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Pubbl. Sab, 10 Giu 2017

Prescrivono diete in palestra, ma non sono dietisti: è esercizio abusivo della professione

Fabio Giuseppe Squillaci


La Corte di Cassazione con la sentenza 20281 del 30 marzo 2017 ha riconosciuto la penale responsabilità ex art. 348 c.p. di alcuni istruttori dediti a prescrivere nelle loro palestre, in totale assenza di competenze settoriali ed in violazione della normativa vigente, diete personalizzate arrogandosi facoltà spettanti al biologo nutrizionista


La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 20281 del 30 marzo e depositata in cancelleria il 28 aprile scorso ha riconosciuto la penale responsabilità di alcuni istruttori dediti a prescrivere nelle loro palestre, in totale assenza di competenze settoriali ed in violazione della normativa vigente, diete personalizzate arrogandosi facoltà naturaliter spettanti al biologo nutrizionista. La pronuncia si segnala per la pregevole actio finum regundorum compiuta dal Collegio in ordine al reato di esercizio abusivo della professione rispetto a censure difensive orientate a dequotare le contestante condotte tanto da richiedere l’applicazione del 131-bis c.p.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 20281 del 30 marzo e depositata in cancelleria il 28 aprile scorso ha riconosciuto la penale responsabilità di alcuni istruttori dediti a prescrivere nelle loro palestre, in totale assenza di competenze settoriali ed in violazione della normativa vigente, diete personalizzate arrogandosi facoltà naturaliter spettanti al biologo nutrizionista. La pronuncia si segnala per la pregevole actio finum regundorum compiuta dal Collegio in ordine al reato di esercizio abusivo della professione rispetto a censure difensive orientate a dequotare le contestante condotte tanto da richiedere l’applicazione del 131-bis c.p.

L’art. 348 c.p. rientra nel Capo II del Titolo II rappresentando un esempio dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, finalizzati ad assicurare il buon andamento della P.A. garantendo il monopolio di quest’ultima in ordine alla gestione ed al controllo dei servizi pubblici o delle attività di pubblico interesse. Pur essendo al cospetto di un reato comune, istantaneo ed eventualmente abituale, la struttura della fattispecie si colora di predicati e requisiti tutt’altro che neutri. L'esercizio abusivo della professione è un reato solo eventualmente abituale, in quanto lo stesso può essere integrato dal compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione.

Ne consegue che per tale tipo di reati, i quali, per la loro stessa configurazione giuridica, postulano una ripetizione di condotte analoghe, distinte tra loro, ma sorrette da un unico elemento soggettivo ed unitariamente lesive del bene giuridico tutelato, è possibile operare una scissione della condotta del soggetto in singoli episodi delittuosi, i quali ben possono rientrare fra i reati scopo di un'associazione per delinquere. Non può tacersi in prima istanza della natura di norma penale in bianco, generalmente riconosciuta alla fattispecie. Il collegamento con i provvedimenti autorizzatori/abilitativi dello Stato inducono a ritenere che il precetto penale sia fortemente influenzato dalla componente extrapenale (sul punto giova ricordare quanto accaduto in tema di esercizio abusivo della professione di avvocato rispetto alle ipotesi di abilitazione dei praticanti, cfr. Cass. VI Sezione Penale, n. 11493/14). Il legislatore esplicitamente fa cenno ad una “professione”, quasi declassando altre attività lavorative manuali, per la quale sia necessaria una “speciale abilitazione”.

Questo eccesso di zelo che connota la fattispecie di una certa precisione espositiva, si accompagna ad una clausola comportamentale, ovvero l’abusività della condotta.  Il requisito dell'abusività richiede che la professione sia esercitata in mancanza dei requisiti prescritti dalla legge, come ad esempio il mancato conseguimento del titolo di studio o il mancato superamento dell'esame di Stato per ottenere l'abilitazione all'esercizio della professione. Integra, tuttavia, il reato anche la mancata iscrizione presso il corrispondente albo, non essendo sufficiente l’abilitazione se non accompagnata dal relativo adempimento formale.

Tutto ciò precisato, occorre puntualizzare che, se è fuori discussione che il reato di cui all'art. 348 c.p. è realizzato dallo svolgimento da parte di un soggetto non abilitato di attività che rientrano tra quelle tipiche o c.d. riservate di una specifica professione per il cui esercizio occorra essere muniti di un titolo abilitante, è non meno indubbio che, ai fini della affermazione di responsabilità dell'agente, si renda sempre necessario verificare la sussistenza e la commissione reali dell'atto professionale "tipico" e soprattutto delle specifiche ed effettive modalità con cui lo stesso è stato posto in essere. È sotto questo aspetto che la difesa degli imputati ha tentato di escluderne la punibilità rivendicando l'elargizione di generici consigli alimentari, rientranti nello svolgimento in un'attività di educazione alimentare, escludendo pertanto una condotta assimilabile nei fatti a quella di un nutrizionista.

Sulla scorta delle emergenze probatorie (documentazione particolareggiata sul fabbisogno calorico di ogni cliente) la Cassazione ha proceduto a confermare la condanna dei personal trainer valorizzando quanto affermato dalla giurisprudenza in modo costante. La Corte, richiamando una fattispecie relativa all'abusivo esercizio della professione di commercialista, ha statuito che “integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato” (cfr. Cass. SS.UU., n. 11545/2012). Nella specie le condotte degli imputati si manifestavano reiterate e particolareggiate, rappresentando una sorta di servizio aggiunto a quello proprio di fitness.

Del resto, l’art. 3. I. 24/05/1967 n. 396, alla lettera b) attribuisce alla competenza professionale del biologo la valutazione dei bisogni energetici e nutritivi dell'uomo, previsione di ampia portata e rispetto alla quale non sussiste il presupposto di fatto, rinvenibile nell'esercizio non esclusivo dell'attività, che secondo le indicazioni della nota sentenza delle Sezioni Unite (n. 11545/2012), escluderebbe nella specie la configurabilità del reato. Al contrario della disciplina in tema di contabilità e dichiarazione dei redditi, attività non esclusiva dei dottori commercialisti o dei ragionieri, ben potendo anche essere rimessa alla cura del singolo, non dotato di titolo abilitativo (salvo le condotte non episodiche), nel caso in questione, l'individuazione dei bisogni alimentari dell'uomo attraverso schemi fissati per il singolo con rigide previsioni e prescrizioni, se non è esclusiva del medico biologo, può competere in via concorrente ad altre categorie professionali per le quali è comunque prescritta l'acquisizione di una specifica abilitazione, (quali medici, farmacisti, dietisti) giammai a persone che siano prive di competenza in tema sanitario. In tal senso muove anche la giurisprudenza amministrativa citata nel ricorso ove si riconosce la natura non esclusiva, ma pur sempre professionale dell'attività di prescrizione dietistica.

Inammissibile la censura inerente alla mancata verifica di non punibilità dei fatti ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., per una palese violazione del divieto dei nova in appello. Richiamata la circostanza che la disciplina indicata è entrata in vigore nel corso della pendenza del giudizio di appello, affinché venisse ampliato l'ambito della devoluzione in quel procedimento era essenziale che la parte formulasse una specifica richiesta di merito al riguardo, attraverso deposito di memorie, o semplicemente con l'espressione dell'istanza in sede di conclusioni, che non risulta formulata.