Pubbl. Ven, 10 Mar 2017
Libertà di cura e libertà di terapia. Segnalazione alla Procura per terapia dannosa.
Modifica pagina“Quella terapia non è sicura”. Elena, tre anni, ha un tumore ed i suoi genitori decidono di rivolgersi ad un medico di Tel Aviv, nonostante a Milano il protocollo funzioni perfettamente. L´Istituto dei tumori, però, segnala alla procura le gravi condizioni del cambio di cura, ed i giudici accolgono la richiesta del PM e bloccano il trasferimento.
La base della libertà dell’individuo di scegliere come curarsi è costituita, almeno da un punto di vista giuridico, dal riconoscimento che è avvenuto nell’ultimo decennio, il diritto del cittadino di rifiutare qualsiasi trattamento, di rifiutare cioè qualsiasi intervento, che si presenti più o meno efficace, cioè come a dire «sul mio corpo nulla può essere fatto se non per mia scelta e per mia decisione».
Quale é, quindi, la base dell’idea di libertà di cura? Intanto occorre distinguere tra «libertà di cura» e «libertà di terapia». Con la prima espressione ci si riferisce alla libertà del singolo individuo di curarsi scegliendo anche il modo di curarsi, mentre la seconda riguarda il medico, nel momento in cui sceglie una terapia piuttosto che un’altra, in un determinato caso in esame[1].
Ogni individuo dovrebbe poter essere libero di curarsi come meglio crede, dunque, anche nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una malattia incurabile, il paziente ha diritto a poter rifiutare quella determinata terapia, ove lo ritenga opportuno. La base del principio de quo è da rinvenirsi nella nostra Carta Costituzionale, in base alla quale ogni soggetto è padrone del proprio corpo. Naturalmente il suddetto principio va contemperato con il disposto normativo dell' art. 5 c.c., il quale, vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuizione permanente dell' integrità fisica o che siano altrimenti contrari alla legge, all' ordine pubblico o al buon costume. Il dettato normativo in questione, è stato in passato oggetto di una diatriba dottrinale alquanto accesa, poichè un primo indirizzo, liberale-individualistico, era diretto a garantire la sfera di disposizione del corpo; un altro indirizzo era tipico dello stato autoritario di matrice paternalistica, diretto ad arginare gli atti dispositivi del proprio corpo al fine di salvaguardare l' integrità fisica del singolo e consentirgli l'adempimento dei suoi doveri verso la famiglia e lo Stato.
Ritornando al tema principe, si può affermare che libertà di cura vuol dire che ogni individuo potrà decidere cosa fare delle proprie cellule, perlomeno fin quando sarà in grado di esprimere la propria volontà. A questo punto bisogna domandarsi come possa essere raggiunta questa bramata libertà, vale a dire, attraverso quali strumenti, ideologie, pensieri, filosofie sia possibile giungere ad un livello tale da poter sostenere senza alcun dubbio che quell' individuo ha operato una scelta libera. Occorre assolutamente che la cultura scientifica e medica siano accessibili a tutta la popolazione e se questo tipo di cultura non è diffusa, chi governa deve far di tutto affinchè ciò avvenga altrimenti si finirà per essere vittime di truffe e ciarlatanerie[2].
Il contributo che ogni cittadino versa nelle "casse dello Stato" contribuisce anche per le cure del singolo, ma è impensabile obbligare lo Stato al sostegno di qualsiasi cura il paziente decida di sostenere. Ad esempio un cittadino che voglia curarsi mediante l' utilizzo di riti sciamani oppure attraverso pozioni magiche non può assolutamente pretendere che tali pratiche siano riconosciute dalla comunità scientifica e come tali possano gravare sulle casse dello Stato. La società, dunque, sostiene solo le cure che scientificamente sono state dimostrate essere efficaci e chiunque non voglia seguire tali direttive e voglia intraprendere altre "strade" lo potrà fare ma a sue spese. Quest' ultimo concetto stride con quanto affermato in alcune sentenze da parte di giudice che hanno ritenuto che il paziente avesse diritto al rimborso per le spese sostenute per le cure effettuate, nonostante queste terapie non avessero avuto alcun fondamento scientifico da parte della scienza medica (come ad esempio il metodo Stamina o la cura Di Bella)
Ogni essere umano nel momento in cui è in pericolo di vita, pur di salvarsi sarebbe disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo, anche a metodi privi di fondamento. Per tali ordini di ragioni è compito della scienza medica indicare quali sono le giuste cure da adottare, proprio per evitare che il soggetto affetto da una malattia si lasci raggirare dal "truffatore di turno".
