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Pubbl. Ven, 12 Mag 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

La responsabilità civile a carico dell´amministratore della società per azioni

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Francesco Rizzello


Disamina della normativa civilistica preposta ad attuare la responsabilità degli amministratori di società per azioni.


Sommario: 1. Premessa; 2. Disciplina dell’organo amministrativo e responsabilità ex art. 2392 c.c.; 3. L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità da parte dei soci; 4. L’esercizio dell’azione sociale da parte dei creditori della società; 5. Interessi degli amministratori e duty of loyalty.

1.  Premessa

La tematica della responsabilità degli amministratori di società per azioni riveste notoriamente una rilevanza centrale all'interno del diritto societario, in quanto la funzione gestoria caratterizza la società non solo da un punto di vista giuridico ed economico, ma nella prospettiva legislativa post-riforma diviene elemento qualificante la tipologia societaria adottata dall’impresa, con importanti conseguenze ad ogni livello normativo, ivi compresi, per l’appunto, gli aspetti pertinenti al regime di responsabilità, come anche i diritti dei soci nell’assetto marcatamente corporativo della società per azioni rispetto alla compagine a carattere maggiormente personalistico della società a responsabilità limitata (in quest’ultima prospettiva menzionata, come non fare riferimento all’art. 2468, co. 3 c.c., dettato in ambito di società a responsabilità limitata, per cui “resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili”).

2. Disciplina dell’organo amministrativo e responsabilità ex art. 2392 c.c.

La disciplina generale relativa agli amministratori nella società per azioni si apre con la norma dettata dall’art. 2380-bis c.c., la quale prevede che “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale”.

È la prima volta che tale principio risulta con tale chiarezza a livello normativo1, in quanto la disposizione è stata inserita nel codice civile con la riforma delle società di capitali del 2003. La norma segna sotto diversi punti di vista una svolta nella sistematica codicistica, in quanto il legislatore prende atto del dato per cui la società per azioni costituisce il modello organizzativo principe per un’impresa di grandi dimensioni orientata alla raccolta tra il pubblico del capitale di rischio, e, su ciò basandosi, necessita inevitabilmente di un organo gestorio altamente specializzato: così conducendo all’ulteriore risultato per cui nella s.p.a. risulta essere regola generale che l’amministrazione della società possa essere affidata anche a non soci (2380-bis, co. 2 c.c.); nella s.r.l., invece, ciò è previsto in via di eccezione statutaria2. In tale ottica, la competenza dell’organo amministrativo funge quale demarcatore tipologico tra i due sistemi alternativi della società per azioni e della società a responsabilità limitata. Ciò discende da una valutazione del legislatore, il quale ricerca un equilibrio tra esigenze di efficienza e le necessità di tutela per interessi che tipicamente si pongono su un piano di estraneità rispetto alla conduzione dell’impresa sociale, e tra essi in primo luogo quello degli azionisti-investitori3. Tuttavia, è proprio nell’ottica per cui i destinatari delle scelte compiute a livello amministrativo sono i c.d. residual claimants, ossia i soci-azionisti (così contrapposti ai c.d. fixed claimants, ossia i creditori della società non investitori), che l’ordinamento prevede la possibilità di intervento dell’assemblea degli azionisti in materia gestoria4. Bisogna pertanto comprendere in tale contesto la portata che assume l’art. 2364, co. 1, n. 5 c.c., il quale prevede che: “Nelle società prive di consiglio di sorveglianza, l’assemblea ordinaria: ... 5) delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti”. Dalla norma emerge che la generale ed esclusiva competenza degli amministratori per la gestione dell’impresa soffre una limitata eccezione quando è la stessa legge che attribuisce all’assemblea la competenza a deliberare su determinati atti di gestione5. Si possono menzionare, a titolo esemplificativo: a) la proposizione, rinuncia e transazione dell’azione sociale di responsabilità ex art. 2393 c.c.; b) la proposta di concordato fallimentare ex art. 152, co. 2 l.f. e di concordato preventivo ex art. 161, co. 4 l.f.; c) atti degli amministratori che devono essere espressamente autorizzati dall’assemblea: acquisti da promotori, fondatori, soci e amministratori ex art. 2343-bis c.c.; acquisto di azioni proprie ex art. 2357, co. 2 c.c.; acquisto di azioni della controllante ex art. 2359-bis, co. 2 c.c.; acquisto di partecipazioni che comporti una responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali ex art. 2361, co. 2 c.c.; operazioni di contrasto all’acquisizione del controllo di una società quotata ex art. 104 TUF.
Si tenga tuttavia presente che, la deroga alla competenza assoluta degli amministratori è solo parziale, in quanto anche nei casi summenzionati, l’iniziativa (sottoposizione all’assemblea e la sua convocazione) e l’esecuzione delle decisioni dell’assemblea spetta inderogabilmente ed esclusivamente agli amministratori6. Da notare peraltro il dato normativo fondamentale per cui resta ferma in ogni caso la responsabilità degli amministratori per gli atti compiuti. Ciò discende fondamentalmente da tre ordini di considerazioni. Anzitutto, il dato per cui gli amministratori, nello svolgimento delle loro attribuzioni, agiscono nell’interesse di altri, ossia degli azionisti7. In secondo luogo, esercitano un potere caratterizzato da margini amplissimi di discrezionalità nelle decisioni gestorie ad essi demandate8. Ciò comporta che inevitabilmente essi dovranno rispondere dell’operato posto in essere in base a dei canoni da loro sanciti nell’esecuzione del proprio incarico. Infine, anche in contesti nei quali è lecito delegare l’esecuzione di determinate iniziative a soggetti terzi, come avviene nel caso del direttore generale, oppure in un contesto in cui la società si avvalga della pratica di outsourcing, deve sempre rimanere intatto il principio di responsabilità degli amministratori per gli atti posti in essere da soggetti ai quali determinati compiti furono delegati, e ciò discende da una considerazione gerarchica dell’organo gestorio, il quale è centro del potere di direzione ed in quanto tale caratterizzato da una supremazia gerarchica nei confronti degli altri soggetti, ma anche da una necessità di certezza che si concreta nella imputabilità del danno eventualmente prodottosi ad un centro direzionale individuato a priori9.

