è la natura giuridica dei modelli di organizzazione?

D) Apparato sanzionatorio contemplato: sul piano sanzionatorio sono sorte due questioni, sulle quali sono intervenute le Sezioni Unite, che hanno riguardato la confisca, che il decreto prevede applicabile in danno dell’ente, nel momento in cui venga in essere una responsabilità dello stesso. Posto che la disposizione relativa fa riferimento alla confisca del profitto, la problematica sorge attorno all’individuazione propria di quest’ultimo, se debba riguardarsi all’utile netto o all’utile lordo, tematica connessa al distinguo che si pone attorno ai reati contratto e ai reati in contratto. Il primo problema che si sta affrontando non ha riguardato precisamente la confisca bensì la nozione di profitto confiscabile, in particolare la sua identificabilità nel corrispettivo del reato presupposto, ovvero nell’utile netto realizzato dall’ente. Ad esempio, il reato presupposto è corruzione o truffa commesso in danno dell’ente pubblico da un proprio amministratore per ottenere un appalto, e a fronte del quale la P.A. versa nei confronti dello stesso un corrispettivo per la realizzazione dell’opera. Posto che l’art. 19, allorché sia accertata l’intera fattispecie che fa sorgere la responsabilità dell’ente, prevede la confisca del profitto realizzato, questo coincide con l’intero corrispettivo del contratto di appalto, ottenuto sulla base di un reato presupposto di truffa, ovvero deve riguardarsi il profitto depurato dei costi che la società ha sostenuto per la realizzazione dell’opera, cioè nell’utile netto?

E) Riguardo ai già accennati criteri dell'interesse e del vantaggio, le questioni al riguardo sono due:

E1) Posto che l’art. 5  deve essere commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente, queste espressioni esplicano il medesimo criterio, ovvero richiamano criteri di addebito diversi ancorché alternativi? La questione è stata risolta in modo pacifico: si pone la diversità dell’interesse rispetto al vantaggio e anche dell’alternatività
Il criterio dell’interesse evoca la destinazione finalistica che il soggetto al momento del reato presupposto si è configurato, sta ad indicare ciò che il soggetto si è rappresentato e voluto al momento della commissione del reato, il modo con cui il soggetto a finalizzato la commissione del reato al soddisfacimento di un obiettivo non proprio ma dell’ente. Tanto è vero che la giurisprudenza precisa che la verifica della sussistenza dell’interesse deve essere rapportata alla condotta, alla condotta, al momento iniziale dell’agire del soggetto, quali presupposti si è configurato il soggetto nell’istante in cui ha posto inizialmente in essere la condotta incriminatrice.
Il vantaggio con riferimento all’ente è quanto il soggetto è riuscito a realizzare con la commissione del reato, non ciò che ha voluto realizzare come vero e proprio reato; il vantaggio va accertato con un criterio ex post, applicando il metodo dell’accertamento causale, volto a verificare se un profitto o un vantaggio proprio dell’ente sia la conseguenza del reato da parte dell’autore dello stesso.

La giurisprudenza ha affermato che sono concettualmente diversi ed alternativi, può accadere che se ne verifichi in concreto l’uno senza che l’altro venga in essere, può aversi la condotta che si pone nell’interesse dell’ente senza che però concretamente ne sia derivato alcun vantaggio per lo stesso, ovvero può esserci un vantaggio senza che al momento della commissione l’autore si sia prefigurato la realizzazione del reato presupposto. C’è piena alternatività, con un unico limite: l'art. 8. Quando il reato è commesso non nell’interesse in tutto o in parte dell’ente, ma nell’interesse esclusivo dell’autore della condotta non può scattare alcuna responsabilità dell’ente, anche se da questo fatto ne sia derivato un vantaggio dell’ente. L’esclusività dell’interesse da parte dell’autore pone una causa di non punibilità per l’ente.

E2) Compatibilità di questo criterio dell’interesse con la natura colposa di alcuni reati presupposti. Proprio perché il criterio dell’interesse sta a descrivere il fatto che il soggetto al momento della commissione del reato ha destinato finalisticamente la realizzazione dello stesso al soddisfacimento e al perseguimento di un interesse dell’ente, ci si chiede come questa destinazione finalistica possa essere compatibile con la natura colposa del reato che ne presuppone la non volontà dell’evento. Elemento primario della colpa è l’involontarietà del fatto, che la distingue dal dolo (che si connota per coscienza e volontà). Come è possibile finalizzare all’interesse dell’ente un reato di cui non si vuole l’evento finale, condotta che si pone in essere senza che si voglia il risultato finale? La questione si è posta negli ultimi anni soprattutto quando l’addebitabilità derivi dal reato ex art. 25-septies, lesioni o omicidio colposo in violazione delle norma sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, norme sulla cd. antinfortunistica. L’amministratore omette di adottare le cautele necessarie a limitare un evento derivante dalla deficienza proprio di sicurezza nei luoghi di lavoro.