A tal proposito è interessante fare un breve cenno sull'eutanasia. Una persona in fin di vita si sentirà un "peso" per la sua famiglia in primis e successivamente per la comunità stessa in quanto sà di gravare sulle casse dello Stato, nonostante per lui non ci siano possibilità di sopravvivenza. Se l' eutanasia fosse permessa nel nostro Paese, dunque, il paziente non esiterebbe ad optare per la strada più semplice, la morte; invece ciò che dovrebbe fare uno Stato, il quale - ai sensi dell' art. 32 della Costituzione - sancisce il bene salute come un diritto fondamentale per l'individuo e per la comunità, è di sostenere sempre il cittadino anche qualora per lui non ci sia alcuna possibilità di sopravvivenza. Contrariamente si permetterebbe a chiunque di poter disporre del bene vita in maniera impropria e l' interrogativo da porsi a questo punto sarebbe: se è possibile disporre del bene più importante in questo modo, cosa ne deriverebbe per quanto riguarda i beni giuridicamente sottoposti ad esso?
Dopo avere ribadito per l' ennesima volta l' importanza del diritto alla salute (diritto alle cure) e del diritto alla vita (eutanasia) è opportuno chiedersi quale sia la posizione del medico rispetto al rifiuto delle cure. Per quanto riguarda il rifiuto dei trattamenti terapeutici in generale e, in particolare del trattamento trasfusionale, come nel caso dei Testimoni di Geova va fatto un discorso a sè, poichè il rifiuto delle cure, quando viene espresso in modo inequivoco, attuale, effettivo e consapevole, rende illecito il comportamento del sanitario che procede ugualmente all’intervento diagnostico o curativo (Cass. sent. n.4211/2007)[3]. Il caso de quo riguardava una persona ricoverata in ospedale per una lesione all’arteria e della vena succlavia, con emorragia in atto a seguito di un incidente stradale, che aveva da subito esplicitamente manifestato la volontà di non essere sottoposto, in considerazione delle proprie convinzioni religiose, al trattamento di trasfusione. Senonché trasportato in sala operatoria, le sue condizioni subivano un repentino aggravamento per effetto di una lacerazione vascolare che aveva determinato una più vasta emorragia, tale da mettere in pericolo la sua vita e da indurre i sanitari a praticare la trasfusione. In seguito il paziente proponeva domanda di risarcimento dei danni morali subiti per essere stato costretto alla trasfusione, contro la sua volontà. La domanda fu respinta sia in primo grado che in appello.
Esaurita la discussione riguardo la sentenza del 2007, giova mettere in rilievo un' altra sentenza altrettanto rilevante sotto il profilo giuridico, la sentenza della Cassazione n. 364/1997. In questo arresto giurisprudenziale è stato enunciato il principio secondo cui il medico è obbligato ad informare il paziente non solo sui rischi prevedibili, ma anche “Tendenzialmente sugli esiti anomali o poco probabili – se noti alla scienza medica e non del tutto abnormi – sì che il malato possa consapevolmente decidere se correre i rischi della cura o sopportare la malattia, soprattutto nei casi in cui non si tratti di operazione indispensabile per la sopravvivenza”[4]. Si tratta di una sentenza decisiva che finalmente definisce con molta chiarezza la categoria del consenso informato, stabilendone la valenza effettiva riguardo la legittimazione dell’atto medico.
La sentenza, inoltre, offre un’autentica guida relativa agli interventi chirurgici, evidenziando che il dovere d’informazione concerne fondamentalmente cinque aspetti di assoluta rilevanza. Il primo aspetto riguarda la portata dell’intervento, quindi, la natura della sperimentazione, la durata nel tempo, la ratio e l' elemento teleologico; il secondo aspetto riguarda, invece, le inevitabili difficoltà che possono sorgere quando non si presta la dovuta attenzione al caso concreto; il terzo è riguardo alle conseguenze, cioè i risultati prevedibili con fondamento scientifico; il quarto aspetto, fondamentale, tratta gli eventuali rischi,solo quelli prevedibili ma non invece gli esiti anormali che, ponendosi ai limiti del fortuito, non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit; infine, il quinto ed ultimo aspetto, tratta le eventuali scelte alternative, così che il paziente possa comprendere e orientarsi attraverso una cosciente valutazione dei rischi relativi e dei corrispondenti vantaggi.