L’art. 2381 c.c., rubricato “Presidente, comitato esecutivo e amministratori delegati”, reca delle importanti disposizioni in ambito gestorio dalle quali si ricavano diversi principi portanti il disegno di diritto positivo in materia di responsabilità degli amministratori di s.p.a. Tentando di individuare i tratti più innovativi della riforma si deve avere riguardo al ruolo centrale assegnato dal legislatore all’informazione e alla trasparenza, sia come canone dell’agire del buon amministratore, sia come strumento di “tracciabilità” dei comportamenti anche al fine della ricostruzione dei profili di responsabilità10. Ciò emerge con chiarezza fin dal primo comma dell’articolo, ove si prevede che “il presidente…provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri”. Il secondo comma della disposizione prevede la possibilità di prevedere nello statuto o di consentire tramite delibera assembleare la possibilità per il consiglio di amministrazione di delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti. La seconda forma dà luogo alla figura dell’amministratore delegato. La differenza tra l’ipotesi del comitato esecutivo e quella della pluralità di consiglieri delegati consiste nell’essere il primo un organo collegiale, che funziona secondo le regole stabilite nello statuto o, in assenza, applicando analogicamente le norme sul consiglio di amministrazione; gli altri sono, invece, svincolati dal metodo collegiale e agiscono, a seconda di ciò che è stabilito nello statuto o nell’atto di nomina, disgiuntamente o congiuntamente, come è previsto per gli amministratori di società di persone11.

Il terzo comma riveste una particolare importanza, in quanto prevede che il consiglio di amministrazione debba valutare “l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società” sulla base delle informazioni ricevute dagli organi delegati. Inoltre, “quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società” e “valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.

La disposizione va letta congiuntamente al quinto comma, il quale prevede che “gli organi delegati curano che l’assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa e riferiscono al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale, con la periodicità fissata dallo statuto e in ogni caso almeno ogni sei mesi, sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo…”, concretandosi poi gli obblighi di informativa e controllo nella paradigmatica norma che reca il sesto comma: “gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato; ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”. Il canone dell’agire in modo informato assurge a paradigma generale di comportamento del buon amministratore12. La disposizione contiene il concetto di duty of care facente capo all’amministratore, e quindi concretamente la qualità che la diligenza impiegata deve presentare; l’informazione deve essere preventivamente e generalmente posta alla base di qualsiasi azione posta in essere dall’amministratore, essendo egli esposto a responsabilità qualora la ricerca dell’informazione non abbia fondato il canone del suo agire o sia posta alla base delle decisioni che è chiamato a compiere. Tale obbligo ha portata generale ed è intrinseco ad ogni valutazione di comportamenti in termini diligenza, e si specifica nella società per azioni alla luce dei concreti assetti organizzativi adottati dalla singola società e del modo in cui essi garantiscono un adeguato flusso di informazioni; non si tratta perciò, come invece avviene nella società a responsabilità limitata, di valutare genericamente se il singolo amministratore ha con diligenza ricercato le informazioni necessarie per le sue scelte, ma se vi è responsabilità nel modo in cui quegli assetti organizzativi sono stati apprestati e concretamente utilizzati13.

Gli aspetti menzionati conducono inevitabilmente alla trattazione della norma fondamentale su cui s’impernia lo standard di diligenza nell’adempimento dei doveri da parte dell’organo amministrativo, ed alla base del quale è quindi da valutare ogni qualsivoglia responsabilità degli stessi sul versante civilistico. Nel regime previgente, la diligenza dell’amministratore era ancorata al concetto di diligenza del buon padre di famiglia (1176, co. 1 c.c.), anche se dottrina e giurisprudenza erano orientati verso l’inquadramento della diligenza come qualificata (1176, co. 2 c.c.)14.

L’art. 2392 c.c., rubricato “Responsabilità verso la società” dispone: “Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori” (co. 1).

La responsabilità nei confronti della società costituisce la prima e più importante ipotesi di responsabilità15. Procedendo con ordine, si noti anzitutto come le fonti dei doveri degli amministratori sono da un lato la legge, e dall’altro lo statuto; soprattutto, è da porre in rilievo lo standard di diligenza che viene richiesto dall’amministratore, ossia la “diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. Non basta quindi la diligenza dell’uomo medio, occorre la diligenza del buon amministratore determinata non in astratto, ma in funzione della natura dell’incarico e delle specifiche competenze del singolo amministratore: in altre parole, per determinare la diligenza dovuta si dovranno considerare la dimensione della società e dell’impresa esercitata, la tipologia di quest’ultima e le qualità individuali dell’amministratore che hanno costituito la base per la sua nomina16. Si tratta infatti di un’attività la quale, poiché riguarda una gestione imprenditoriale e poiché soprattutto è intesa nell’interesse di chi in essa ha investito e perciò ha scelto direttamente o indirettamente (come avviene nel sistema dualistico) i soggetti cui affidarla, non può essere esaurientemente valutata sulla sola base del generico paradigma del mandatario: essa presenta un contenuto professionale che non consente di prescindere dall’indicazione generale del secondo comma dell’art. 1176 c.c.17.

Vi è autorevole dottrina18 la quale sostiene che l’indicazione delle “specifiche competenze” alle quali parametrare la diligenze nell’adempimento degli obblighi imposti all’amministratori sia, se pur non espressamente qualificata in tali termini dal legislatore, un richiamo alla perizia, la quale rileverà in tutte le ipotesi in cui le qualità del singolo amministratore perito di determinate materie assumano un connotato essenziale della sua assunzione, delega o abbiano contribuito in maniera significativa a giungere ad una determinata delibera.

