ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mar, 16 Mag 2017

Giustizia e Welfare: misure di sicurezza non detentive e politiche di inclusione sociale

Modifica pagina

Gaspare Dalia
Professore incaricatoUniversità degli Studi di Salerno


L’attuazione di politiche sociali di inclusione deve essere finalizzata a promuovere condizioni di vita dignitose, nonché un sistema di relazioni soddisfacenti nei riguardi di persone che presentano difficoltà psichiche, affinché queste siano incluse e non escluse: l’attenzione va rivolta alla persona nella sua dimensione sociale.


 

1. Il lungo e tortuoso iter normativo e giurisprudenziale, che ha condotto verso la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ha avuto inizio con le sentenze della Corte Costituzionale nn. 253/2003 e 367/2004: con esse, è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 222 c.p. nella parte in cui impone al giudice l’irrogazione della misura del ricovero in O.P.G. in ogni caso di commissione di delitti non colposi puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a due anni. Con tali pronunce, si è dunque affermato il principio di residualità dell’applicazione della misura di sicurezza detentiva e non più il suo automatismo.

Da un punto di vista normativo, invece, è il D.P.C.M. del 1° aprile 2008 a rappresentare il primo punto di svolta, trasferendo alle Regioni, attraverso le A.S.L., le funzioni sanitarie afferenti agli O.P.G. ubicati sul territorio delle medesime. L’intentio legis era quella di avvicinare la gestione sanitaria degli internati alle Regioni di provenienza, ovvero, di distribuire gli internati in modo che fossero ricoverati negli O.P.G. ubicati nelle Regioni di provenienza degli internati stessi (la cd. regionalizzazione).

Tuttavia, due anni dopo l’emanazione del decreto, la Commissione parlamentare d’inchiesta cd. “Marino”, nominata ad hoc per monitorare l’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, ha avviato delle ispezioni in tutti gli O.P.G. d’Italia, rilevando uno stato di estremo degrado e di incivile abbandono. La relazione finale ha indicato alcune linee d’intervento: in primo luogo, l’indifferibile attuazione del D.P.C.M. del 2008; in secundis, la realizzazione di strutture di ricovero intermedio tra l’O.P.G. e la libertà vigilata (ovvero, le nuove R.e.m.s., acronimo di Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza); infine, nuove modalità per l’accertamento della pericolosità sociale. La relazione della cd. “Commissione Marino” ha posto, quindi, le basi del definitivo superamento degli O.P.G., stimolando il legislatore ad adottare la legge n. 9/2012 che, all’art. 3-ter, ha fissato al 31 marzo 2013 il termine per la chiusura definitiva degli O.P.G. (detto termine non sarà, tuttavia, rispettato, subendo ben due proroghe, fino alla fatidica data finale del 31 marzo 2015).

2. Questo lo stato dell’arte, che ha visto quasi compiuto il processo di superamento della questione O.P.G., sollecitando al contempo l’attenzione di dottrina ed operatori coinvolti su alcuni aspetti che riguardano, in primo luogo, il rispetto delle garanzie costituzionali.

Invero, affrontare il tema dell’inclusione sociale significa porre la questione del riconoscimento, a tutti i cittadini, di quel complesso di diritti fondamentali che rappresentano il nocciolo duro di una società civile: più specificamente, parlare di politiche sociali d'inclusione vuol dire responsabilizzare la società verso il superamento di ogni forma di emarginazione dei più deboli. Nel rispetto e nella considerazione delle diversità delle persone affette da disturbi mentali, il focus degli interventi doveva (e deve ancora) incentrarsi imprescindibilmente sull’individuazione e sulla rimozione degli ostacoli sociali alla piena realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.

Se, infatti, per welfare state s’intende “stato assistenziale” (o, meglio, “stato del benessere”), allora l’attuazione di politiche sociali di inclusione deve essere finalizzata a promuovere condizioni di vita dignitose, nonché un sistema di relazioni soddisfacenti nei riguardi di persone che presentano difficoltà psichiche, affinché queste siano incluse e non escluse: l’attenzione non va rivolta più soltanto ed unicamente alla persona, bensì a questa nella sua dimensione sociale.