L'ennesimo arresto giurisprudenziale in materia, anche questo di assoluto rilievo, riguarda la sentenza numero 2483/2010 [5] nella quale viene ripreso il principio secondo cui, in linea di massima, il consenso può essere espresso sotto ogni forma (anche se la forma scritta è ritenuta essere portatrice di maggior garanzia). Invece, nel caso in cui la terapia o l’esame diagnostico possano portare a gravi conseguenze per la salute, il consenso deve essere obbligatoriamente fatto per iscritto. Il concetto suddetto vale anche quando si dona o si riceve sangue, quando ci si sottopone ad un trapianto, se si partecipa alla sperimentazione di un farmaco, in caso di interruzione di gravidanza e in caso di procreazione assistita.
Similmente viene anche affermato nella legge del 31 dicembre del 1996 numero 675 che si venga meno al dovere di “salvaguardia della vita e dell’indennità fisica dell’interessato […] ma solo allorché l’interessato non può prestare il proprio consenso per impossibilità fisica, per incapacità di agire o per incapacità di intendere e di volere”[6].
La necessità del consenso informato ha un suo corollario nell’art. 13 della Costituzione, il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica, considerandone inammissibile ogni restrizione se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria ai soli casi e modalità previsti dalla legge. Affinchè la libertà individuale non venga lesa, occorre che il consenso sia:
- Personale
- Esplicito
- Specifico
- Libero
- Attuale
- Informato
- Consapevole
a) Il consenso deve essere personale, in quanto, deve essere manifestato direttamente dal paziente e da nessun altro.
b) Deve essere esplicito. Si discute, tuttavia, se debba necessariamente essere anche espresso o se sia sufficiente un mero consenso tacito, per facta concludentia.
c) Inoltre, deve essere specifico, cioè deve avere ad oggetto il singolo intervento e non potrà, quindi, essere generico o onnicomprensivo, se non nei limitati casi di interventi di routine ed a basso rischio.
d) Successivamente, occorra che sia libero, cioè, che si formi liberamente e sia immune da vizi.
e) Deve essere attuale e non presunto, cioè, il consenso deve persistere al momento in cui inizia l’intervento.
f) Il consenso deve essere informato, in quanto, il sanitario deve fornire una specifica e particolareggiata informazione in ordine alla "natura dell’ intervento medico e/o chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi", solo così il paziente è messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa.
g) Infine, deve essere consapevole, poiché deve essere fornito da una persona capace di intendere e volere.
Santosuosso in merito alla tematica de qua affermava che: “È comunque certo come le recentissime norme e tendenze, siano o meno esse destinate ad essere recepite nel rinnovato codice penale, impongano soprattutto una nuova sensibilità del medico verso le questioni etico - deontologiche, quale, troppo spesso inascoltato, la medicina legale italiana fortemente propugna” [7].
Per quanto concerne l’impossibilità di esprimere il consenso, invece, già nel 1975, la Suprema Corte richiamando il dovere professionale del sanitario di rendere edotto il paziente riguardo all’intervento che intenda eseguire sul suo corpo,enunciava un concetto di fondamentale importanza, ovvero, formulava una riserva per le situazioni estreme quali ad esempio l’ ipotesi di un intervento necessario e urgente, ed il paziente non sia in grado neppure di esprimere una cosciente volontà, favorevole o contraria[8].
Successivamente la Cassazione aveva evidenziato come il consenso prestato da un parente del paziente, costituisce non l’esercizio di un diritto o di un potere proprio del congiunto, ma una facoltà che si esercita in nome e per conto dell’interessato stesso, inabilitato a farlo, con la conseguenza che l’esecuzione dell’intervento senza tale consenso lede pur sempre un diritto del soggetto che vi è sottoposto e non un diritto proprio di chi è chiamato a prestare, in sua vece, il consenso stesso.
Il problema concerne, nella sostanza, tutti i casi nei quali il sanitario si trovi di fronte ad un quadro clinico severo (anche per effetto di un improvviso e imprevisto peggioramento) e il paziente non sia in condizione di esprimere una qualsiasi volontà in merito all’intervento che il medico ravvisa necessario.
