Pubbl. Gio, 23 Feb 2017
La pubblicità commerciale comparativa secondo l'Unione Europea: il caso di locali commerciali di differenti dimensioni
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Luigimaria Riccardi
La Corte di Giustizia interviene in tema di pubblicità comparativa a fini commerciali. Essa presenta numerosi vantaggi tra i quali quello di essere maggiormente persuasiva, in particolare, per comparare in modo diretto la qualità di prodotti che il consumatore finale conosce o di cui ha bisogno. Tuttavia, molto spesso, essa può essere ingannevole.
Sommario: 1. Premessa; 2. In fatto; 3. Le direttive 2005/29/CE e 2006/114/CE; 4. La sentenza 562/15.
1. Premessa
La Corte di Giustizia con sentenza n. 562/15 dell’8 febbraio 2017 torna a occuparsi di pratiche commerciali sleali e, in particolare, interviene confrontandosi con campagne pubblicitarie comparative, di per sé nella prassi molto spesso ingannevoli.
Dopo una breve analisi dei fatti, si richiamerà brevemente la disciplina predisposta dall’Unione europea e, infine, si analizzerà il giudizio offerto dalla Corte di Giustizia UE.
2. In fatto
Nel dicembre 2012, la Carrefour ha lanciato una campagna pubblicitaria televisiva intitolata “garantie prix le plus bas Carrefour” (garanzia del prezzo più basso Carrefour). Detta pubblicità confrontava i prezzi di cinquecento prodotti di grandi marche applicati nei negozi Carrefour ed in negozi concorrenti (fra i quali erano presenti i negozi Intermarché) e, al contempo, offriva al consumatore il rimborso del doppio della differenza di prezzo se avesse rinvenuto altrove un prezzo più basso.
A partire dal secondo spot televisivo, i negozi Intermarché selezionati per il confronto erano tutti supermercati, mentre i negozi Carrefour erano tutti ipermercati. Tale informazione compariva, tra l’altro, solamente in caratteri più piccoli sotto il nome Intermarché.
Ora, l’ITM, una società incaricata della strategia e della politica commerciale dei negozi dell’insegna Intermarché, ha agito dinanzi al giudice francese al fine di ottenere la cessazione della pubblicità in parola nonché il risarcimento dei danni per pubblicità ingannevole.
Adita della controversia, la Cour d’appel (Corte d’appello) di Parigi ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Ue di pronunciarsi sulla seguente questione: se una pubblicità del genere, in cui sono posti a confronto i prezzi di prodotti venduti in negozi diversi quanto a dimensioni o tipologia, sia lecita alla luce della direttiva sulla pubblicità ingannevole e comparativa[1], ai sensi della dir. 2006/114/CE. Inoltre, la Corte ha chiesto se la differenza tra i negozi interessati, diversi quanto a dimensioni e tipologia, costituisca un’informazione rilevante che, conformemente alla dir. 2005/29 sulle pratiche commerciali sleali[2], debba essere necessariamente segnalata al consumatore affinché quest’ultimo possa assumere una decisione consapevole di natura commerciale.
3. Le direttive 2005/29/CE e 2006/114/CE
Prima di affrontare la sentenza della Corte di Giustizia, è necessario premettere brevemente qualche parola sulla disciplina che l’Unione europea predispone in materia di pratiche commerciali sleali e pubblicità comparativa-ingannevole, in particolare analizzando le dir. 2005/29/CE e 2006/114/CE.
In primo luogo, la dir. 2006/114/CE regola i rapporti solo tra i professionisti in tema di pubblicità ingannevole e comparativa. Analizzando in breve il provvedimento in commento, esso si prefigge l’obiettivo di “tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”. La norma detta in generale la disciplina di pubblicità commerciale, la quale è applicabile a qualsiasi messaggio pubblicitario, a prescindere dalle caratteristiche del prodotto o servizio pubblicizzato, dalla tipologia di utilizzo del prodotto o servizio in analisi, dall’identità di coloro che ne sono destinatari, e dalle finalità ai quali tali beni e servizi sono preposti. La presente direttiva fornisce le definizioni di pubblicità, pubblicità ingannevole, pubblicità comparativa e professionista.
In particolare, la pubblicità ingannevole viene definita come qualsiasi pubblicità che induce in errore o può pregiudicare il comportamento del consumatore, o, se per questi motivi, lede un concorrente. La pubblicità comparativa viene definita quale pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito beni o servizi offerti da un concorrente espressamente individuato.
Per quanto attiene alla nostra indagine, si richiamano brevemente gli artt. 3, 4, 5 e 7.
Nell’art. 3 vengono sanciti quali siano gli elementi da tenere in considerazione qualora ci si trovi di fronte ad una pubblicità ingannevole, mentre nell’art. 4 vengono mantenute le condizioni di liceità da tenere in considerazione per valutare la pubblicità comparativa.
L’articolo 5, invece, entra nel merito della tutela per gli Stati membri di ricorrere contro la pubblicità ingannevole e garantire invece che siano rispettate le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. Agli Stati, infatti, è permesso di ricorrere all’azione giudiziaria contro la pubblicità ovvero di sottoporre la pratica al giudizio di un’autorità competente. Ad essi è riconosciuta anche la facoltà di decidere sui mezzi adeguati da utilizzare e alla modalità attraverso le quali presentare la denuncia. Inoltre, nel terzo comma dell’art. 5 viene sancito che qualora la pratica risulti ledere l’interesse di un professionista concorrente possono essere intraprese due soluzioni: a) può essere sospesa la pubblicità ingannevole o comparativa oppure, b) si può ricorrere ad azioni che inibiscano la pubblicità decettiva.