3. Ebbene, è proprio la considerazione del malato di mente ad ispirare le modalità di trattamento che si attuano all’interno delle R.e.m.s. che, almeno nelle intenzioni del legislatore, rappresenterebbero uno strumento inclusivo di persone emarginate.

Se si guarda sia alle esigenze di cura, sia a quelle di difesa sociale (non secondarie rispetto alle prime), non pochi sono però i rilievi critici che l’introduzione di strutture a carattere sanitario comporta nella custodia di rei affetti da disturbi mentali.

Si paventa, innanzitutto, il rischio che le R.e.m.s. possano, con il tempo, diventare un surrogato degli O.P.G. in scala ridotta, incapaci di garantire percorsi assistenziali e riabilitativi adeguati; inoltre, l’afflato umanitario che ha accompagnato la riforma potrebbe paradossalmente condurre verso la totale cessazione dell’esecuzione di misure di sicurezza a carattere custodiale, trascurando le esigenze di difesa sociale che – lo si ribadisce – rilevano su un piano non secondario rispetto a quelle di cura e riabilitazione del condannato.

In secondo luogo, rileva il problema della formazione del personale sanitario, responsabile dell’assistenza degli internati; sul punto, suggerimenti importanti provengono dalla giurisprudenza di legittimità che ha stabilito «la sussistenza di un generale potere/dovere di sorveglianza a carico di questi, atto a prevenire azioni auto o eterolesive del paziente, in presenza di specifiche condizioni, oggettivamente e soggettivamente apprezzabili, idonee a fondare, in tal senso, un rischio prevedibile».

Non secondaria, la ritrosia dei giudici a conformarsi alle intenzioni del legislatore di strappare gran parte delle competenze all’amministrazione penitenziaria per attribuirle a quella sanitaria. I dati che si registrano e che rilevano la presenza di un numero considerevole di condannati, destinatari di misure di sicurezza detentive, raccontano che la magistratura non sta operando nel rispetto della legge n. 81 del 2014, proprio uno dei capisaldi della normativa, ovvero il principio dell’invio alla R.e.m.s. come extrema ratio, che non sta trovando applicazione attraverso le sentenze post riforma come risposta al percorso evolutivo tracciato.

4. Le preoccupazioni sulla circostanza che la riforma legislativa si sostanzi in un mero cambio di denominazione degli O.P.G. e che sia il legislatore sia la società non tengano il passo con i progressi della psichiatria – riproponendosi la medesima esperienza negativa (e non risolutiva) delle S.i.r., strutture intermedie riabilitative per pazienti affetti da disturbi mentali, seppur non socialmente epricolosi – sono altresì giustificate da un disimpegno politico e amministrativo che spesso si è tradotto in interventi sociosanitari carenti e lacune assistenziali gravi, fino a situazioni di degrado.

4.1 Infatti, è tristemente nota ai più la vicenda del rogo della S.i.r. di San Gregorio Magno, avvenuto nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 2001, nel quale persero la vita 19 degenti della struttura. Un’apposita Commissione parlamentare d’inchiesta, oltre a fornire una precisa descrizione dello stato del prefabbricato e ad individuare le responsabilità soggettive, aveva già allora sollevato il problema delle modalità di attuazione delle disposizioni legislative sul regime autorizzatorio in materia di sicurezza e di esercizio dei poteri di sorveglianza. L’indagine parlamentare e quella giudiziaria penale hanno poi evidenziato in quel caso l’assoluta superficialità degli enti deputati alle autorizzazioni e all’accertamento dei requisiti minimi nell’interpretazione della norma, realizzando, gli stessi, interventi del tutto inefficaci al momento del verificarsi dell’incendio, così come carenze importanti nella formazione professionale del personale impiegato all’interno della struttura sia rispetto all’assistenza dei disabili ricoverati, sia rispetto alla capacità di intervento in occasione di eventi eccezionali, come quello verificatosi. 