All’interrogativo se sia lecito il comportamento del sanitario, risponde la sentenza del 2007 ponendo attenzione soprattutto alla tutela della salute dell’individuo in stato di incoscienza, più che delle sue convinzioni ideali e/o religiose e attribuendo rilievo al “consenso presunto al trattamento terapeutico” [9].
Alle fonti normative in esame si aggiunge la “Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina”, la quale stabilisce a tenore dell’art.9 che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento non è in grado di esprimere la propria volontà, saranno tenuti in considerazione". Nel tentativo di chiarire in che cosa questo significato ex art.9 possa concretizzarsi, si afferma che si tratta di una disposizione, la quale, pone a carico del medico, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, una sorta di “onere cautelare”, consistente nel sincerarsi circa l’effettiva riferibilità di quel dissenso a quelle determinate cure. La Corte facendo riferimento alla norma citata ha escluso che il rifiuto al trattamento trasfusionale, manifestato al momento del ricovero, potesse reputarsi operante quando le trasfusioni si resero necessarie, potendosi dubitare che il paziente avrebbe ribadito il proprio dissenso, qualora avesse saputo l’effettiva gravità della lesione e dell’attuale pericolo di vita.
In definitiva, l’atto di autodeterminazione è sempre potenzialmente valido, ma l’impossibilità di una sua conferma ed ulteriore specificazione da parte del paziente rende in concreto più problematico comprendere se esso effettivamente possa adattarsi alla particolare situazione, rivolgendosi a quella prestazione terapeutica o diagnostica, implicando l’accettazione di quegli specifici esiti. Ciò significa che è corretto, da parte del medico, ritenere che il paziente, se avesse potuto conoscere le sue reali condizioni, sarebbe stato indotto ad accettare il trattamento. Da questa presunzione, discende il seguente principio:"nel momento in cui le trasfusioni si rendano necessarie a scongiurare il pericolo di vita del paziente, il sanitario che le effettui, seppur a conoscenza del rifiuto stesso del paziente stesso, pone in essere un comportamento scriminato ex art.54 c.p. che esclude la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile"[10].
Un altro caso di rifiuto del trattamento emotrasfusionale da parte di un Testimone di Geova, giunto all’esame della Corte di Cassazione, ha riguardato la richiesta di risarcimento del danno morale (si ripercuote sul soggetto mediante manifestazioni di carattere nervoso e psichico che non sempre hanno delle ripercussioni sul corpo del soggetto) ,subìto a seguito della trasfusione praticata dal medico, in una situazione di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente in stato di incoscienza, nonostante il sanitario avesse rinvenuto sulla sua persona un cartoncino con la scritta «niente sangue».
La III Sezione Civile della Suprema Corte, con la sentenza n.23676/2008, ha innanzitutto riaffermato l’obbligo del medico, in presenza di un testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, che nega il consenso alla terapia trasfusionale, di desistere da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico di tal natura. A parere della Corte, il dissenso, perché sia vincolante per il medico, “deve esprimere una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata; un’intenzione non meramente programmatica ma affatto specifica; una cognizione dei fatti non soltanto <>, ma frutto di informazioni specifiche in ordine alla propria situazione sanitaria”[11].
In altri termini, deve essere un dissenso attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, espresso cioè in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute.
In buona sostanza, un generico dissenso ad un trattamento, espresso in condizioni di piena salute, è cosa ben diversa dal riaffermarlo in una situazione di pericolo di vita.
La Corte sostenne che: “Sia innegabile, in tal caso, l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale sia, o lo stesso paziente che rechi con sé un’articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocabilmente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto, da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta, il quale, confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari”[12].
I giudici, dunque, hanno ritenuto che non ricorressero le condizioni per un valido dissenso in un caso in cui era risultato da un cartellino, rinvenuto addosso al paziente, testimone di Geova, al momento del ricovero, in condizioni di incoscienza, che recava l’ indicazione “niente sangue”, proprio perché la manifestazione di volontà al rifiuto della eventuale trasfusione non era stata espressa in modo inequivoco,anzi,il paziente ne era venuto a conoscenza al momento del ricovero in ospedale e,nonostante gli fossero state prospettate le probabili conseguenze nel caso in cui il trattamento non fosse avvenuto, non aveva espresso il suo dissenso alle cure.
In conclusione, nell’ipotesi di pericolo grave e immediato per la vita del paziente, il dissenso a un determinato trattamento terapeutico deve essere manifestato coscientemente dal medesimo, o da chi lo rappresenta, sulla base di una corretta informazione medica, deve essere cioè espresso in forma inequivoca, attuale, informata.