Tale considerazione può ritenersi esplicitazione del summenzionato duty of care, il quale nella società per azioni, ma non nella società a responsabilità limitata, viene individuato sulla base di una prospettiva la quale considera gli amministratori non tanto per gli interessi imprenditoriali di cui sono portatori nella società, quanto per le loro caratteristiche professionali nella cui considerazione è avvenuto l’affidamento dell’incarico19. È quindi necessario fornire una maggiore specificazione del paradigma del buon amministratore, ammettendo che il significato professionale dell’incarico amministrativo non consente di elaborare in via generale un paradigma del buon amministratore, non potendosi assumere tale qualificazione in termini oggettivi, ma soltanto soggettivi, alla luce cioè della specifica posizione del singolo soggetto; ne risulta pertanto una prospettiva che in certo modo “responsabilizza” i soci al momento della scelta degli amministratori.

Gli amministratori rispondono solidalmente nei confronti della società, “a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto attribuite ad uno o più amministratori”. Deve quindi trattarsi di funzioni attribuite al comitato esecutivo, oppure di funzioni in concreto attribuite ad amministratori (delegati). Ciò significa che per aversi limitazione della responsabilità degli amministratori senza delega non è necessaria una formale delibera del consiglio di amministrazione di nomina del delegato e di attribuzione allo stesso di determinati poteri, ma è sufficiente che “in concreto” determinate funzioni siano attribuite a uno o più amministratori (e siano da loro effettivamente esercitate: se l’amministratore delegato, come spesso avviene, fa decidere dal consiglio di amministrazione materie od operazioni che pur rientrano nella sua delega, l’intero consiglio di amministrazione è responsabile, senza alcuna limitazione, dell’operazione portata al suo esame)21bonelli-p.48.

La riforma delle società di capitali del 2003 ha inciso, sul secondo comma dell’art. 2392 del testo previgente, come chiaramente si evince dalla Relazione: “la eliminazione dal precedente comma 2 dell’art. 2392 dell’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, sostituita da specifici obblighi ben individuati (v. in particolare gli artt. 2381 e 2391), tende, pur conservando la responsabilità solidale, ad evitare sue indebite estensione che, soprattutto nell’esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finiva per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva, allontanando le persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a responsabilità praticamente inevitabili” (6.III.4). Il legislatore si è pertanto mosso con lo scopo di individualizzare la responsabilità del singolo amministratore, e di limitare gli effetti pregiudizievoli in termini di responsabilità esclusivamente alla sua persona, qualora gli ulteriori membri dell’organo collegiale siano effettivamente esenti da colpa. L’attuale lettera del secondo comma prevede che “in ogni caso gli amministratori…sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.   La norma sembra porre uno standard comportamentale dell’agire collegiale dell’organo. Qualora vengano ravvisati dei comportamenti potenzialmente lesivi degli interessi della società (la potenzialità del danno quale criterio si ricava dall’obbligo di impedire il compimento di un determinato atto, il che presuppone la conoscenza della sua possibile lesività) o si verifichi un comportamento pregiudizievole, è obbligo dell’organo in quanto tale di attivarsi affinché il danno venga eliminato ex ante o attenuato o eliminato ex post.  Il terzo comma della disposizione in esame pone un correttivo al principio appena esposto, sancendo che: “la responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale”.  Viene con tale norma valorizzata nuovamente la natura individualizzata della responsabilità gestoria, secondo un principio per cui deve rispondere del danno solamente colui o coloro tra gli amministratori che abbiano effettivamente cagionato il danno agli interessi sociali. In tale ottica viene data la possibilità agli amministratori esenti da colpa di attivarsi efficacemente al fine di prevenire una indebita estensione della responsabilità. Qualora non provvedano, risponderanno in base al medesimo titolo di responsabilità, essendo il consiglio di amministrazione un organo collegiale il quale risponde tendenzialmente collettivamente nei confronti della società e al quale gli obblighi previsti dalla legge e dallo statuto sono imposti nella medesima prospettiva collegiale. La responsabilità dei singoli amministratori, ad esempio coloro che sono muniti di delega o che fanno parte del comitato esecutivo, è l’eccezione rispetto alla regola.

Bisogna sottolineare come la responsabilità degli amministratori si fondi sull’inosservanza di obblighi previsti dalla legge o dallo statuto. Si tratta di inadempimenti in senso tecnico. Con ciò si vuole cogliere la natura squisitamente giuridica della responsabilità, che discende in questo contesto da una considerazione in negativo rispetto alla responsabilità per i risultati economici: di ciò la legge giustamente si disinteressa, in quanto non può fondarsi la responsabilità dell’organo amministrativo su di un esercizio negativo in termini di ricavi dell’impresa, ma neanche può fondarsi sulla intervenuta liquidazione della società o sulla dichiarazione di fallimento della medesima.

Ciò che viene in definitiva sanzionato dal legislatore è il disinteresse, da parte degli amministratori, del perseguimento del loro obiettivo primario in quanto caratterizzante la funzione gestoria, ossia il mancato perseguimento dell’interesse sociale, il quale si erge quale valore supremo nell’ottica dirigenziale della società e che deve fondare tutte le scelte compiute a livello verticistico.

Senza tale componente decisionale le scelte poste in essere non possono a priori realizzare un risultato utile per la società considerata nel suo complesso; che poi le scelte così compiute non vada necessariamente a buon fine è un altro discorso, ed una volta adempiuto tale obbligo fondamentale in aggiunta agli ulteriori obblighi derivanti dalla legge o dallo statuto, gli amministratori non possono essere ritenuti responsabili dell’andamento economico della società (business judgment rule).

L’interesse sociale veniva in passato identificato nella massimizzazione del profitto. Tuttavia, oggigiorno si è giunti ad una variabilità della nozione, dovendosi tenere conto delle evoluzioni che ha subito l’utilizzo della forma della società per azioni, la quale si presta oggi ai più svariati fini imprenditoriali e non è più limitata al perseguimento del mero fine del lucro.
In definitiva, il problema di stabilire che cosa l’amministratore debba fare in una specifica circostanza per comportarsi diligentemente, può essere risolto solo in concreto, con riferimento a tutte le particolarità delle singole situazioni; si è pertanto detto che è “il giudice che in definitiva dovrà apprezzare, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso (tipo di società amministrata, sue dimensioni e settore dell’attività esercitata, sue strutture e possibilità finanziarie, importanza e condizioni dell’operazione relativamente alla quale si discuta, tempo a disposizione dell’amministratore per prendere la decisione, ecc.) … se il comportamento dell’amministratore debba o no – alla stregua di come si comportano normalmente gli amministratori in analoghe circostanze – essere qualificato diligente”.