5. Alla luce di queste indicate criticità, siamo, dunque, ancora ben lontani da realtà innovative ed efficienti, come quelle volute ai tempi della riforma sanitaria da Franco Basaglia nel lontano 1978, il quale intese spostare il baricentro degli interventi assistenziali dal controllo sociale dei malati di mente al loro reinserimento (appunto, inclusione), attraverso l’attivazione dei servizi territoriali.

Oggi, il timore più fortemente avvertito è che tanto le comunità riabilitative quanto le R.e.m.s., ambedue strutture a gestione sanitaria, non siano altro che contenitori di emarginazione sociale.

La predisposizione di un valido apparato di servizi territoriali assistenziali deve, tuttavia, andare di pari passo con una sensibilizzazione della società all’accoglienza e con una sua educazione alla convivenza con il malato di mente, al fine di superare paure e atteggiamenti discriminatori: non basta, infatti, un ostentato e diffuso buonismo se non si vince la diffidenza e si continua a guardare al disturbo mentale come ad una spada di Damocle che pende sul capo del disabile psichico, ancor più se si sia reso autore di una fattispecie di reato. E’ compito di un Paese civile insegnare ai suoi cittadini l’uguaglianza e l’inclusione, promuovendo azioni informative e garantendo una buona qualità dei servizi di salute mentale.

6. Perciò, il confronto con il panorama internazionale può rappresentare sicuramente un valido spunto di riflessione e un termine di paragone al quale commisurare gli avanzamenti del nostro Paese, sia da un punto di vista legislativo, sia da un punto di vista medico-psichiatrico, sia, infine, da un punto di vista sociale.

Si registra, innanzitutto, la partecipazione di 19 Paesi europei, tra i quali l’Italia, al progetto denominato “Long-TermForensicPsychiatric Care”, con lo scopo di sviluppare politiche efficaci nei servizi psichiatrici forensi e pratiche basate su trattamenti a lungo termine, ottimizzando la qualità della vita dei pazienti, che potrebbero necessitare di un’assistenza continuativa, durante tutto l’arco della loro esistenza.

6.1 Nel dettaglio, invece, c'è la realtà tedesca. In Germania, i rei affetti da disturbi mentali sono soggetti a una legislazione del 1933, che differenzia il trattamento in base al pericolo di recidiva. Gli autori di reato affetti da disturbo psichico, che si stima non possano ricadere nel delitto, vengono ricoverati in ospedali psichiatrici. Laddove, invece, si ritiene che la persona possa recidivare, è ricoverata in ospedali psichiatrici giudiziari. Nel 2007 è stata introdotta una legislazione che prevede la possibilità di emettere “ordini di terapia”, che obbligano le persone autrici di reato, affette da disturbi psichici, a seguire trattamenti psicofarmacologici, psicoterapeutici o socio-terapeutici, a presentarsi per controlli medici regolari, in libertà vigilata (dove il non presentarsi ai controlli costituisce indice di scarsa adesione al trattamento e violazione della misura).

Tuttavia, a partire dal 2011, il caso di Gustl Mollath – condannato per lesioni e sequestro commessi nei confronti della moglie, ma di cui si è accertata l’incapacità di intendere e di volere poiché affetto da gravi disturbi paranoidi – oltre ad evidenziare gravi  errori giudiziari, ha suscitato un animato dibattito sul problema della collocazione negli ospedali psichiatrici.

È, infatti, dell’ottobre del 2015 la presentazione da parte del gabinetto federale di un progetto di legge recante "Modifiche alla legge del collocamento in un ospedale psichiatrico ai sensi del § 63 del codice penale ed altre modifiche", destinato principalmente ad “effettivizzare” il principio di proporzionalità dei collocamenti.

I collocamenti in un ospedale psichiatrico (§ 63 del codice penale) hanno in molti casi dimostrato di essere sproporzionati, sia a livello di provvedimento adottato dal giudice, sia nel contesto di esecuzione, in particolare per quanto riguarda il periodo di detenzione. Al 2015, infatti, in Germania ci sono più di 7.000 persone in trattamento in un ospedale psichiatrico, e la tendenza è in continuo aumento, anche se non così rapidamente come negli ultimi 20 anni; il periodo di collocamento medio è stimato in 8 anni.