L’art. 7, infine, attribuisce all’organo preposto la tutela amministrativa e giurisdizionale di cui all’art.5. Esso sancisce che qualora l’Autorità abbia interesse di agire, può chiedere che siano fornite prove sull’esattezza materiale dei dati di fatto contenuti nella pubblicità e altresì può considerare inappropriate le prove e il materiale fornito qualora esse risultino insufficienti.
Per quanto concerne invece la dir. 2005/29, essa dedica la sua prima parte, dall’art. 2 all’art. 13, alla regolamentazione delle pratiche commerciali sleali, suscettibili di essere ricomprese nella nozione di pratiche commerciali tra imprese e consumatori. In questa fattispecie, la direttiva ha lo scopo di imporre agli imprenditori degli Stati membri, il divieto generalizzato di porre in essere pratiche commerciali lesive degli interessi economici dei consumatori, che si prestino ad essere qualificate come “sleali”.
In più, si delinea un complesso sistema di valutazione al fine di introdurre a livello europeo un insieme di parametri uniformi per stabilire se una pratica commerciale possa o meno considerarsi lecita. Infine, essa affida agli Stati membri il compito di predisporre i mezzi adeguati per prevenire e reprimere le pratiche commerciali sleali e quindi un sistema di sanzioni nei confronti dei professionisti che dovessero farne ricorso.
La seconda parte introduce una serie di modifiche a provvedimenti comunitari già in vigore[3].
La normativa in commento si pone l’obiettivo di armonizzare le legislazioni nazionali in materia di pratiche commerciali fra professionisti e consumatori e risulta indispensabile per rimuovere gli ostacoli che impediscono le negoziazioni transfrontaliere, il cui incremento qualitativo e quantitativo risulta essere direttamente legato al raggiungimento dell’obiettivo di un’armonizzazione dei prezzi praticati all’interno del mercato unico europeo per i medesimi beni o servizi, dell’ampliamento e per la diversificazione dell’offerta di prodotti e servizi da parte dei consumatori finali[4]. Un’offerta che consente a questi ultimi di accedere a beni o servizi qualitativamente migliori o più innovativi rispetto a quelli offerti dai loro Paesi (nonché a prezzi inferiori), stimolando al contempo, da un lato, una concorrenza leale e continua tra le imprese e, dall’altro, un’effettiva libera circolazione delle merci di per sé ostacolata dalle differenti discipline commerciali nazionali[5].
4. La sentenza 562/15
Premesso quanto precede, con la sentenza in esame, la Corte di Giustizia Ue rammenta, innanzitutto, che in forza della direttiva 2006/114 ogni pubblicità comparativa deve confrontare obiettivamente i prezzi e non essere ingannevole. Quindi, allorché l’operatore pubblicitario e i concorrenti appartengano a ditte, ciascuna delle quali possiede una gamma di negozi diversi quanto a dimensioni e tipologia, e il confronto non sia riferito alle medesime tipologie e dimensioni di negozi, l’obiettività del confronto può risultarne falsata se la pubblicità non menziona tale diversità.
La Corte di Giustizia sottolinea che i prezzi dei beni di consumo corrente, infatti, possono subire variazioni in funzione della tipologia o delle dimensioni del negozio, cosicché un confronto asimmetrico può avere l’effetto di creare o aumentare artificiosamente la differenza fra i prezzi dell’operatore pubblicizzato e quelli dei concorrenti in funzione della selezione dei negozi oggetto di confronto.
La Corte ricorda, peraltro, che è ingannevole una pubblicità comparativa che ometta o occulti un’informazione rilevante di cui il consumatore finale medio ha bisogno, tenuto conto del contesto, per prendere una decisione consapevole di natura commerciale, o che presenti un’informazione del genere in modo oscuro, ambiguo, incomprensibile ed intempestivo, di conseguenza inducendo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Considerato ciò, quindi, una pubblicità, come quella in discussione nel caso in esame, è idonea ad esplicare un’influenza sul comportamento economico del consumatore, inducendolo ad assumere una decisione nell’errato convincimento che beneficerà delle differenze di prezzo vantate nella pubblicità acquistando i prodotti pubblicizzati in tutti i negozi dell’insegna dell’operatore pubblicitario anziché in negozi delle insegne concorrenti.
Tuttavia, la Corte dichiara che una simile pubblicità risulterà ingannevole soltanto se il consumatore non venga informato del fatto che il raffronto è stato effettuato fra i prezzi applicati nei negozi di dimensioni o tipologia superiori dell’operatore pubblicizzato e quelli rilevati nei negozi di dimensioni o tipologia inferiori delle ditte concorrenti. A tale riguardo, la Corte precisa che detta informazione deve non soltanto essere fornita in modo chiaro, ma altresì comparire nel messaggio pubblicitario stesso (non ambiguamente o in maniera del tutto ininfluente sul consumatore).
Spetterà ora alla Cour d’appel di Parigi verificare se tale requisito sia soddisfatto nel caso di specie.
Note e riferimenti bibliografici
[1] Direttiva 2006/114/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa (GU 2006, L 376, pag. 21).
[2] Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (GU 2005, L 149, pag. 22).
[3] dir. n. 1984/450/CE e n. 1997/55/CE (art.14), alle dir. n. 1997/7/CE, 2002/65/CE e n. 98/27/CE.
[4] UBERTAZZI L.C., Concorrenza sleale e pubblicità, Milano, 2008; Unione Europea (a cura di) Libro Verde sulla protezione dei consumatori nell'Unione Europea, Bruxelles, 2001.
[5] AUTERI P., La disciplina della pubblicità in AA. VV, Diritto industriale – Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2012; BURRESI A., AIELLO G., GUERCINI S. (a cura di), Marketing per il governo d'impresa, Torino, 2006.