Seppure con diverse sfumature, la giurisprudenza di legittimità ha dunque sancito, il diritto alla libertà di cura del paziente, ribadendo che, attraverso il consenso informato, il malato può scegliere “tra le diverse possibilità di trattamento medico, compresa quella di rifiutare la terapia e decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale” [13].
Giova a questo punto della discussione in esame, analizzare nello specifico la recente segnalazione alla procura per i minorenni giunta il 24-01-17 da parte dell' Istituto dei tumori di Milano. Ai magistrati, i medici illustrano la storia clinica della piccola Elena di soli tre anni, a cui è stato diagnosticato un glioblastoma diffuso della linea mediana. Un tumore al cervello particolarmente pervasivo e aggressivo. L'Istituto propone ai genitori, dopo una serie di accertamenti, un ciclo di chemioterapia che parte lo scorso luglio scorso. A settembre, i medici riscontrano un "eccellente recupero neurologico", senza effetti collaterali. Nonostante l'età, Elena non perde i capelli e non ha nausea. I successivi esami confermano una "stabilità volumetrica" della malattia, con la massa tumorale che non risulta essersi allargata. Quella che sembrava una tragedia imminente, per fortuna è arginata, almeno temporaneamente.
Ma i genitori della piccola, non pienamente convinti della terapia prospettatagli, decidono di contattare degli esperti internazionali della patologia, prima in Francia, poi a Tel Aviv, avvisando i medici dell'Istituto milanese. A fine ottobre, la famiglia informa di volere trasferire Elena in Israele per una biopsia. L'Istituto avverte i genitori della piccola paziente delle probabili controindicazioni che possono accompagnare la scelta. La terapia seguita a Milano ha infatti dato risultati confortanti, eppure il consulto con il professore Shlomi Constantini dà un esito differente: secondo l'israeliano, la malattia è meno aggressiva di quanto riscontrato in Italia e consiglia una "terapia molecolare".
Tornati in Italia, i genitori di Elena decidono di interrompere la terapia e partire per Tel Aviv, ma l'Istituto dei tumori a segnala alla procura le gravi conseguenze del cambio di cura e dell'imminente trasferimento in Israele di Elena. I pm della procura decidono di chiedere al Tribunale di valutare se esistano gli estremi per ridurre la responsabilità genitoriale, fermando intanto il trasferimento all'estero della piccola. A seguito dell' udienza i giudici accolgono le richieste dei pm, bloccano il trasferimento e motivano la loro decisione: "Le condizioni emotive difficilissime dei genitori hanno portato a interrompere una terapia efficace per affrontare una sorta di viaggio della speranza, senza garanzie da un punto di vista clinico. L'istituto oncologico si è messo in contatto con il professore di Tel Aviv, che però non avrebbe fornito informazioni scientificamente valide sul suo metodo di cura".
Sono attese importanti novità in merito al caso de quo da parte delle autorità competenti, per cercare di chiarire sempre maggiormente quali siano i confini della libertà di cura e di terapia, le quali, rischiano sempre di più di subire una inesorabile erosione a causa di "pseudo" cure mediche che non hanno il benchè minimo riscontro nella comunità scientifica.
Note e riferimenti bibliografici
[1] A. Santosuosso, Libertà di cura libertà di terapia, ed. Il Pensiero Scientifico - Roma, 1998 - pag. 12
[2] S. Di Grazia, Salute e bugie, ed. Chiare Lettere - Milano, 2014 - pag. 31.
[3] Cass. III sez. civ., sentenza del 21 febbraio 2007, n.4211.
[4] Cass. III sez. civ., sentenza del 15 gennaio 1997, n.364.
[5] Cass. Pen., sentenza del 2010 n. 2483.
[6] Legge sulla privacy, n. 675 del 1996: Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali.
[7] A. Santosuosso, op.cit., pag 54.
[8] Suprema Corte , sentenza del 18 giugno 1975, n. 2439.
[9] Cass. III sez. civ., sentenza del 21 febbraio 2007, n. 4211.
[10] Cass. III sez. civ., sentenza del 21 febbraio 2007, n. 4211.
[11] Cass.III sez.civ., sentenza del 15 settembre 2008, n. 23676.
[12] ibidem.
[13] Cass. sez. civ., sentenza del 16 ottobre 2007, n. 21748.