3. L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità da parte dei soci

Una volta esaurita la trattazione relativa agli aspetti di natura sostanziale della responsabilità degli amministratori nei confronti della società, è necessario occuparsi delle modalità con cui l’azione sociale di responsabilità può essere esercitata. Le norme in materia sono gli artt. 2393 e 2393-bis c.c., rispettivamente recanti la disciplina in materia di azione sociale di responsabilità e di azione sociale di responsabilità esercitata dai soci. Nel primo caso l’azione sociale è esercitata direttamente dalla società, mentre nel secondo caso è esercitata dai soci, sempre nell’interesse della società23.
Partendo dalla prima disposizione, si prevede che “l’azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa in seguito a deliberazione dell’assemblea, anche se la società è in liquidazione” (co. 1).

La scelta normativa di rimettere ai soci riuniti in assemblea la decisione se agire nei confronti degli amministratori per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni cagionati alla società deriva non solo da evidenti ragioni di opportunità, ma anche (e anzi soprattutto) dalla constatazione che i soci, in quanto destinatari ultimi dei risultati dell’attività, sono legati ai gestori dell’impresa da un rapporto fiduciario che, come giustifica il potere di nomina e revoca, così spiega perché, in caso di lesione di tale rapporto, debbano essere i titolari dell’interesse sostanziale pregiudicato dalla mala gestio a poter decidere le iniziative da intraprendere nei riguardi degli amministratori24.

L’azione deve essere deliberata dalla maggioranza dell’assemblea; è però raro che la maggioranza deliberi l’azione di responsabilità contro i “propri amministratori”, che essa stessa ha nominato: quando ciò è avvenuto, si è per lo più trattato di ipotesi nelle quali era mutata la maggioranza assembleare, a seguito della vendita del pacchetto di controllo della società25.

Al di fuori di queste rare ipotesi, le numerose azioni di responsabilità che risultano dai repertori di giurisprudenza sono in genere state esercitate da procedure fallimentari, ai sensi dell’art. 146, co. 2 l.f.26.  La riforma ha introdotto quale disposizione innovativa il co. 3, che prevede la possibilità che l’azione sociale di responsabilità sia promossa anche a seguito di deliberazione del collegio sindacale, assunta con la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti. Pare doveroso a questo punto richiamare la norma dell’art. 2403 c.c.: “Il collegio sindacale vigila sull’osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”. Quest’ultima norma fornisce un collegamento razionale alla nuova disposizione, la quale mette a disposizione della società un ulteriore strumento per far valere la responsabilità dell’organo amministrativo per inadempimento dei doveri derivanti dalla legge o dallo statuto. Si tratta di una regola che sancisce “un’ipotesi di eterotutela dell’interesse sociale” 27, e che al pari dell’altra contenuta nell’art. 2393-bis c.c. mira a superare la naturale “ritrosia” della maggioranza ad agire nei confronti di soggetti che essa stessa ha nominato, riconoscendo – eccezionalmente – ad un organo diverso dall’assemblea il potere di decidere in ordine all’esercizio dell’azione28. Tuttavia la norma presenta una scarsa incisività e il suo apporto sostanziale è da ritenersi alquanto esiguo, considerato che i sindaci sono nominati dalla medesima maggioranza che ha nominato il consiglio di amministrazione e che essi rischiano di incorrere in responsabilità solidale con i medesimi (proprio in forza della richiamata norma che sancisce gli obblighi del collegio sindacale); il tutto corroborato dal dato della sostanziale assenza di pronunce in materia29.

Il co. 4 della norma in esame prevede che “l’azione può essere esercitata entro cinque anni dalla cessazione dell’amministratore dalla carica”. Il dettato normativo, apparentemente chiaro ed inequivoco, ha dato tuttavia luogo a contrasti interpretativi in merito al dies a quo dal quale decorre il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità. Prima del 2003, in assenza di un precetto analogo a quello attualmente vigente, si riteneva pressoché senza contrasti che l’esercizio dell’azione ex art. 2393 c.c. fosse sottoposto al termine di prescrizione quinquennale fissato dall’art. 2949 c.c.30, decorrente però “non già dal compimento della violazione, ma dal prodursi del danno a carico della società”31 ed attribuendo rilievo al momento in cui l’evento dannoso potesse essere rilevato “con la diligenza cui i vari organi sociali sono tenuti nell’adempimento delle loro diverse attribuzioni” 32. L’opinione in senso opposto argomentava per una decorrenza a partire dal compimento dell’evento dannoso, anziché per il momento in cui era riscontrabile la produzione del danno. A seguito dell’introduzione della norma il quadro rimane sostanzialmente immutato, non essendo intervenuta alcuna pronuncia definitivamente risolutiva del contrasto e continuando a sussistere la medesima divergenza in ambito dottrinale. Ciò che è certo è che la norma ha recepito il principio precedentemente fissato solamente all’art. 2949 c.c. e che è rimasta ferma l’applicabilità all’istituto in questione dell’art. 2941, n. 7, che prevede la sospensione della prescrizione finché gli amministratori restano in carica. L’azione può essere infatti esercitata entro cinque anni “dalla cessazione dell’amministratore dalla carica”.

Per quanto riguarda gli effetti della deliberazione, ai sensi del quinto comma “la deliberazione dell’azione di responsabilità importa la revoca dall’ufficio degli amministratori contro cui è proposta, purché sia presa con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale sociale. In questo caso, l’assemblea provvede alla sostituzione degli amministratori”. Il che significa che la promozione dell’azione di responsabilità non comporta automaticamente la revoca dell’amministratore dalla carica, salvo che venga assunta con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale33.