La riforma, però, affronta anche un aspetto di determinante importanza: il ruolo della psichiatria forense e dei suoi esponenti legittimati ad emettere giudizi sulla pericolosità dei soggetti trattati, in occasione delle periodiche verifiche (inizialmente ogni 3 anni, dopo 6 anni, e infine ogni 2 anni) sullo stato mentale del paziente internato. Ebbene, il progetto di legge prevede che i giudizi devono essere ottenuti da esperti esterni, verificando in concreto, però, il grado di conoscenza e di esperienza dei periti chiamati alle verifiche periodiche, poiché il "caso Mollath" ha anche insegnato che gli esperti più preparati non proteggono necessariamente le vittime da errori che potrebbero risultare fatali.

6.2 La realtà più interessante, però, è quella dell’Olanda, dove invece gli autori di crimini con disturbi della personalità, valutati come un serio pericolo per la società e con ridotta responsabilità riguardo al reato commesso, sono destinatari, durante un primo periodo, della misura detentiva in carcere e, successivamente, di un trattamento in un ospedale giudiziario con l’obbligo di osservanza di prescrizioni. Il sistema persegue il doppio obiettivo di proteggere la società e di riabilitare l’autore di reato imponendo il trattamento per un periodo di 2 anni, che può essere prolungato fino a 4 anni. L’ospedale giudiziario olandese, che dispone di reparti di alta sicurezza e che fornisce anche assistenza extramuraria e supervisione sul territorio, ha, ad oggi, dato buoni risultati in termini di riduzione del recidivismo, così come può contare su una società preparata a ricevere e ad accogliere coloro che fuoriescono dal circuito, vista la possibilità di una inclusione sociale ben più concreta di quanto ci si possa attendere.

6.3 Negli Stati Uniti, invece, si assiste a un cambiamento di prospettiva. Il sistema giudiziario, che sembrava essere interessato da sempre solo a valutare la colpevolezza dell’imputato, sta progressivamente prendendo consapevolezza della mancanza di supporti terapeutici e riabilitativi. Molti Stati hanno istituito, infatti, delle Corti improntate a una “giurisprudenza terapeutica”, il cui scopo è quello di promuovere una società più civile ed equa, partendo dalla legge come agente terapeutico, in cui i giudici sono soggetti attivi nella soluzione dei problemi.

7. Concludendo, posto che ogni esperienza giuridica si differenzia per storicità, tradizione ed eventi che hanno caratterizzato la vita di quel determinato Paese, il comune denominatore sembra essere quello della cura, primaria o parallela, rispetto alla custodia. Soltanto un approccio terapeutico, e non punitivo, al disturbo mentale dell’autore di un reato consente la piena realizzazione della funzione rieducativa della pena, funzione che non può trovare differenziazione in base alle caratteristiche psichiche del reo, evitando, in modo deciso, in eventuali ricadute verso una – non di certo più ammissibile – concezione lombrosiana.

Volgendo l’attenzione, in particolare, al nostro Paese, uno dei capisaldi di una società civile (ossia il principio rieducativo, di cui all’art. 27 Cost.) deve rappresentare il fil rouge che lega qualunque conseguenza di carattere sanzionatorio alla commissione di una fattispecie di reato. Sebbene la sanitarizzazione della pena, con riferimento ai “folli rei”, abbia marginalizzato il Diritto, ciò non corrisponde necessariamente ad una sua deresponsabilizzazione. Resti vigile nell’esercizio di una funzione di controllo sulle nascenti strutture e sulla funzione riabilitativa loro attribuita, perché la chiusura degli O.P.G. non si sostanzi in un’ennesima “truffa di etichette” e, all’aspetto estetico nuovo e giovane, corrisponda una logica d'inclusione sociale secondo i dettami della Costituzione: in gioco non c’è soltanto il futuro di centinaia di persone, ma anche la reputazione di un’intera società.