Si è aperto un dibattito al riguardo: la dottrina ha affermato che proprio l’involontarietà del reato colposo presupposto impone di scartare tra i criteri di addebito dell’art. 5 quello dell’interesse e di far leva solamente su quello del vantaggio. Poiché i due sono diversi concettualmente, posto che l’interesse sarebbe accertabile ex ante, mentre il vantaggio ex post guardando al momento in cui si consuma definitivamente l’evento; posto che il reato colposo non può essere finalisticamente orientato al perseguimento dell’interesse dell’ente, non resta che il vantaggio. Allora la responsabilità dell’ente potrebbe venire in essere in relazione a questa precisa tipologia di reati nel momento in cui si pone un accertamento della colpa con un giudizio ex post, che l’ente per effetto del reato presupposto abbia conseguito un vantaggio. Si è esclusa l’operatività del criterio dell’interesse sulla base della sola e mera operatività del criterio del vantaggio, con accertamento causale ex post. Questa tesi è stata duramente avversata e di conseguenza non seguita dalla giurisprudenza.

Così argomentando, una parte della critica ritiene che in questo modo si giunga ad una interpretatio abrogans della norma, nella parte in cui, fermo il doppio criterio dell’interesse o del vantaggio, si è voluto inserire nel catalogo dei reati presupposto quelli colposi. Ritenendo che il reato colposo sia del tutto incompatibile con il criterio dell’interesse, si giunge all’interpretazione abrogatrice del decreto 231/2001, nella parte in cui affida l’addebitabilità al duplice criterio e non al solo vantaggio. Ma soprattutto si è detto che limitare la responsabilità al solo vantaggio, giunge ad escluderla completamente, perché questo in concreto non potrebbe mai apparire: l’utile dell’ente consiste nel risparmio di spesa che l’ente realizza per mezzo della mancata installazione degli impianti e delle cautele idonee. Si ha un mero vantaggio pecuniario, sub specie di risparmio di spesa, che al momento dell’accertamento del reato è oltremodo superato dai danni, dai pregiudizi patrimoniali che l’ente subisce proprio per il fatto della realizzazione del reato. Infatti, a seguito dell’accertamento, scatta il sequestro dell’azienda, scatta l’inibitoria, scattano le sanzioni, che annullerebbero i vantaggi perseguiti con l’omissione. Cosicché o torna in auge il criterio dell’interesse o non si avrebbe alcuna perseguibilità dell’ente in quanto il vantaggio non si avrebbe in concreto per i motivi suddetti.

Ragion per cui torna a domandarsi come la responsabilità possa convivere con la natura colposa del reato. In giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, è passata la tesi per la quale occorre distinguere nella definizione dell’ubi consistam dell’interesse a seconda che il reato presupposto sia doloso o colposo. Nel primo caso, dal momento in cui devono rappresentarsi tutti gli elementi del reato condotta ed evento, l’interesse sussiste se quel soggetto voluto il reato nella sua interezza, lo ha destinato nel pieno soddisfacimento dell’interesse dell’ente. Diversamente quando il reato è colposo e il soggetto non può volere l’evento, ma può rappresentarsi e volere la condotta violativa della regola cautelare, ferma cioè l’involontarietà dell’evento, sussiste però la piena volontà della condotta; l’interesse può sussistere per il solo fatto che il soggetto abbia destinato, orientato, finalizzato al soddisfacimento dell’interesse dell’ente la frazione di reato che ha voluto, cioè la condotta violativa senza l’evento. È sufficiente la volontà della condotta violativa e solo quella all’interesse dell’ente, data la mancata rappresentazione dell’evento. Condotta violativa che configura un interesse realizzato nel risparmio di spesa e nella maggiore efficacia produttiva: in questi casi può affermarsi che il soggetto ha destinato al soddisfacimento dell’interesse dell’ente ciò che ha voluto del reato, cioè la mera condotta. Sussiste il criterio di addebito ancorché non ci sia il vantaggio eliso dalle conseguenze negative derivanti dall’accertamento del reato (Sez. Unite Cass. 2014, caso Tyssen-Krupp).

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