Affinché costoro siano revocati dall’incarico occorre una separata ed espressa delibera di revoca ai sensi dell’art. 2383, co. 3 c.c. (eventualmente da assumere nella stessa assemblea convocata per l’esercizio dell’azione di responsabilità, purché tale punto figuri all’ordine del giorno), qualora la percentuale di un quinto non sia stata raggiunta34. Sia la dottrina che la giurisprudenza sono favorevoli ad ammettere che i soci-amministratori revocati possano votare nella delibera di nomina dei nuovi amministratori, che dovranno esercitare l’azione di responsabilità: ci si può domandare, però se tali soci-amministratori possano essere votati nuovamente alla carica di amministratori dalla quale sono appena stati automaticamente revocati; la soluzione positiva può a prima vista lasciare perplessi, ma, a ben vedere, pare corretta sia perché nell’elenco della cause di ineleggibilità alla carica di amministratore – che sono l’eccezione, e quindi, di stretta interpretazione – non compare né la semplice promozione dell’azione sociale di responsabilità, né l’eventuale successiva condanna, sia perché la ratio della revoca sta nella presunzione che il rapporto fiduciario tra società e amministratore sia incrinato (anche se l’azione deliberata fosse infondata), presunzione che la società ben può ribaltare, riaffermando esplicitamente la fiducia ai propri ex-amministratori35i.  Ai sensi del sesto comma, “la società può rinunziare all’esercizio dell’azione di responsabilità e può transigere, purché la rinunzia e la transazione siano approvate con espressa deliberazione dell’assemblea, e purché non vi sia il voto contrario di una minoranza di soci che rappresenti almeno il quinto del capitale sociale o, nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, almeno un ventesimo del capitale sociale…”. La rinuncia (o transazione), oltre ad essere espressa, non può avere contenuto generico: occorre, cioè, che la delibera indichi con precisione le singole operazioni o violazioni da cui derivano le pretese risarcitorie da rinunciare (o da transigere) dalla società, poiché solo in questo modo: (i) l’oggetto del negozio (di rinuncia o di transazione) è determinato o determinabile (v. l’art. 1346 c.c.); (ii) l’assemblea può procedere ad una cosciente e consapevole valutazione degli effetti della rinuncia (o transazione)36.

Il legislatore della riforma ha poi, sulla scorta delle esperienze anglosassoni, al fine rinforzare il potere di controllo della minoranza, stabilito all’art. 2393-bis c.c. che l’azione sociale possa essere promossa anche da tanti soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo37.  Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, l’azione può essere esercitata dai soci che rappresentino un quarantesimo del capitale sociale o la minore misura prevista nello statuto (co. 2).
L’introduzione della disposizione rappresenta una delle novità più importanti dalla riforma del 2003 e costituisce una sorta di “class action”, in quanto consente ai soci di minoranza che la esercitano di chiedere agli amministratori, a vantaggio della società, il risarcimento dell’intero danno causato alla società, e non solo del danno direttamente causato alla minoranza che esercita l’azione38.

Si tratta di legittimazione concorrente ad esercitare l’azione sociale di responsabilità, in quanto la minoranza esercita l’azione in nome proprio, ma nell’interesse della società; in caso vengano esercitate più azioni sociali da parte di diversi legittimati, le diverse azioni potranno essere riunite per connessione39­.

L’art. 2395 si occupa di disciplinare l’azione individuale del socio o del terzo, prevedendo che “le disposizioni dei precedenti articoli non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori”.  La norma non dice quale azione spetta al singolo terzo o al singolo socio, ma dice che le precedenti azioni non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno, spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori: da ciò si dovrebbe desumere che la fonte della responsabilità dell’amministratore nei confronti del singolo socio e del terzo, richiamata nell’art. 2395 c.c., sia altrove, e precisamente nell’art. 2043 c.c.40. Vi è, tuttavia anche chi sostiene che si debba differenziare a seconda dei casi. Se la responsabilità degli amministratori deriva dalla violazione di preesistenti obblighi loro imposti dalla legge o dallo statuto in conseguenza e per il fatto del rapporto di amministrazione che li lega alla società, si rientra nell’ambito della responsabilità contrattuale; se la responsabilità degli amministratori deriva dalla commissione di fatti colposi o dolosi che rechino che rechino un danno ingiusto a terzi (al di fuori ed indipendentemente dalla violazione di precedenti obbligazioni derivanti dal rapporto di amministrazione), allora si rientra nell’ambito della responsabilità extracontrattuale: in questo caso l’azione esperita non sarà quella di cui all’art. 2395 c.c. come nel primo caso, bensì quella generale ex art. 2043 c.c.41. La differenza tra le azioni di cui agli artt. 2393-2394 (quest’ultima verrà analizzata nel paragrafo successivo) e quella di cui all’art. 2395 c.c. consiste nella diversa incidenza del danno arrecato dalla violazione dell’amministratore: se il danno incide sul patrimonio sociale, si hanno le azioni di cui agli artt. 2393-2394 c.c.; se, invece, il danno incide “direttamente” sul patrimonio del socio o del terzo, si ha l’azione individuale di cui all’art. 2395 c.c.42.

Il danno “diretto” si concretizza nel pregiudizio subito dal loro diritto agli utili, oppure nella diminuzione di valore della loro partecipazione43. A proposito la Suprema Corte ha affermato ( Cass., 28 febbraio 1998, n. 2251) che “il danno risarcibile ex art. 2395 è solo quello incidente direttamente sul patrimonio del terzo, del creditore o del socio per effetto del comportamento doloso o colposo dell’amministratore nell’esercizio delle sue funzioni; non anche il danno che colpisce il patrimonio della società e, solo in via mediata e di riflesso, quello del terzo o del socio. In altri termini, mentre nel caso dell’azione individuale il danno deve incidere direttamente sul patrimonio del terzo o del socio, nelle altre due ipotesi (art. 2393 e 2394) esso pregiudica, immediatamente il patrimonio sociale e solo in via mediata e riflessa incide su quello dei singoli soci o creditori”.

Il caso tipico che (secondo MINERVINI) ha determinato l’introduzione nel codice civile dell’art. 2395 è quello dell’amministratore che induce, mediante la redazione di bilanci falsi, i soci o terzi alla sottoscrizione o all’acquisto di azioni a prezzo insostenibile, provocando con ciò un danno diretto (solo) al loro patrimonio (e nessun danno al patrimonio sociale)44.

4. L’esercizio dell’azione sociale da parte dei creditori della società

La natura della responsabilità dell’organo amministrativo nei confronti dei creditori della società è enunciata al primo comma dell’art. 2394 c.c.: “Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale.

In tale ottica “l’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti” (co. 2). I presupposti sono pertanto due: da un lato, gli amministratori devono aver violato qualche precetto normativo specifico, qualche disposizione statutaria o l’obbligo di diligenza, determinando una riduzione del patrimonio sociale; dall’altro, quest’ultimo, in virtù di tale riduzione, non è sufficiente a far fronte alle obbligazioni della società e dunque a soddisfare i creditori45.  Da ciò deriva che la sede normale in cui questa azione è esercitata è il fallimento (o altra procedura dalla quale risulti l’insufficienza del patrimonio sociale)46. Si è peraltro dibattuto in merito alla natura della responsabilità in capo agli amministratori, argomentando una parte in favore della natura diretta ed autonoma, e l’altra a favore della natura surrogatoria (rispetto alla responsabilità generale ex art. 2392 c.c.). Le ricadute pratiche di tali diverse impostazioni si manifestano prevalentemente per quanto riguardo il tema dell’onere della prova. Infatti, sostenendo la prima tesi si avrebbe un inquadramento di tipo contrattuale della responsabilità, ed in conseguenza di ciò un onere probatorio in capo ai creditori che riguarda la sussistenza di violazioni di obblighi previsti dalla legge o dallo statuto, e spettando quindi agli amministratori l’onere probatorio in merito alla insussistenza del loro agire colposo.

Argomentando a favore della seconda tesi si avrebbe una qualificazione della responsabilità come extracontrattuale, e quindi connotata da un onere probatorio più gravoso, in quanto caratterizzato dalla necessità di provare la sussistenza oltre che dell’elemento soggettivo della colpa, anche quello della ingiustizia del danno, in base allo schema consueto dell’art. 2043 c.c. Si rinvengono sia in dottrina che in giurisprudenza altresì posizioni divergenti in merito alla natura dell’azione così esercitata: da un parte la si inquadra come diretta ed autonoma (il cui esito andrebbe, pertanto, a loro diretto vantaggio; dall’altra vi è chi argomenta a favore della natura surrogatoria (qualificando il vantaggio che ne trarrebbero i creditori solo come indiretto in seguito al generale accrescimento del patrimonio sociale). La rilevanza pratica dell’una o dell’altra posizione è fortemente diminuita dalla considerazione per cui, essendo questa tipologia di azione esercitata prevalentemente nell’ambito di procedure concorsuali, l’azione del curatore è diretta in ogni caso ad incrementare la massa attiva del fallimento, quale che sia la qualificazione dell’azione.

5. Interessi degli amministratori e duty of loyalty

L’art. 2391 c.c. dispone che: “L’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per contro proprio o di terzi, abbia in un determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata; se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l’operazione, investendo della stessa l’organo collegiale, se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia alla prima assemblea utile” (co. 1).

Si tratta di una delle principali novità apportate dalla riforma del 2003, la quale si pone in modo innovativo rispetto al sistema previgente. Viene dato rilievo a qualunque interesse un amministratore abbia in un’operazione della società, e non più unicamente a quelli conflittuali rispetto all’interesse sociale47. Si deve peraltro dare rilievo alla formulazione contenuta nel primo periodo della norma, secondo cui l’amministratore è tenuto a “dare notizia” di ogni tipo di interesse del quale sia titolare. Ciò è agevolmente ricollegabile alle considerazioni svolte in merito alla centralità del ruolo dell’informazione nell’assetto normativo disegnato con la riforma delle società di capitali, ricordando che “l’agire informato” assurge quale canone supremo che deve caratterizzare in maniera fondamentale gli atti posti in essere dall’amministratore di società per azioni. Peraltro proprio a fronte di tale nuovo assetto normativo che assegna all’informazione il ruolo centrale, non è più previsto il dovere di astensione in capo all’amministratore titolare dell’interesse, a meno che non si tratti di amministratore delegato, oppure vi sia stata inosservanza dei doveri di informazione oppure la deliberazione del consiglio o del comitato esecutivo sia stata adottata con il voto determinante dell’amministratore interessato; tuttavia, in entrambi i casi la possibilità di impugnare la deliberazione così adottata è subordinata alla ricorrenza del requisito della potenziale dannosità per la società della deliberazione (co.3). Pare si possa a riguardo cogliere una prospettiva legislativa che valorizza in maniera preponderante il valore oggettivo che risulta dalla deliberazione per la società, anziché assegnare importanza al contributo soggettivo dell’amministratore interessato sic et simpliciter; in termini fattuali, un’irrilevanza del contributo non decisivo dell’amministratore interessato, persino in conflitto, e quindi in definitiva una ratio sottostante di maggiore stabilizzazione delle decisioni prese dalla società in quanto tale; una considerazione dell’interesse soltanto qualora possa inficiare la bontà della deliberazione assunta: a ben vedere, la medesima ragione alla base della nuova disciplina in materia di impugnativa delle deliberazioni assembleari (Angelici48). Il c.d. duty of loyalty, il quale può essere tradotto letteralmente in “dovere di fedeltà”, evidenzia un approccio legislativo il quale muove dal presupposto che in via normale la posizione degli amministratori, come professionisti, sia fondamentalmente di “neutralità” rispetto all’attività sociale, nel senso cioè che in principio loro interesse sia esclusivamente quello concernente il suo proficuo e corretto andamento49. Il “dovere di fedeltà”, in quanto tale, necessariamente precede il duty of care, che deve connotare l’attività dell’amministratore il quale sia però, prima ancora che diligente, fedele alla società per la quale opera. Infatti, è patrimonio comune del diritto societario a livello internazionale che, seppure con diverse sfaccettature e accezioni nei differenti ordinamenti, gli amministratori esplichino le loro funzioni sulla base di una relazione di natura fiduciaria che li lega alla collettività dei soci per il tramite della società: gli amministratori, nell’ambito dell’esercizio delle loro funzioni, non possono avere nessun’altra guida che non sia l’interesse della società50.

La riforma attribuisce rilievo ad ogni “interesse particolare” (Paolo Spada) dell’amministratore, che viene in considerazione non solo quando sia in conflitto con l’interesse sociale, ma anche quando sia neutro o addirittura conforme all’interesse della società51.  Rientrano nell’ambito della disposizione sia gli interessi natura patrimoniale, quanto non patrimoniale (si pensi all’assunzione o alla promozione di un parente dell’amministratore ad un ruolo dirigenziale). Si è inoltre precisato in dottrina che “l’interesse è del tutto marginale, remoto, insignificante, non vi è, evidentemente, alcun conflitto d’interessi da prevenire e dunque non vi è ragione di applicare la disposizione di cui si tratta”52.

Tuttavia, una delle più importanti novità introdotte dalla norma si rinviene proprio nel dato per cui essa, dando rilievo potenzialmente ad ogni interesse dell’amministratore, sottrae all’amministratore interessato la valutazione circa la rilevanza dell’interesse stesso, essendo venuto meno il requisito previgente del “conflitto”. L’uso dell’aggettivo “ogni”, e l’imposizione di comunicare la “portata” e la “natura” dell’interesse fanno pensare che l’intento del legislatore sia stato quello di imporre la più ampia comunicazione della titolarità di interessi collaterali dell’amministratore in una determinata operazione53. In senso contrario si argomenta considerando l’ipertrofia delle comunicazioni che sarebbero da far pervenire all’organo collegiale e che avrebbe come effetto collaterale ed indesiderabile quello intasare l’operato dell’organo collegiale, gravandolo di questioni spesso “bagatellari” inidonee ad influire in maniera rilevante sulla società54. In senso contrario sembrerebbe deporre invece la stessa Relazione alla riforma delle società di capitali, della quale si citano di seguito due passaggi particolarmente significativi: “l'ampia circolazione delle informazioni sulla gestione, con particolare trasparenza sulle operazioni relativamente alle quali gli amministratori possano, anche per conto terzi, avere un interesse, tende da un lato a rendere efficaci ed utili le riunioni e le deliberazioni del consiglio … e, d'altro lato, a definire un'articolazione interna del consiglio e del suo funzionamento in cui i rispettivi poteri e doveri del consiglio e degli organi delegati siano delineati con precisione, in modo che anche le rispettive responsabilità possano essere rigorosamente definite”; “il … rigore di questa disciplina vuole sottolineare non solo che qualsiasi amministratore, essendo un gestore di un patrimonio altrui, non può approfittare della sua posizione per conseguirne diretti o indiretti vantaggi, ma, soprattutto, il valore della trasparenza nella gestione delle società”. I fini dichiaratamente perseguiti dal legislatore della riforma sono altamente meritevoli e perseguono nel loro complesso il fine di creare un circuito informativo efficace che renda l’agire dell’organo amministrativo collegiale il più efficiente possibile; rientra nell’ambito di tale efficienza anche la caratteristica della pronta individuazione di problematiche legate a situazioni in cui un conflitto sussiste: ed è quindi lecito chiedersi se a fronte di tali obiettivi non sia invece preferibile propendere per una interpretazione estensiva della lettera della legge, con la quale imporre una disclosure più ampia riguardo agli interessi che sussistono in capo al singolo amministratore. L’opinione a favore di un’interpretazione restrittiva, argomentando in base alla rilevanza (quale sinonimo di non marginalità) dell’interesse, ed alla necessità che l’agire dell’organo gestorio non venga ostruito da comunicazioni di scarsa importanza, pare presupporre una diligenza nelle comunicazioni relative ad interessi degli amministratori la quale invece non sembra essere presupposta dal legislatore della riforma. In altri termini, il legislatore della riforma, nell’ampliare gli obblighi comunicativi degli amministratori, non può non essere partito da una valutazione, se non negativa, per lo meno non totalmente positiva della previgente disciplina la quale invece già sanciva un orientamento, per così dire, “restrittivo” rispetto agli interessi da rendere noti. L’ampiamento delle ipotesi (che si sostanziano in un catalogo atipico e potenzialmente illimitato) in cui l’amministratore deve dare comunicazione dei propri interessi all’organo, congiuntamente al dato per cui è sottratta all’amministratore la valutazione relativamente alla rilevanza dell’interesse di cui è portatore rispetto a quello sociale, sembra orientare la lettura della norma decisamente in senso ampliativo e quindi maggiormente rigoroso, non lasciando spazio per esenzioni dall’obbligo di comunicazione per fattispecie “bagatellari”, in quanto tale lettura parrebbe incentivante di condotte elusive dei fini che la legge si prefigge di attuare introducendo tale norma innovativa all’interno del sistema.

Al co. 2 si prevede: “nei casi previsti dal precedente comma la deliberazione del consiglio di amministrazione deve adeguatamente motivare le ragioni e la convenienza per la società dell’operazione”.  Si può pertanto procedere al compimento dell’operazione nonostante la sussistenza dell’interesse, a patto che la deliberazione sia adeguatamente motivata in merito alle ragioni e alla convenienza che essa presenta per la società. Ciò costituisce nuovamente corollario di un sistema improntato alla circolazione dell’informazione, la quale, una volta pervenuta a tutti i destinatari, può essere posta alla base di una delibera sia di segno negativo, sia di segno positivo in merito al compimento dell’operazione. Nuovamente si coglie una prospettiva che dà rilevanza non tanto al singolo elemento in sé (costituito se si vuole dall’interesse stesso oppure dal soggetto a cui fa capo), quanto al ruolo che può rivestire nel più ampio contesto nel quale si inserisce.

Nei casi di inosservanza a quanto disposto nei due precedenti commi del presente articolo ovvero nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell’amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro data; l’impugnazione non può essere proposta da chi ha consentito con il proprio voto alla deliberazione se sono stati adempiuti gli obblighi di informazione previsti dal primo comma”.
È quanto prevede il terzo comma, il quale si occupa delle conseguenze della violazione del regime previsto in ambito di interessi degli amministratori. Le deliberazioni adottato in violazione della normativa possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale qualora possano recare danno alla società. La disposizione conferma l’obiettivo perseguito dal legislatore di rendere esperibili le impugnazioni soltanto qualora la loro adozione possa costituire un pregiudizio per la società, una prospettiva quindi nettamente oggettiva, che prende le distanze dalla dimensione più marcatamente individualistica del sistema previgente. Ciò, si ripete, con l’intento di conferire maggiore stabilità all’agire sociale e di destabilizzarne i procedimenti soltanto in presenza di fenomeni rilevantemente patologici.
L’impugnazione non potrà essere proposta da chi ha consentito con il proprio voto alla deliberazione, se sono stati adempiuti gli obblighi informativi. Essendo il fine perseguito dalla normativa in esame quello di fare circolare al meglio l’informazione, viene responsabilizzato l’amministratore che, in possesso delle informazioni dovute, ha tuttavia deciso di autorizzare con il proprio voto il compimento dell’operazione, prevedendo che non possa contribuire a vanificare il risultato che ha contribuito a porre in essere.

Al quarto comma è previsto il regime di responsabilità conseguente alla violazione delle regole dettate dall’art. 2391: “l’amministratore risponde dei danni derivati alla società dalla sua azione od omissione”. Intuibilmente con i termini “azione” ed “omissione” ci si riferisce rispettivamente agli atti compiuti dagli amministratori senza avere adempiuti gli obblighi di informativa ed agli obblighi di informativa non adempiuti. La natura di tale responsabilità varia da quella prevista all’art. 2392 c.c.

In entrambi i casi si tratta di responsabilità contrattuale, ma vi è una fondamentale differenza. Nel caso della responsabilità sociale prevista dall’art. 2392 la società deve dimostrare la contrarietà allo standard legale di diligenza del comportamento dell’amministratore e che da tale violazione le sia derivato un danno55. Nell’ipotesi del quarto comma, invece, bisogna dimostrare che si sia verificata l’azione o l’omissione, il danno, ed il relativo nesso di causalità. Non vi è dunque la necessità di provare che l’amministratore non abbia adottato lo standard legale di diligenza.
Il quinto comma dell’articolo prevede infine che “l’amministratore risponde … dei danni che siano derivati alla società dalla utilizzazione a vantaggio proprio o di terzi di dati, notizie o opportunità di affari appresi nell’esercizio del suo incarico”, così disciplinando la responsabilità derivante dallo sfruttamento a proprio favore delle c.d. business opportunities.

 

Note e riferimenti bibliografici

1F. Bonelli, Gli amministratori di S.p.A. dopo la riforma delle società, Giuffrè, 2004, p. 7
2M. Campobasso et al., Società, banche e crisi d'impresa, UTET Giuridica, 2014; contributo di G. Guizzi, pp. 1043-1044
3C. Angelici, La riforma delle società di capitali, II ed., CEDAM, p. 161
4G. Guizzi, Op. cit., p. 1045
5F. Bonelli, Op. cit., p. 9
6Ibid.
7P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Appunti di diritto commerciale, VII ed., 2010, p. 345
8Ibid.
9F. Bonelli, Op. cit., p. 12, 14
10AA.VV., Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Utet, 2007, contributo di P. Montalenti, p. 836
11F. Bonelli, Op. cit., p. 44
12P. Montalenti, Op. Cit., p. 837
13C. Angelici, Op. cit., p. 166
14P. Montalenti, Op. cit., p. 838
15P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 373
16Ibid.
17C. Angelici, Op. cit., p. 163
18P. Montalenti, Op. cit., p. 839
19C. Angelici, Op. cit., p. 163
20Id., p. 164
21F. Bonelli, Op. cit., p. 48
22Id., p. 181
23P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 375
24AA.VV., Le società per azioni, Codice civile e norme complementari, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, a cura di M. Campobasso, V. Cariello, U. Tombari, Giuffrè, 2016, contributo di F. Briolini, p. 1404
25F. Bonelli, Op. cit., p. 194
26Ibid.
27Ambrosini, La responsabilità degli amministratori, in Trattato di diritto commerciale, diretto da Cottino, IV-1, Le società per azioni, Cedam, 2010, p. 658
28F. Briolini, Op. cit., p. 1411
29Ibid.
30F. Briolini, Op. cit., p. 1412
31Ibid.
32Ibid.
33P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 376
34F. Briolini, Op. cit., p. 1409
35F. Bonelli, Op. cit., p. 196
36Id., p. 198
37P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 376
38F. Bonelli, Op. cit., p. 199
39Id., p. 200
40P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 382
41F. Bonelli, Op. cit., p. 225
42Id., p. 214
43P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 382
44F. Bonelli, Op. cit., p. 215
45P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 377
46F. Bonelli, Op. cit., p. 205
47AA.VV., Amministratori, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, a cura di F. Ghezzi, Edizioni Egea, Giuffrè, 2005, contributo di M. Ventoruzzo, p. 425
48v. diffusamente in C. Angelici, Op. cit.
49id., p. 167
50P.G. Jaeger, F. Denozza, A. Toffoletto, Op. cit., p. 363
51M. Ventoruzzo, Op. cit., p. 440
52Ibid.
53M. De Poli, “Interessi” e “conflitto di interessi” degli amministratori nella società per azioni, Conflitto di interessi nelle società, in Rivista di Diritto Bancario, Gennaio 2015, www.dirittobancario.it
54Ibid.
55M. Ventoruzzo, Op. cit., p. 495